Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 3 (1/2)

 Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 3 (Parte 1/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 13 (A-B)

Bologna, 27 gennaio 1987 - Fine Ultimo n. 13 (A-B)

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Miei cari. Dunque, adesso, iniziamo la settima questione della I-II. Dopo il volontario e l’involontario, iniziamo, cominciamo ad indagare sulle circostanze dell’atto umano. Premetto che S.Tommaso riprenderà, e noi assieme a lui, questo discorso delle circostanze, quando parlerà delle fonti della moralità, le cosiddette fonti della moralità, cioè da dove nasce il bene e il male negli atti umani. Tra tante determinazioni ci sarà anche quella delle circostanze.

Ora, che cosa sono esattamente le circostanze? Fin dal primo articolo S.Tommaso precisa che le circostanze sono propriamente gli accidenti, to symbebekòs, direbbe Aristotele, to katà symbebekòs, ciò che accade a una cosa. Quindi, sono praticamente gli accidenti dell’atto umano. Ciò che sono gli accidenti rispetto alla sostanza, o meglio, rispetto all’essenza di una sostanza, - poi vi spiego il perchè - lo sono le circostanze rispetto all’atto umano.

Ora, all’inizio di questo articolo, S.Tommaso dice una cosa molto bella,  che in genere vale per le realtà fisiche, materiali, corporee: noi siamo portati a trasferire il loro significato, per una specie di metonimia, da queste realtà a significare delle realtà spirituali, che non sono direttamente accessibili nè al nostro concetto nè ai nostri termini, né alle nostre espressioni.

Non abbiamo, diciamo, una concettualità, e quindi nemmeno un linguaggio, che adeguatamente possa significare le cose spirituali in se stesse. In tal modo, per esempio, noi parliamo di distanza non solo in termini spaziali, ma anche per significare, per esempio, una distinzione tra una realtà e una altra. Diciamo, per esempio, che la giustizia è ben distante dall’ingiustizia. Tanto per darvi un esempio.

Ovviamente tra giustizia ed ingiustizia non c’è distanza spaziale, non si può dire che la giustizia dista due metri dalla ingiustizia. Certamente no. Però, si usa questo linguaggio trasferendo, in qualche modo questa terminologia dal mondo dei sensibili al mondo delle realtà spirituali. Così similmente si parla in termini di collocazione sia sul piano materiale che spirituale; si parla in termini di moto o movimento, sia, diciamo così, sia in rapporto ad azioni transitive fisiche sia ad azioni che solo analogicamente si possono dire tali, cioè movimento, azioni di ordine spirituale ed immanente.

Similmente la parola circostanza è presa da un qualche cosa di nettamente spaziale, circumstare, che significa semplicemente stare attorno a. Quindi, si potrebbe dire che circostante è il luogo propriamente parlando. Voi conoscete la concezione aristotelica del luogo: circostante è proprio il corpo contenente un altro corpo collocato. Per esempio, l’orologio è circondato dall’aria. Ora, l’aria è il corpo contenente e l’orologio è il corpo contenuto. Ora, ovviamene il luogo non è l’aria che ci sta attorno, ma la superficie prima[1] immobile attorno a questo oggetto. Quindi ovviamente il luogo è poi un’astrazione[2].

Tuttavia la circostanza è desunta da questo fatto della collocazione dei corpi: un corpo che si trova in un altro. Per esempio, noi tutti, anche queste cose che ci troviamo dinnanzi sono in qualche modo immerse nell’aria. L’aria è circostante. Quindi c’è un corpo che circonda un altro corpo. Questo è, diciamo così, il senso proprio della parola circostanza. Da qui la parola circostanza è stata presa per significare ciò che sta attorno, appunto, ma nel senso non più spaziale, locale, materiale, ma nel senso spirituale: ciò che sta attorno all’atto umano.

Ora, vedete, S.Tommaso dice che proprio le circostanze dell’atto umano, come il corpo circondante un altro, che è collocato in esso, giunge a contatto con il corpo collocato, ma senza entrare in esso, cioè lo circonda proprio, gli sta attorno, non entra in esso però arriva a contatto con esso. Similmente si deve dire che le circostanze non giungono all’essenza dell’atto umano, ma giungono solo a contatto con la sua essenza. Ecco. Sono quelle determinazioni concrete nelle quali l’atto umano avviene.

E in tal senso, dice S.Tommaso, ovviamente, spetta all’accidente, al symbebekòs di aristotelica memoria, di essere in una sostanza, senza fare però parte dell’essenza della sostanza. Quindi analogicamente alla circostanza si applica proprio la caratteristica dell’accidentalità. La circostanza è accidentale rispetto all’atto umano, perchè non entra nella costituzione della sua essenza. Notate bene che l’atto umano ovviamente non è una sostanza. Quindi, vedete che sia tratta di una analogia.

Come l’accidente sussiste nella sostanza senza fare parte della sua essenza, così le circostanze sono come degli accidenti, rispetto all’essenza dell’atto umano, che però non è una essenza sostanziale, ma l’essenza di un accidens, perchè l’atto umano sussiste nella persona che lo pone.

Perché, notate che talvolta ho un po’ una certa scepsi[3]. Se c’è qualche cosa che non si comprende, ditemelo. Fin qui non penso che la cosa sia molto difficile. Quindi, quidditas accidentis. Cioè ogni accidente ha una sua natura per quanto accidentale. Ora, le circostanze sono accidenti dell’accidente, se volete. Cioè, sono accidentali rispetto a quella realtà accidentale, che è l’azione. L’azione umana è un accidente rispetto al soggetto, alla persona umana, che pone tale atto.

Ora, le circostanze non entrano nell’essenza di questa realtà accidentale, che è l’atto umano, ma stanno attorno, cioè arrivano a contatto senza entrare dentro, per così dire. Vedete come di nuovo dobbiamo usare una terminologia fin troppo materiale e spaziale. Quindi, non entrano nell’essenza dell’atto umano, ma arrivano a contatto con esso. O meglio, l’atto umano arriva a contatto con le circostanze.

Si potrebbe quindi dire che le circostanze quasi rivestono l’atto-umano. Pensate, per esempio, alla circostanza quis. Chi fece una cosa o chi è stato oggetto di una azione. Pensate ad uno costituito in dignità, per esempio un chierico. Oggi, siamo in una società laicale[4], ma una volta, oltraggiare un chierico era una circostanza aggravante. Moralmente lo è tuttora. Tenete conto, cari figlioli, di questo, cioè che, per quanto le leggi possano rinunciare a dichiarare la religione cattolica come religione di Stato, moralmente non cambia nulla.

Quindi, praticamente si tratta della dignità della persona. Ho fatto l’esempio del chierico, ma potrebbe essere una persona costituita in dignità, il sindaco rappresentante della città, tanto per fare esempi più laicali. In sostanza, se una persona costituita in dignità, viene oltraggiata, questo oltraggio, al di là dell’ingiuria che si arreca al prossimo e che è sempre una ingiustizia, costituisce una circostanza aggravante, considerando di chi è stato oltraggiato.

Ora, l’azione di oltraggio, l’ingiuria arrecata al prossimo in qualche modo si riveste di quella circostanza, che è la persona di chi è stato oggetto di una tale azione. Ora, S.Tommaso precisa una cosa. Questo è molto importante per la metafisica della realtà accidentale. Egli dice infatti che l’accidens si dice in due modi. Conoscete la distinzione, e comunque questo lo dice, mi pare, in fine all’ad secundum. Dunque, l’accidente si dice in due modi. Si dice sia come accidens praedicamentum, sia come accidens praedicabile. E l’accidens praedicabile si dice ancora come proprium e improprium.

Ora, l’accidente predicamento è l’accidente che si dice rispetto alla sostanza. Per esempio, la qualità è un predicamento della sostanza. La qualità inerisce, non è in grado di sussistere in sé, ma ha la sua sussistenza nel soggetto. Quindi, l’accidente predicamentale si dice rispetto a una sostanza.

L’accidente predicabile invece si dice rispetto all’essenza della cosa, Se tale accidente è strettamente legato con l’essenza, come proprietà essenziale, esso sarà un accidente predicabile proprio. Se non c’è questo legame connaturale tra la realtà accidentale e l’essenza della cosa, si tratterrà di un accidente improprio.

Faccio un esempio. L’intellettualità dell’uomo è certamente strettamente connessa con la sostanza dell’uomo, tuttavia la facoltà intellettiva è una qualità del soggetto uomo. Quindi l’intellettualità intesa non come costitutivo dell’essenza, ma come facoltà intellettiva l’intellettualità intesa come facoltà intellettiva è un accidens in subiecto, quindi un accidente predicamentale. Nel contempo però è un accidente predicabile, ma proprio, perchè spetta all’essenza dell’uomo avere l’intellettualità, avere la facoltà intellettiva.

Invece, provate a pensare, così, tanto per dire, a questa cosa: Socrate è bianco, per esempio. E’ pallido, non ha preso il sole, insomma Allora, questo essere pallido ovviamente è un accidente, non solo predicamentale, una qualità in Socrate, ma è anche un accidente predicabile improprio, perchè non è connesso con l’essenza di Socrate essere pallido o abbronzato, non ha nessuna rilevanza rispetto all’essenza dell’uomo.

Ora, naturalmente l’accidentalità delle circostanze non è l’accidentalità dell’accidente predicamentale, che sussiste nella sostanza, giacché l’atto umano non è appunto sostanza, come abbiamo visto. Ma si dice circostanza ciò in cui, sarebbe meglio dire così, quasi l’ambiente in cui si svolge l’atto umano, senza che quell’ambiente entri nella costituzione dello stesso atto umano.

Il fatto che uno faccia ingiuria a un chierico, e il fatto di essere chierico è una cosa esterna al fatto dell’ingiuria. L’atto sarebbe comunque un atto di ingiuria, che sia fatto ad un chierico o ad una autorità politica, civile, o ad un semplice cittadino, non fa differenza. Dal punto dell’essenza invece, l’essenza morale dell’atto è sempre quella. Cambia però quanto alla circostanza.

Notate che la moralità che deriva dalle circostanze è estremamente importante, perchè ci saranno delle circostanze, come vedremo più avanti, che possono cambiare la specie dell’atto. E’ una cosa molto misteriosa, perché appunto qui vedete che l’analogia non regge più, Perché? Perchè un gran numero di accidenti non dà neanche una sostanza. Miei cari, vedete, non è la moltitudine che fa le cose, checché ne dicano i nostri democratici ad oltranza. In sostanza, anche gli accidenti, proprio moltiplicati, non danno neanche una sostanza, ontologicamente parlando.

Invece in moralibus però può succedere. Lì può succedere che un accidente dell’atto umano assuma una tale rilevanza rispetto alla ragione, che entri nell’essenza stessa dell’atto. L’esempio classico è quello del furto sacrilego, in sostanza. Asportare una proprietà altrui senza la consapevolezza del proprietario è furto. Fin qui c’è proprio l’essenza della moralità di questo atto. Se però questo atto di furto si compie in un luogo sacro, in una chiesa, in un cimitero, eccetera, non è più furto, ma è sacrilegio.

Similmente, non so, riguardo appunto ai peccati, ai peccati contro la castità in persone consacrate. Cioè non si tratta solamente di un peccato contro quel determinato comandamento con la moralità di intemperanza, eccetera, ma sia tratta anche di una profanazione della persona consacrata. Quindi di un vero e proprio sacrilegio. E’ un’altra cosa. Quindi una moralità viene aggiunta all’altra, solo che la circostanza è talmente incisiva da cambiare la specie dell’atto.

Questo non è un discorso facile. Perché? Perché non c’è una regola, che possa dire: queste circostanze sono tali da cambiare specie; quelle sono solo attenuanti o aggravanti. Comunque lì c’è proprio una specie di immediato intuito da parte della ragione pratica ovviamente, la quale capisce in qualche modo che la circostanza è talmente grave che l’atto cambia specie.

S.Tommaso fa un’ulteriore distinzione abbastanza importante, e cioè dice che alcuni accidenti possono verificarsi nello stesso soggetto accidentalmente accanto ad un altro accidente. Pensate a due accidenti predicabili impropri, come può essere, esempio classico, l’erudizione e la bianchezza in Socrate. Socrate nel contempo è erudito e bianco. Quindi entrambi sono accidenti proprio impropri, anche se ovviamente Socrate non sarebbe Socrate, se non fosse erudito, ma comunque adesso questo lo lasciamo da parte.

Rispetto all’uomo, ahimè, devo ammettere che l’erudizione è un accidente in qualche modo improprio. E’ acquisito, cioè anche l’uomo non erudito rimane sempre uomo. Il che non toglie che ovviamente la natura umana sia portata a farsi una cultura. Però è un accidente improprio.

Ora, l’erudizione e la bianchezza esistono in Socrate ovviamente senza alcun rapporto l’una con l’altra. L’erudizione non c’entra per nulla con la bianchezza e viceversa. Invece, succede che un soggetto, una sostanza, riceva un accidente tramite un altro. Esempio classico, il colore ricevuto in un corpo, tramite la sua superficie. Se il corpo non avesse una figura, una superficie, non potrebbe essere colorato, perchè ciò che è colorato è la superficie e tramite la superficie è colorato il corpo. Il tavolino è colorato tramite la sua superficie.

Ora, similmente negli atti umani ci sono alcune circostanze, che sono proprio separate l’una dall’altra, e altre circostanze che convengono in qualche modo all’atto umano tramite altre circostanze. Gli esempi possono essere questi: alcune circostanze spettano all’agente senza la mediazione dell’atto. Per esempio il luogo è la condizione della persona. Quindi l’atto non c’entra; il luogo e la persona sono proprio esterni all’atto.

Invece altre circostanze spettano all’agente mediante l’azione stessa. Per esempio, il modo in cui l’azione si svolge. Quodammodo, la circostanza quodammodo entra in qualche modo non nell’essenza dell’atto, ma compete all’uomo tramite l’azione che compie. Un esempio potrebbe essere questo: camminare velocemente. Il velocemente compete all’uomo tramite il camminare. Non si può dire: uomo velocemente. Che cosa velocemente? Camminare. Cioè l’uomo cammina velocemente.

Invece il fatto che una persona sia costituita in dignità, è perfettamente indipendente dalle azioni, indipendente dalle azioni che compie. Uno può essere sindaco, chierico o qualche altra cosa indipendentemente dalla azione che compie.

Ora, perchè non solo il teologo in genere, ma il teologo moralista deve prendere in considerazione le circostanze? Ci sono tre motivi: due oggettivi e uno ex parte subiecti. Il primo è quello del finalismo, ovviamente. Quindi, S.Tommaso divide l’argomento in queste tre parti: da parte della finalità; da parte del bene e del male negli atti umani; e poi da parte del merito e demerito, che dipende dalla responsabilità della persona che compie l’atto.

Il primo motivo, per cui il moralista deve considerare le circostanze, è che l’atto umano si svolge in particularibus. Questo, S.Tommaso qui non lo dice, ma lo ripete tante altre volte. E quindi bisogna presupporlo per comprendere bene questo articolo. Quindi, l’atto umano si svolge nella concretezza della situazione, in cui l’uomo si trova. Perciò l’atto umano raggiunge il suo fine, che gli dà specie, notate, non in astratto, ma nella concretezza in cui l’atto viene posto. Ecco che cosa significa l’affermazione di S.Tommaso, che l’atto umano si proporziona al suo fine tramite le circostanze.

Questo ovviamente nell’ordine di esecuzione. E’ chiaro che l’atto, finchè rimare in intentione agentis è specificato solamente dal fine. Ma nell’esecuzione dell’atto, questo tende alla realizzazione del fine tramite le circostanze in cui quasi si incarna. Vale lo stesso anche un po’ lo stesso discorso, che si può però per analogia estendere anche per l’atto interno. In qualche modo il fatto che una persona ponga un atto interno, però elicito, uscito in qualche modo dalla volontà, ovviamente ha a che fare con la concretezza, se non di cose esterne, dove l’atto non si verifica, non si applica, però ha a che fare con la persona che lo pone.

Per esempio, se un chierico compie un atto interno di apostasia, è più grave che se lo compie una persona non costituita in sacris. Non c’è bisogno che dichiari l’apostasia esteriormente, basta che la compia interiormente, il fatto della persona che compie quell’atto aggrava l’atto stesso.

Quindi, in qualche modo, c’è anzitutto questo proporzionarsi dell’azione al fine, tramite le circostanze in cui l’azione stessa si svolge.  Un po’ si potrebbe dire questo. E’ giusto che S.Tommaso abbia cominciato o esordito proprio da questo fatto dell’accidentalità delle circostanze, cioè come negli individui, nelle sostanze individue materiali, c’è sempre il rivestimento di accidenti. Non è che la sostanza sia individuata dagli accidenti, ma viceversa, gli accidenti sono individuati dalla sostanza. Però, non c’è sostanza concreta che non abbia i suoi accidenti.

Non c’è uomo che non sia, per esempio, pallido o non pallido. Adesso qualsiasi sia il non pallido. O è l’uno o è l’altro. O è erudito o non è erudito, insomma.  Sempre Nel concreto la sostanza materiale si riveste di accidenti. Similmente l’atto umano nella sua concretezza si riveste di circostanze, che sono i suoi accidenti propri.

Nella prima considerazione del teologo, del filosofo, e del moralista, tale considerazione delle circostanze, è dovuta al fatto che l’atto umano, nella sua concretezza, raggiunge il fine solo tramite le circostanze. Secondo motivo è quello del bene e del male negli atti umani. Vedete come dopo il fine, S.Tommaso allarga la prospettiva al bene e al male, dove non è compreso solo il fine, ma tutto, fine e mezzi, in sostanza.

Il bene e il male negli atti umani dipende dalle circostanze e questo in due modi, come vi ho già accennato: sia in maniera così profonda, che la circostanza cambia la specie dell’atto, per esempio che un furto divenga un sacrilegio; sia nel senso che la circostanza è aggravante. Si applica soprattutto nei peccati contro la giustizia. Pensate, per esempio, ad una bugia, il solito peccatuccio, come quando un penitente mette le mani avanti: Padre, sa, ho detto delle bugie, ma non ho recato danno a nessuno. E’  giusto che le dica, no? Perché effettivamente altrimenti, se recassero del danno, sarebbe una circostanza aggravante e anche fortemente aggravante.

Quindi, non perché si possa mentire, ma una bugia senza conseguenze troppo dannose, può al limite essere peccato veniale, in sostanza. Ordinariamente lo è. E però, se ci sono altre conseguenze, allora effettivamente può risultare un peccato grave. Pensiamo al peccato del furto. Lì addirittura la circostanza di ciò che è stato tolto è determinante, e anche la circostanza della persona a cui è stato tolto.

Per esempio, se io tolgo, 5.000 lire a un poveretto, che ha in quelle 5.000 lire la sua sussistenza per tutta la giornata, sono proprio crudele, faccio un peccato mortale,  anche se obbiettivamente la quantità, così come al giorno di oggi la si può considerare, non è molto sostanziosa.

In circostanze normali, se non si tratta di un poveretto, ma di una persona che lavora, si dice insomma che è peccato mortale, questo come regola, ma è difficile entrare nella casistica in questo campo. Si dice, per esempio, che diventa peccato mortale quando si toglie il valore corrispondente al salario giornaliero di un operaio qualificato, in sostanza. Non so quanto ciò può valere.

… mortale …

Sì, mortale. Equivalente al salario di una giornata, in sostanza, di un operaio qualificato. Non so quanto guadagna, più che altro ho fatto solo un pensiero attorno a questo. Ma penso, non so,

… trentamila …

Trentamila lire? Tra trentamila e cinquantamila lire, comincia a diventare pericoloso. Tanto per dirvi la casistica. Come anche in confessionale è importante, anche ai fini della restituzione. Ciò è per i futuri confessori, notate; ma interessa anche agli altri, ovviamente. Voi futuri confessori, notate la vostra responsabilità, perché se voi non istruite il penitente che deve restituire, là dove l’entità del peccato è grave, se non lo istruite del dovere della restituzione, siete voi che dovrete restituire.

Una responsabilità non da poco, perché poi è difficile, uno scrupoloso potrebbe avere proprio dei problemi. Infatti, non si sa a chi e come, eccetera. Ma importante è che, insomma, il confessore sappia che in questo campo vale il dovere della restituzione e ovviamente legato alla gravità del furto. Quindi è chiaro che, se un bambino mi dice che ha rubato una caramella, non è che io gli dica che deve fare la restituzione occulta. Sarebbe un po’ ridicolo. Il povero piccino penso che non comprenderebbe neanche che cosa voglio dirgli con questo.

Quindi, voi capite che quando si tratta di cose da poco, non è il caso di insistere. Ma quando si tratta effettivamente di una cosa grave, vedete le circostanze, insomma la quantità di quello che è stato tolto, allora subentra il dovere della restituzione. Questo per dirvi come le circostanze possono avere un notevole peso per quanto riguarda il bene e il male mediante il male. Poi, terzo motivo, ex parte subiecti, è quello del merito e del demerito.

 S.Tommaso dice che ignorare una circostanza può cambiare l’entità dell’atto umano. Se uno dà un pugno al suo prossimo, in questo caso non è una cosa molto bella, ignorando che si tratti di un chierico, con ignoranza antecedente. Si suppone che non abbia avuto il dovere di informarsi, e che il chierico glielo avrebbe detto. Ebbene, in tal caso, se l’ignoranza è effettivamente antecedente, non incorre in nessuna scomunica, tanto per dirvi, anche dal punto di vista giuridico.

Dal punto di vista morale si ha ovviamente il peccato di maltrattamento del prossimo, a meno che il prossimo non se lo sia meritato, cosa che potrebbe anche succedere. Ad ogni modo, l’ignoranza antecedente, cioè incolpevole, della circostanza, fa sì che non sia colpevole per lo meno del sacrilegio. Questo solo come piccolo esempio; ma poi ci sono tanti altri casi.

Poi Tommaso dice, e questo mi pare molto importante, nell’ad primum di questo secondo articolo, che è vero che le circostanze sono esterne all’atto umano, ma l’atto umano si dice buono secondo la relazione al fine. La moralità è un che di relativo. Questo è importante[5]. Di relativo, scusate, quasi ho detto una eresia. Non nel senso moderno della parola “relativo”, non volevo con questo dire che la morale è qualcosa di soggetto a cambiamenti culturali o meno.

Volevo dire che la moralità consiste in una relazione, cioè nella relazione dell’atto umano alla norma della legge. Ovviamente questa relazione non cambia. Quindi è un che di relativo nel senso che consiste non nell’atto umano fisicamente, assolutamente considerato, ma nell’atto umano in un rapporto di conformità o difformità dalla norma.

E ciò che si dice secondo relazione, afferma S.Tommaso, si dice non solo secondo ciò che inerisce, ma anche secondo il termine esterno a cui la relazione si rapporta. Ad esempio, destra e sinistra, uguale e disuguale, eccetera. Quindi nulla impedisce che l’atto umano sia moralmente qualificato da una circostanza esterna. Non c’è solo l’inerenza dell’atto umano all’uomo stesso da cui procede, ma c’è quasi un espandersi, un tendere dell’azione umana alla realizzazione del fine tramite le circostanze che ci si trova dinnanzi.

Quindi è importante afferrare è questo, che l’atto umano non è un accidens in senso assoluto[6], una pura qualità dell’uomo; è un qualcosa che quasi esce dall’uomo Vedete di nuovo come abbiamo un linguaggio materiale: una specie di tendenza che esce dall’uomo per raggiungere il termine che ci si propone. E per strada si incontra tutta quella concretezza di realtà, in cui l’azione viene posta. E questo insieme di determinazioni della situazione si chiama appunto circostanza o insieme di circostanze. Vedete come appunto l’insieme di circostanze determina la situazione concreta in cui si agisce.

E notate, e questo lo dico, ma solo tra parentesi, perché voi lo sapete già, come è proprio falsa e ridicola l’accusa che si fa da parte dei nostri immoralisti moderni, a S.Tommaso, secondo cui egli avrebbe avuto una morale astratta. Mentre non c’è nessun dubbio che S.Tommaso tiene ben conto della situazione, anche se dice ovviamente che la legge non nasce dalla situazione; sarebbe troppo comoda una morale del genere.

Io mi trovo in una situazione e mi pare che sia bene agire così, quindi la mia azione è buona. Qui mi dò le assoluzioni, state tranquilli, non ho problemi, non soffro di scrupoli, allora chissà quali azioni poi compirò. Ebbene, non è così. Cioè naturalmente vedremo poi che la primaria fonte della moralità è quella dell’oggetto, e questa effettivamente è una fonte alquanto astratta, diciamo, seppure poi concretamente realizzata.

Quindi, vedete, non ci sono circostanze che possono giustificare, un omicidio o un adulterio. Non si può dire: ma lì le circostanze erano talmente favorevoli, eccetera. No, insomma. Quella persona mi è talmente odiosa, che ammazzarla proprio è un pegno[7]. La circostanza della inimicizia, insomma, non giustifica l’omicidio. Quindi il fatto di uccidere una persona innocente è chiaramente già un oggetto che in astratto rende ovviamente malvagia l’azione stessa, indipendentemente dalle circostanze.

Poi è chiaro che la circostanza di un odio forte e passionale può effettivamente, al limite, essere anche una attenuante. Fino a un certo punto ovviamente. Dobbiamo stare molto attenti, molto attenti a questo. Abbiamo visto l’influsso delle passioni sull’atto umano. Anche appunto i giudici tengono conto di questi stati emotivi, insomma, di un tipo di concatenazione.

Soprattutto ciò avviene tra i giudici e via dicendo. Per esempio ciò può succedere nel caso dell’omicidio. Pensate a quel caso molto recente di quell’americana che è stata appunto condannata, mi pare, perché c’era un ambiente di droga, di ricatti, di violenze e cose del genere, insomma. In tal caso effettivamente ci possono essere delle circostanze attenuanti. Certo che l’omicidio è sempre una cosa cattiva in se stessa.

Il numero delle circostanze. Quali sono queste benedette circostanze? Naturalmente adesso non vogliamo formalizzarci su questo numero di sette o otto, che siano, ma è bene pressappoco conoscere questo versetto che aiuta un pochino. Si chiamava nel Medioevo, fons asinorum, fonte degli asini il metodo mnemotecnico per memorizzare  certe verità.

Dunque, è Cicerone che annuncia in questo versetto. Le circostanze sono: quis, quid, ubi, quibus auxiliis, cur, quomodo et quando. Fa anche un pochino di ritmo. Queste circostanze aristoteliche sono sette, come vedete. A queste Aristotele, dice S.Tommaso, aggiunge la circostanza circa quid. Tanto meglio, S.Tommaso vuole la ottava circostanza perché farà uno bello schemino di deduzione delle circostanze.

Lo schema è questo[8]. Adesso ve lo espongo; non credo che ci sia bisogno che lo scriva sulla lavagna. Semmai scrivete così questo schema, cercherò di spiegarvelo a parole, poi pensateci voi, se avete difficoltà, ve lo scrivo anche alla lavagna.

Primo punto. Le circostanze, che arrivano a contatto con l’atto stesso, con l’azione stessa. Questo è il primo punto. Questa congiunzione con l’atto, questo contatto con l’atto umano può essere in un modo, come misura, cioè in maniera tale che la circostanza misuri l’atto. La misura ovviamente è duplice, del tempo e del luogo. Quindi, quando e ubi.

Per esempio, per la legge ecclesiastica è certamente aggravante mangiare carne in un venerdì di quaresima. È sempre male mangiare carne di venerdì, come giustamente è stato ripristinato questo sacro obbligo dal nuovo Codice. C’era ovviamente anche nell’antico, ma è stato ripristinato nel nuovo Codice l’obbligo di astenersi dal mangiare carne al venerdì.

Quindi c’è certamente ogni venerdì da astenersi da questo; però, se uno proprio mangia carne in tempo liturgicamente forte, certamente questa è una circostanza aggravante. Tanto per dirvi l’esempio del quando. Del luogo, ubi, abbiamo visto l’esempio, ossia un furto sacrilego o qualcosa del genere.

Poi, secondo tipo, sempre in questa circostanza, là dove si arriva a contatto con l’atto tramite la qualità. Qui la circostanza è quasi la qualità dell’atto umano. Allora abbiamo il quomodo: in che modo avviene l’atto. Per esempio, camminare velocemente, o lentamente, eccetera, o picchiare fortemente o dolcemente.

Secondo tipo di circostanze. Ritenete lo schemino? Quindi punto uno, e poi due sottopunti. Adesso, secondo punto. Contatto, cioè la circostanza che giunge a contatto con la causa dell’atto, cioè non più con l’atto stesso, ma con la causa dell’atto umano.

E qui ovviamente le cause sono quattro, come dice Aristotele. Quindi a modo di causa finale. Primo sottopuntino, scusate se lo chiamo così. Causa finale, è la circostanza del cur, perché. Notate che, come S.Tommaso poi preciserà, non è il fine dell’opera, che è l’oggetto, ma è il finis operantis, con quale intenzione io faccio una determinata cosa. Notate la sottigliezza. Non è nemmeno il finis operantis in se stesso. Non voglio adesso complicare troppo le cose, ma il fine c’entra, notate, il fine c’entra con tutte e tre le fonti della moralità: il fine come causa; il fine come oggetto, cioè il fine immanente; e il fine come circostanza.

Il fine come causa, è il fine dell’operante; il fine come oggetto, è il fine immediato dell’opera, dell’operato, se volete, in ciò che si fa; e il fine come circostanza è il fatto che l’agente compia o ponga un’azione, sottoposto ad una determinata intenzione. Quindi sono tre indicazioni diverse. Questa è la circostanza del cur, del perchè avviene fatto questo.

Poi, secondo, sempre in questa categoria, secondo tipo di causa, la causa quasi materiale. Prego, caro.

… finalità … fine …

Sì. Cioè, bisogna distinguere queste tre situazioni Il finis causa è il fine dell’operante, che si considera però in se stesso, senza rapporto all’operante. Cioè si considera come ciò che per la sua attrattiva influisce sull’operante e lo costituisce operante. In questo modo il fine è solo causa. E si chiama finis operantis ed è causa dell’atto umano.

Fine Prima Parte

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione a cura di Amelia Monesi - Bologna, 27 gennaio 1987

Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 28 febbraio 2014

Testo rivisto con note da P. Giovanni  Cavalcoli, OP - Varazze, 31 luglio 2015


P. Tomas Tyn e P. Patrizio Pilastro
La parola circostanza è presa da un qualche cosa di nettamente spaziale, circumstare, che significa semplicemente stare attorno a. Quindi, si potrebbe dire che circostante è il luogo propriamente parlando. Voi conoscete la concezione aristotelica del luogo: circostante è proprio il corpo contenente un altro corpo collocato. Per esempio, l’orologio è circondato dall’aria. Ora, l’aria è il corpo contenente e l’orologio è il corpo contenuto. Ora, ovviamene il luogo non è l’aria che ci sta attorno, ma la superficie prima immobile attorno a questo oggetto. Quindi ovviamente il luogo è poi un’astrazione.

 
Tuttavia la circostanza è desunta da questo fatto della collocazione dei corpi: un corpo che si trova in un altro. Per esempio, noi tutti, anche queste cose che ci troviamo dinnanzi sono in qualche modo immerse nell’aria. L’aria è circostante. Quindi c’è un corpo che circonda un altro corpo. Questo è, diciamo così, il senso proprio della parola circostanza. Da qui la parola circostanza è stata presa per significare ciò che sta attorno, appunto, ma nel senso non più spaziale, locale, materiale, ma nel senso spirituale: ciò che sta attorno all’atto umano.
Immagine da Internet

Quindi è importante afferrare è questo, che l’atto umano non è un accidens in senso assoluto, una pura qualità dell’uomo; è un qualcosa che quasi esce dall’uomo. Vedete di nuovo come abbiamo un linguaggio materiale: una specie di tendenza che esce dall’uomo per raggiungere il termine che ci si propone. E per strada si incontra tutta quella concretezza di realtà, in cui l’azione viene posta. E questo insieme di determinazioni della situazione si chiama appunto circostanza o insieme di circostanze. Vedete come appunto l’insieme di circostanze determina la situazione concreta in cui si agisce.

E notate come è proprio falsa e ridicola l’accusa che si fa da parte dei nostri immoralisti moderni a S.Tommaso, secondo cui egli avrebbe avuto una morale astratta. Mentre non c’è nessun dubbio che S.Tommaso tiene ben conto della situazione, anche se dice ovviamente che la legge non nasce dalla situazione; sarebbe troppo comoda una morale del genere.



[1] A immediato contatto.

[2] L’astrazione qui consiste nel fatto che il rapporto spaziale del contenuto al contente è variabile e quindi può essere misurato dalla ragione.

[3] Mi viene il dubbio.

[4] Laica.

[5] La moralità è la relazione ad un assoluto. Essa considera il rapporto di conformità o difformità degli atti rispetto alla legge morale, che è un valore assoluto. Quindi, in rapporto agli atti, la moralità è una relazione; in rapportai fini, mette in gioco l’assoluto.

[6] Non è semplicemente un qualcosa che si aggiunge ad un soggetto già costituito, ma è in qualche modo una sua emanazione, che lo determina ulteriormente, nel bene come nel male.

[7] Non è chiaro cosa voglia dire, forse intendeva dire un impegno, un dovere.

[8] Dalla dispensa:

1.      in quanto la circostanza arriva a contatto con l’atto stesso:

a.      a modo di misura:

ê  del tempo: quando

ê  del luogo: ubi (dove)

b.      a modo di qualità: quomodo (modus agendi),

2.      in quanto arriva a contatto con la causa dell’atto:

a.      quanto alla causa finale: propter quid (cur)

b.      quanto alla causa quasi-materiale (oggetto): circa quid

c.      quanto alla causa agente principale: quis

d.      quanto alla causa strumentale: quibus auxiliis,

3.      in quanto arriva a contatto con l’effetto dell’atto: quid.

 

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