La falsità come principio della violenza - Prima Parte (1/2)

 

La falsità come principio della violenza

Prima Parte (1/2)

                                                                                         Il diavolo è menzognero e padre della menzogna

Gv 8,44     

 

Il rispetto della verità è un dovere morale

 

Nessuno inganni in questa materia il proprio fratello

I Ts 4,6

Dio ci ha creati con un’inclinazione spontanea del nostro intelletto alla conoscenza e all’amore per la verità, ossia a riconoscere le cose come sono e ad adeguare i nostri giudizi alla realtà delle cose. Se permettiamo alla nostra ragione di percorrere fino alla fine il suo percorso naturale, sentiamo il bisogno e il desiderio di conoscere la verità prima, suprema ed ultima, la verità assoluta, sussistente ed eterna, che è Dio, sorgente, principio, criterio e causa di ogni altra verità, trovando nella visione di questa verità la nostra beatitudine.

Ma, a causa del peccato originale, per il quale l’uomo si è lasciato sedurre dal demonio, padre della menzogna, c’è in tutti noi anche una tendenza contraria, una ripugnanza per la verità, c’è la voglia di non adeguare il nostro intelletto alle cose come sono, c’è la tendenza a seguire la nostra inclinazione al peccato e, per dare una parvenza di giustificazione al peccato che vogliamo fare, abbiamo la tendenza a inventare false ragioni.

Se per esempio, la realtà non è di nostro gusto, neghiamo che esista una realtà fuori di noi, sostenendo che l’oggetto del sapere non è questa realtà inesistente, ma le nostre idee, che riempiamo dei contenuti che piacciono a noi. Se ci dà fastidio che Dio ci proibisca certe azioni, neghiamo che Dio esista e diciamo che il principio dell’essere non è Dio, perché Dio non esiste; ma il principio dell’essere siamo noi. E così via.

La carità è la pratica della verità.

Un trucco interessante inventato da Gianni Vattimo[1] per renderci ripugnante la verità circa la metafisica, la teologia naturale, l’antropologia, i nostri doveri morali, gli articoli di fede e i dogmi della Chiesa cattolica, è quello di respingere la pretesa di conoscere in queste materie la verità in nome della carità, come se la carità non fosse precisamente la messa in pratica della verità.

Ora, occorre dire invece che la conoscenza e il possesso certi della verità circa Dio e l’uomo è il principio della buona volontà e della carità, per le quali, giunti al possesso della verità, sapendo che essa è bene comune desiderato da tutti, siamo indotti dal nostro amore per il prossimo a renderlo partecipe, a comunicare nel linguaggio e nei giudizi la verità che abbiamo scoperto, appreso e conosciuto, soprattutto se si tratta della verità sull’uomo e su Dio.

Ma la conoscenza stessa della verità, ottenuta o per intuizione o per ragionamento o per apprendimento o per fede in Cristo è principio della benevolenza e della carità nei confronti del prossimo e della sua liberazione dell’errore, dall’inganno, dall’illusione, dalla falsità e dal male.

Dispiace che oggi sia diffusa l’opinione contraria e cioè che chi possiede o sente di possedere in modo incontrovertibile o comunque sinceramente salde convinzioni di ragione o di fede circa i valori religiosi o morali, e si adoperi per convincere o persuadere gli altri ad abbracciarli o a praticarli, usi violenza verso di loro.

Ciò che infatti viene messo in dubbio o negato è la stessa possibilità di possedere saldamente conoscenze certe, fondate ed oggettive o di esprimere giudizi oggettivi e sereni, inconfutabili, senza pregiudizi e spassionati in queste delicate materie, dove effettivamente da sempre i pareri sono discordi e contrastanti anche tra filosofi e teologi, mentre ad alcuni pare che lo stesso Magistero della Chiesa, che San Paolo chiama «colonna e sostegno della verità» (I Tm 3,15), smentisca oggi ciò che nel passato  ha sempre dato come immutabilmente vero.

Perché mai il possesso della verità, che suscita nell’animo tanta gioia, la forte adesione al vero sentita come dovere assoluto a qualunque prezzo, verità magari conquistata dopo faticose ricerche e vittoria sul dubbio, dopo aver risposto ad obbiezioni insidiose e seducenti, dovrebbe essere incentivo o principio di violenza, perché dovrebbe condurre ad esser violenti col prossimo nel manifestarla o nell’insegnarla ad essi? Non dovrebbe piuttosto esserci grato?

Quale bene maggiore per l’uomo che il possesso della verità? Quale gioia più grande che godere assieme della fruizione della medesima verità? Quale più grande carità che donare agli altri la verità? Quella verità che apre l’animo ai valori supremi, insegna la disciplina morale e come dominare le passioni, vincere i vizi, edificare una società giusta e pacifica sotto il governo della divina provvidenza? Quale maggiore opera di misericordia, come dice San Tommaso, che condurre il fratello dalle tenebre dell’errore alla luce della verità?

Chi nega che in fondo nell’illuminismo settecentesco vi fosse un ottimo intento di usare rettamente della ragione, bene universale proprio di ogni uomo, per conoscere la verità oggettiva ed allontanare le tenebre dell’ignoranza, del pregiudizio, del fanatismo, della magia, della intolleranza e della superstizione, per eliminare ingiustizie e disuguaglianze, e per educare l’umanità alla virtù, alla libertà e condurla alla felicità?

La verità, ben lungi dal generare violenza, è sorgente di libertà, come insegna lo stesso Cristo (Gv 8,32). Mentre la realtà, col sollecitare la volontà a far sì che l’intelletto si adegui al reale non esercita alcuna violenza né sull’intelletto né sulla volontà, ma al contrario, la realtà, assoggettando a sé l’intelletto come verità dell’essere, apre alla volontà il ventaglio delle sue possibili opzioni, cosicchè il soggetto spazia nel campo delle sue possibili scelte alla luce della verità che conduce all’esercizio della libertà[2].

Viceversa, come ci insegna Cristo, è il falso ad esercitare su di noi violenza ed è ingannando gli altri che esercitiamo violenza su di loro. Il violento è colui che rende schiavi gli altri. Ma il mezzo per renderli schiavi è appunto l’ingannarli e subordinarli ai nostri interessi. È la falsità, non la verità render schiavi. La falsità blocca il movimento della volontà, il cui orizzonte decurtato dall’errore, restringe violentemente lo spazio della libertà. Chi è nell’errore, pertanto, è uno schiavo e un violentato, come si desume facilmente dalle parole di Cristo.

Invece quanta gioia ho provato nell’esperienza della verità, così strettamente congiunta all’esperienza della libertà nell’apprendere l’insegnamento dei miei maestri, di un San Tommaso, del Magistero della Chiesa, dei Santi Padri e Dottori della Chiesa! E perché non dovrebbe provar gioia chi apprende da me quanto ho imparato da loro? Se avessi trovato una perla preziosa e la regalassi ad un amico, forse che gli farei violenza? Forse che non lo farei contento? A chi può ripugnare la verità se non ai malvagi? Se siamo fatti per la verità, come il sentire la verità dovrebbe farci sentire violentati? Come il sentire il vero da una persona che ne è certa non dovrebbe generare in noi a nostra volta la certezza? Chi parla senza convinzione come fa a generare delle persone convinte?

Qual è mai dunque questa stoltezza di pensare che ad esser convinti della verità si diventa violenti o che per non far violenza al prossimo occorra aver convinzioni deboli e fragili, che crollano alla più piccola spinta? Come si fa a resistere agli attacchi violenti o insidiosi dell’errore, se non si è saldi nella verità? Come si fa a farsi sentire dai duri di orecchi se non si parla ad alta voce?

Indubbiamente la certezza del sapere può solleticare il nostro orgoglio e il desiderio di dominare sugli altri. Certo, non è la voce grossa che dimostra la nostra convinzione né convince gli altri, ma, se non si è incoscienti o fanfaroni, non si teme di gridare quando si è fortemente convinti, come Dio comanda al profeta: «Grida a squarciagola, non avere riguardo!» (Is 58,1).  

Come è possibile credere che chi pensa di possedere una verità assoluta, una verità una per tutti, chi ammette valori non negoziabili, che parla di immutabilità della verità, chi sostiene l’immutabilità della natura umana o della legge naturale, dei diritti umani o dei comandamenti divini, l’esistenza di obblighi morali universali o di atti umani intrinsecamente buoni o cattivi senza eccezione o accetta i dogmi della Chiesa cattolica, possa esercitare violenza sul prossimo, sui destinatari di questi messaggi?

Certamente la carità richiede la mitezza, la dolcezza e la tenerezza. La carità è la virtù dell’animo pacifico, dialogante, comprensivo, misericordioso, tollerante, accogliente. La carità è una virtù unitiva, conciliativa, associativa, che sa vedere le convergenze e le possibilità di avvicinamento, virtù che produce armonia e concordia e comunione nella gioia, sia pur nella diversità delle varie posizioni e preferenze, perchè trova il punto di unione e il valore comune, unisce ciò che è reciprocamente complementare ed è sorella della libertà.

Essa ama la flessibilità, la duttilità e l’adattamento, evita l’assolutismo, le durezze, le rigidità e, laddove non è necessario, evita l’intransigenza. La carità lascia spazio all’altro, ammette altre possibilità, favorisce il pluralismo e la diversità, non impone il proprio punto di vista come l’unica possibilità.

La mente umana è fallibile,

 ma può conoscere infallibilmente la verità

La mente umana è fatta per la verità; eppure accidentalmente e anche spesso può sbagliare e sbaglia. Ossia, ciò che afferma non corrisponde a ciò che è o perché afferma e comunica il falso consapevolmente allo scopo d’ingannare, e qui abbiamo il peccato di falsità o di frode, che è  una colpa morale, o perché involontariamente, per mancanza di attenzione o per precipitazione o per un moto passionale o per miopia intellettuale si inganna o è ingannata o dalla sua fallibilità o per colpa di un impostore, e qui possiamo avere abbiamo l’errore in buona fede, il quale non costituisce colpa morale, ma può attenuare la colpa. Il soggetto scambia il falso per vero senza rendersene conto.

Il falso, dal latino fallere, implica l’idea del venir meno, del mancare, del decadere, dell’incompiuto: pensiamo all’italiano fallire, fallito, fallimento[3]. Il falso in generale è un giudizio, una cosa o una persona che manca al suo fine o dovere di cogliere il vero e quindi non corrisponde o è difforme dalla realtà o dalla verità oggettiva – falsità gnoseologica.

Oppure esiste il giudizio falso o erroneo circa una cosa difforme dal suo ideale, dal suo fine, dalla sua misura, dal suo modello, dalla sua norma – falsità ontologica -, una persona la cui condotta non è conforme alla legge morale, al suo fine, al suo dovere, alla volontà di Dio – falsità morale -.

Occorre fare attenzione che anche il falso ha una sua verità, che è regola di quanto affermiamo o diciamo sul suo conto, come sarebbe una persona o una proposizione o una cosa falsa, per esempio una moneta falsa. Si può infatti dire o giudicare il falso circa la verità sul falso, circa qualcosa che è veramente falso, così da dire il falso anziché il vero su ciò che è oggettivamente falso. Infatti una cosa o una dottrina può essere falsa ed apparire vera. Se uno dice che è falso, mente su quella cosa e dice il falso. Non solo il vero ma anche il falso merita il rispetto della nostra intelligenza, non nel senso che ci autorizzi a giudicare falsamente o ad essere falsi, ma in quanto la verità del falso esige che noi giudichiamo veracemente il falso così com’è. Pensare il falso non vuol dire necessariamente essere ingannati, se ciò che riteniamo falso è veramente falso.

L’errore non è un semplice non sapere qualcosa. Questa è l’ignoranza. L’errore è un non sapere tale per cui si prende una cosa per un’altra. Un conto è ignorare che cosa sia una data cosa o ignorarne l’esistenza: la mente è priva della conoscenza di quella data cosa. I Medioevali ignoravano l’esistenza dell’America. L’errare invece è un conoscere, ma un conoscere sbagliato o insufficiente. Cristoforo Colombo sapeva che esisteva l’America, ma credeva che fosse l’India.

La misura della verità del pensiero o del giudizio o del sapere sono le cose o gli enti che ci stanno davanti o attorno, la realtà visibile e invisibile che ci circonda, ci sta sotto, è alla pari di noi – le altre persone - e ci sovrasta – Dio e gli angeli - compresa la realtà della nostra stessa persona, gli «oggetti», da ob-jectum: posto-davanti.

Il soggetto conoscente coglie il vero adeguandosi all’oggetto. Questo oggetto, peraltro, può essere esterno, ma può essere anche interiore, prodotto dalla nostra mente - l’ente di ragione o ideale - per conoscere le cose: le nostre idee, i nostri concetti, i nostri pensieri, il nostro stesso io, oggetti della nostra coscienza. Così, con l’autocoscienza, il soggetto può fare di se stesso oggetto del sapere. In tal senso, essere oggettivo vuol dire essere verace, conoscere e dire le cose come stanno, sia quelle interiori sia quelle esterne, non mentire, non dire le cose diversamente da come stanno.

La verità oggettiva è la verità dell’oggetto, dell’ente o della cosa oggetto dell’intelletto, sia un oggetto esterno o sia esso interiore, sia reale o sia ideale. Se invece la mente relaziona le proprie idee al reale e le adegua ad esso, abbiamo il realismo e la verità del sapere, abbiamo la vera filosofia e la vera scienza; se invece vogliamo relativizzare la cosa alle nostre idee, allora abbiamo il soggettivismo, ed abbiamo anche la sofistica, il quod videtur est verum, ossia il soggetto, invece di relazionarsi all’oggetto, rende l’oggetto relativo al soggetto.

Ciò naturalmente non impedisce la possibilità che adeguiamo il reale alle nostre idee. Ciò avviene quando mettiamo in pratica nel nostro agire morale un ideale morale o quando realizziamo nel reale esterno un’idea artistica.

Possiamo allora parlare anche di un sano relativismo, che non è sinonimo di soggettivismo, ma è oggettivismo. Tuttavia, quando la mente prende come suo oggetto l’idea della cosa e non la cosa stessa, abbiamo il vizio dell’idealismo. Quindi soggettivismo, relativismo, idealismo e sofistica sono quattro nomi per designare un’errata teoria del sapere, del pensare o della verità.

Aggiungiamo che la mente si accorge di essere nell’errore o vittima della falsità, riesaminando la questione o ascoltando un avvertimento altrui, confrontandosi col vero, o perché avvertita da qualcuno o perché ha esaminato meglio  la cosa, dopo aver scoperto il vero, ossia come stanno realmente le cose, giacchè se per principio non si potesse conoscere la verità, ossia le cose come sono in se stesse, oggettivamente, sia sensibili che intellegibili, sia materiali che spirituali, non avrebbe il termine di paragone, la misura o il criterio per sapere che ha sbagliato.

La carità richiede il pensiero forte

La carità non è mai impositiva ed autoritaria. Nulla è di più contrario alla carità della violenza. In ciò Vattimo ha ragione. Quello che gli sfugge è che la carità non dice sempre e solo mitezza e tenerezza, ma anche fortezza, coraggio, attitudine al combattimento, lotta fino alla vittoria sul nemico.

Infatti, se la carità impone di amare gli uomini nostri nemici, ci impone di odiare il peccato, la violenza, la falsità, la doppiezza, la menzogna, l’opportunismo, l’infingardaggine e la viltà. La carità ci impone di combattere il demonio senza quartiere (cf Ef 6, 10-17). Cristo è tenerissimo con i poveri, i piccoli, gli umili e i penitenti, ma è terribile e inflessibile con i superbi, gli ipocriti, i bugiardi, i violenti, gli ostinati nel male. Forse che qui Cristo manca di carità? Si può amare il vero senza odiare il falso? Si può dir di sì al bene senza dir di no al male? Si può dar ragione a chi ha ragione senza dar torto a chi ha torto? Si può dir sì ciò che è no e dir no ciò che è sì?

La tenerezza, la mitezza, la dolcezza, l’affettuosità, il pensiero debole, l’essere debole e cedevole, la transigenza, la flessibilità, il possibilismo, il relativismo vanno bene purchè ci sia un clima di comune accettazione dei valori primari, fondamentali, assoluti, perenni, essenziali ed universali.

Ma la rinuncia al pensiero forte, saldo, sicuro, certo, robusto, deciso e resistente, il rifiuto dell’attaccamento assoluto alla verità, la disponibilità a cedere e a negoziare hanno senso, sono cosa dignitosa ed onorevole, quando ci sono in gioco i nostri interessi supremi? Quando ci sono in gioco l’onore di Dio o la salvezza dell’anima? I diritti della verità e della giustizia? Quando c’è in gioco bene del prossimo? Quando siamo davanti ai nostri doveri assoluti? Quando abbiamo davanti o il paradiso o l’inferno? Quando ci si chiede coerenza e lealtà? Quando ci si chiede di prender posizione e non tenere il piede su due staffe? Quando siamo davanti alla scelta decisiva? Quando dobbiamo dar prova della nostra virtù? Il debole, il morbido, il cedevole, il remissivo ci saranno forse allora di qualche utilità?

Pensiero forte non vuol dire necessariamente pensiero violento. Al contrario, il pensiero liberante e tollerante è proprio il pensiero forte, la metafisica di Aristotele, pensiero che dà fondamento al pensiero debole, pluralistico, pacifico, comprensivo e negoziabile.

Pensiero forte e pensiero debole devono stare assieme, così come la scienza convive con l’opinione, il sapere certo con la dialettica. Lo sbaglio di Vattimo è quello di voler sostituire il pensiero forte con quello debole credendo di poter fondare una metafisica che «indebolisce» l’essere e lo riduce a «evento». Ma così facendo non fa altro che assolutizzare il fenomenismo, il soggettivismo, il relativismo e lo storicismo della sofistica greca confutata da Aristotele, con le biasimevoli conseguenze morali che essa comporta di falsità, protervia, doppiezza, ipocrisia, infingardaggine e insincerità. 

La distinzione fra pensiero debole e pensiero forte è data dal fatto che occorre distinguere un essere debole da un essere forte. Lo sbaglio di Vattimo è dato dal fatto di credere che per eliminare la violenza e instaurare il regno dell’amore occorra indebolire l’essere, come se dipendesse da noi indebolire l’essere così come alziamo o abbassiamo la temperatura dell’aria condizionata o come se ci fossimo accorti che non esiste un essere forte o esiste solo quello debole. Dio stesso per Vattimo non è forte ma debole.

Seguendo le idee di René Girard, Vattimo sostiene che il vero Dio non è un Dio potente e guerriero, che stabilisce per sempre una verità assoluta e impone a tutti la propria volontà, pena la dannazione eterna, ma è un Dio mite, dolce ed innocente, che si lascia mettere in croce senza protestare ed in tal modo vince la violenza ed instaura il regno dell’amore.

Ora, bisogna dire che in realtà Cristo vince la forza dell’odio certo con l’offrirsi vittima innocente, ma è in fin dei conti l’invincibile forza divina del Dio forte e non certo la debolezza umana di Cristo che vince la forza del male e della violenza. Ê vero che Cristo accetta la debolezza della propria umanità, si lascia mettere in croce ed in tal senso accetta il pensiero debole circa la propria umanità.

Ma come può il bene vincere il male se non è più forte del male? Come potrebbe esistere un potere debole e finito, se non esistesse un potere infinito, un Dio onnipotente, che dia forza al debole? Come può esistere una verità relativa se non esiste una verità assoluta a cui far capo? Come può esistere l’essere debole se non c’è l’essere forte che lo fortifica?

È proprio per giustificare il pensiero debole che occorre ammettere il pensiero forte. Ê proprio per vincere il potere del male, dell’odio e della violenza, che occorre ammettere un essere infinitamente vero, buono e potente, una verità assoluta e inconfutabile, che smascheri ogni inganno, una forza onnipotente che vinca l’immensa forza e le suggestioni del male.

Il pensiero debole va bene nei valori secondari, contingenti, opinabili, relativi, soggettivi, passeggeri. La cedevolezza è consigliabile quando si esprime un’opinione. Ma quando ci sono in gioco i valori fondamentali della ragione, della morale e della fede, l’uomo d’onore, il credente non cede per nessun motivo, fosse pure a costo della vita.

Chi ha venduto o negoziato Cristo è stato Giuda, che chiaramente non gode buona fama, anche se si può capire che non tutti hanno il coraggio di affrontare il martirio. Il pensiero debole di Vattimo piacerebbe a Don Abbondio. Ma tutti sappiamo che difficilmente il vero discepolo di Cristo potrebbe trovare in lui un esempio di coraggio, di carità e di coerenza cristiana.

Resta infatti che l’adesione ai valori universali, perenni, assoluti, alla legge morale, alle verità metafisiche e di fede richiede il pensiero certo, forte, forte convinzione e forte adesione a qualunque costo. Questa è la vera carità. Sarei curioso di sapere come Vattimo concepisce il martirio lui che si dice cristiano.

Sì, è vero che Gesù si è lasciato uccidere da innocente, non ha rivendicato i suoi diritti, non si è difeso davanti ai giudici, non ha espresso un pensiero forte, ha ceduto, benchè fosse ben convinto del valore della vita fisica umana. Ma, per salvarsi dalla croce, non ha applicato il pensiero forte, per il quale l’omicidio è proibito. 

Eppure in altre circostanze Gesù mostra di aderire a un pensiero forte, come quando enuncia le proprietà della sua persona e della sua missione, o quelli che sono i divini comandamenti o lancia invettive e accuse contro i farisei e i dottori della legge. La carità richiede di saper dosare e usare ora il pensiero forte ora quello debole, ora la misericordia ora la severità, ora la tenerezza ora la durezza, ora la mitezza ora la giusta ira, ora di benedire ora di maledire.

La verità si può dire a bassa voce o gridare ad alta voce. Dio può essere nel vento leggero, ma anche nell’uragano, nel fuoco che scalda ma anche in quello che brucia, può risplendere come il sole o essere nascosto nella nube.

Le forme della violenza

 

Con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore

Ef 4,14

Chiediamoci adesso: in che consiste la violenza? Abbiamo infatti l’impressione che Vattimo non ne abbia un concetto giusto, che criticherò più avanti. Intanto diciamo che cosa è la violenza come atto umano malvagio. 

Si tratta di un’azione della volontà per la quale il violento danneggia il violentato procurandogli un male o un danno o costringendolo a fare o a subìre eventualmente sotto minaccia un peccato al quale egli si oppone o che egli rifiuta o che egli non vuol fare. In poche parole, la violenza è l’imposizione a qualcuno di un male che egli non vuole. Essa non è la semplice coercizione, perché anche il giudice costringe il reo a subìre la giusta pena; ma ciò è per il bene stesso del reo affinchè egli espii la sua colpa e si renda degno di tornare nella normale vita sociale.

La violenza non è neppure il moderato e giusto uso della forza del soldato o del tutore dell’ordine pubblico nei confronti del nemico o di un criminale, giacchè questa azione ha per scopo di impedirgli di nuocere e quindi in ultima analisi è per il suo stesso bene, affinchè non faccia il male o per fermarlo in un’azione criminosa o malvagia o ingiusta o per impedirgli di uccidere o recar danno.

Violenza è indurre il prossimo nell’errore con parole ingannevoli, argomenti seducenti, ragioni apparenti, abili artifizi, suggestioni emotive, parlata affascinante, gettando fumo negli occhi con l’apparire dotato di una sapienza sublime e incomprensibile, e con ragionamenti vani, sofistici ed ingannevoli. Violenza è apparire sapienti senza esserlo, quelli che Cristo chiama «sepolcri imbiancati», «serpenti», «lupi travestiti da agnelli». Violenza è l’arte del falso profeta e del falso cristo. Violenza è dar per certo quello che non è certo e mettere in dubbio o relativizzare ciò che è certo ed assoluto.

È il falso, non il vero, a generare violenza. Il falso non si afferma se non con la violenza, perché non ha forza intellettuale sufficiente per vincolare l’intelletto. E d’altra parte, non essendo fondato nel vero, è carente nel bene, è quindi non può produrre il bene, il che è come dire che fà violenza. Il vero può generare violenza accidentalmente, se è affermato con violenza.

La violenza è quella di chi vuole imporre agli altri la propria volontà malvagia o indurli ad imitarlo nel peccato o a forzarli a fare il male che non vogliono fare. La violenza è effetto della voglia di dominare sugli altri, di asservirli a sé, di strumentalizzarli.  Violenza è quella di colui che induce gli altri allo scetticismo, al soggettivismo, alla presunzione, al disprezzo per la verità.

Violenta è l’azione di colui che solletica i bassi istinti illudendo gli altri di essere liberi, di colui che spinge gli altri alla violenza, vuol persuadere gli altri di qualcosa di falso o per coprire i propri peccati o per soddisfare le sue voglie o per indurli a pensare o a fare qualcosa che possa soddisfare la sua autoreferenzialità, il suo narcisismo, il suo egoismo, la sua sete di potere o di successo, la sua voglia  di primeggiare o di apparire una persona eccezionale e straordinaria, un genio, un eroe, un profeta, un messaggero di verità, un filosofo, un saggio,  un maestro di sapienza, un uomo o un ministro di Dio, un santo, un mistico, un taumaturgo, un martire, una vittima innocente, un innovatore, un essere divino, un’apparizione dell’Assoluto, un benefattore dell’umanità.  

Violento è chi discute con metodi sleali, toni offensivi e con ingiurie, non per mostrare all’avversario la verità ma per trionfare su di lui ed umiliarlo. Violento  è chi aggredisce il nemico non per obbligarlo ad assoggettarsi al suo dovere o per impedirgli di commettere ingiustizia, ma per schiacciarlo e distruggerlo.

Violento è chi, anche essendo legittimo superiore o dottore, insegna con tono dogmatico ed impositivo, senza dar spiegazioni o dimostrare quello che dice, comanda non per servire, ma per far sentire che è lui che comanda, per cui lo fa con durezza, non ha pietà dei deboli, non ha pazienza con i recalcitranti, non accetta critiche e non ascolta consigli.

Violento può essere anche chi, benché istruito sui veri valori e i doveri morali, vuol spingere gli altri ad abbracciarli e a praticarli con modi e metodi o maniere violenti, irriguardosi, irrispettosi, duri o dispotici.

La scienza della verità

Vattimo attacca la metafisica che per lui sarebbe quel pensiero forte che genera i dittatori e i tiranni. Niente di più falso. Vediamo brevemente che cosa è in realtà la metafisica. Essa è la scienza che ha per oggetto primario la questione della verità. E per conseguenza ha per oggetto la falsità, che è l’opposto della verità. Chi disprezza la metafisica dà prova di non amare la verità. Infatti Aristotele dimostra nella sua Metafisica che essa è la scienza delle verità primarie della ragione, i punti di partenza e le basi di tutto il sapere umano.

La metafisica ci fornisce la nozione stessa della verità e ne dimostra l’esistenza e il metodo per cercarla e dimostrarla. Essa è la scienza che stabilisce il fondamento della verità. È la scienza delle verità e dei princìpi immediatamente evidenti a tutti, che non si possono negare o impugnare senza contraddirsi ed usare quegli stessi princìpi.

La metafisica insegna l’essenza, i princìpi, il metodo e il fine della conoscenza della verità, per la quale la ragione sa di essere nella verità. Nessuna proposizione contraria può confutare la verità metafisica, ma è lei che fornisce i mezzi per confutare tutti gli errori della ragione. Essa insegna a ragionare correttamente in modo tale da poter esser certi della verità delle conclusioni. Essa è scienza certissima e principio di certezza per tutte le altre scienze. È il sapere più fondamentale e più alto della ragione, perché partendo dalla conoscenza dell’ente, dimostra l’esistenza del primo e sommo ente.

Essa distingue l’ente come ente dall’ente vero. Distingue l’ente reale dall’ente di ragione, il pensiero dall’essere, l’ente extramentale oggetto della ragione e l’ente intramentale prodotto dalla ragione - il concetto, il giudizio, il raziocinio - al fine di conoscere il reale e se stessa ed esprimerli nel linguaggio.

La metafisica fonda e introduce quindi alla scienza che ha per oggetto la stessa ragione, scienza per la quale la ragione esamina se stessa, conosce se stessa nel suo funzionamento al fine di raggiungere la verità, la verità esterna e la verità su se stessa, la verità della conoscenza e quella della coscienza. E questa è la scienza della logica.

Essa fornisce quindi il concetto della ragione, della conoscenza razionale e del suo metodo. Al sapere metafisico, che è il sapere diretto del reale esterno, segue la logica, che nasce dalla riflessione della ragione su se stessa e sul suo modo di funzionare nella conoscenza e nelle scienze.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 3 febbraio 2024


La misura della verità del pensiero o del giudizio o del sapere sono le cose o gli enti che ci stanno davanti o attorno, la realtà visibile e invisibile che ci circonda, ci sta sotto, è alla pari di noi – le altre persone - e ci sovrasta – Dio e gli angeli - compresa la realtà della nostra stessa persona, gli «oggetti», da ob-jectum: posto-davanti.

La carità non è mai impositiva ed autoritaria. Nulla è di più contrario alla carità della violenza. In ciò Vattimo ha ragione. Quello che gli sfugge è che la carità non dice sempre e solo mitezza e tenerezza, ma anche fortezza, coraggio, attitudine al combattimento, lotta fino alla vittoria sul nemico. Infatti, se la carità impone di amare gli uomini nostri nemici, ci impone di odiare il peccato, la violenza, la falsità.

Pensiero forte non vuol dire necessariamente pensiero violento. Pensiero forte e pensiero debole devono stare assieme, così come la scienza convive con l’opinione, il sapere certo con la dialettica. Lo sbaglio di Vattimo è quello di voler sostituire il pensiero forte con quello debole credendo di poter fondare una metafisica che «indebolisce» l’essere e lo riduce a «evento».

Vattimo attacca la metafisica che per lui sarebbe quel pensiero forte che genera i dittatori e i tiranni. Niente di più falso. Vediamo brevemente che cosa è in realtà la metafisica. Essa è la scienza che ha per oggetto primario la questione della verità. E per conseguenza ha per oggetto la falsità, che è l’opposto della verità. Chi disprezza la metafisica dà prova di non amare la verità. Infatti Aristotele dimostra nella sua Metafisica che essa è la scienza delle verità primarie della ragione, i punti di partenza e le basi di tutto il sapere umano.

Immagine da Internet: Giani Vattimo



[1] René Girard, Gianni Vattimo, Verità o fede debole? Dialogo su cristianesimo e relativismo, Feltrinelli Editore, Milano 2015.

[2] Un grande maestro del nesso verità-libertà è stato il Padre domenicano Servo di Dio Tomas Tyn. Ho illustrato il suo pensiero in merito nel mio libro La liberazione della libertà. Il messaggio di P. Tomas Tyn ai giovani, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2008.

[3] Cf le considerazioni di Heidegger sul concetto del falso in Parmenide, Adelphi Edizioni, Milano 1999, pp.62-98.

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