La concezione buonista del peccato - Prima Parte (1/3)

 La concezione buonista del peccato[1]
 
Prima Parte (1/3)

Il male confuso col bene

Una mentalità oggi molto diffusa è quella del buonismo, un modo di vedere e giudicare gli uomini che si proclama liberale, aperto, dialogante, accogliente, pluralista, pacifista, tollerante, inclusivo e comprensivo. alieno dalle condanne e dalle esclusioni, salvo poi a manifestare, come vedremo, un segreto volto di prepotenza, arroganza, doppiezza, aggressività, faziosità, violenza ed oscurantismo.

 Malintendendo la bontà divina di salvare tutti, nonché il fatto che nulla si può opporre ad essa (cf Is 22,22), il buonismo intende questa volontà come se effettivamente essa si attuasse in tutti e quindi come se nessuno disobbedisse a Dio col peccato precipitando nell’inferno. Il male di colpa dunque non esiste, ma semmai soltanto il male di pena.

Per i buonisti tutti sono in buona fede e di buona volontà. Per questo, al posto di «peccato» si parla di «sbaglio»; al posto di «malvagità o malizia» si parla di «fragilità». Il peccatore non è una persona feritrice, ma una persona ferita. Non va punito, ma misericordiato.

Certo esiste la menzogna, l’odio, la diffamazione, la fake-news, il furto, l’omicidio, lo spaccio della droga, il traffico di armi, la violenza, la guerra, la rapacità, l’oppressione, l’egoismo. Tuttavia gli autori di queste azioni non devono essere giudicati o condannati o puniti, ma tollerati, compresi e perdonati. Esiste sempre una spiegazione psicologico-sociologica di quello che fanno, anche se non si esclude sempre la carcerazione.

Invece, certe altre azioni che toccano il linguaggio o il pensiero, come per esempio l’eresia, lo scisma, l’apostasia, il sacrilegio, l’empietà, l’ateismo, il suicidio, la bestemmia non sembrano più peccati, ma scelte diverse. Così pure altri finora considerati peccatori, come gli adulteri, gli abortisti, i fornicatori, i conviventi, i divorziati risposati, i sodomiti, i suicidi, i drogati, spesso non sono più considerati peccatori, ma semplicemente «diversi». Suscitano invece ancora la riprovazione pubblica, certo non senza ragione, solo i terroristi, gli assassini, gli sfruttatori, trafficanti di uomini, i dittatori, i pedofili, i besticidi e i contaminatori della natura. Ad ogni modo, anche questi si salvano e vanno in paradiso.

Per il buonista il peccato non è un vero e proprio atto morale, cosciente e volontario, ma sembra essere piuttosto un semplice fenomeno psichico, un atto spontaneo, impulsivo, emotivo, involontario curabile eventualmente con una psicoterapia.

Se poi è il peccato volontario, non lo si considera comunque in malafede o di malizia, ma di fragilità, e quindi non punibile e automaticamente perdonato nell’atto stesso di essere commesso, un atto che noi eventualmente consideriamo peccato, ma non perché sia veramente un atto cattivo; lo si considera invece semplicemente diverso e contrario al nostro modo di giudicare il bene e il male.

Sta invece il fatto che il concetto di colpa o peccato, in quanto relativo ad un categoriale, la privazione, che è il male, non è un trascendentale, non è un semplice non-essere, è estraneo alla metafisica ed appartiene invece alla morale, che considera la buona e la cattiva azione. Il male non è un trascendentale come il bonum, non è una proprietà dell’ente come tale, ma un difetto che riguarda solo particolari enti o perchè capaci di peccare, come gli enti personali o perchè affetti da mali di pena, ossia gli enti viventi, angeli, uomini, animali e piante.

Solo metaforicamente si può dire che soffre la natura inanimata, come quando per esempio viene trascurata, violentata o distrutta dall’incuria o dalla violenza dell’uomo. Il male morale, il peccato è un ente categoriale dipendente dalla volontà dello spirito finito, uomo o angelo, enti, questi, essi pure, non trascendentali, ma appartenenti alla categoria della sostanza.

Infatti in realtà il male è privazione del bene dovuto, che, come tale, non può essere dato dal semplice non-essere metafisico, che può essere finito o infinito. Il male non è il nulla. Il male dunque non dipende dal semplice essere, non può quindi avere una spiegazione o motivazione ontologica, ma è spiegabile solo con l’intervento di un ente categoriale personale, sia pur aperto alla totalità dell’essere, ossia lo spirito e precisamente la volontà.

Causa del male è dunque la volontà finita, la quale, violando, turbando o sovvertendo l’ordine ontologico e morale stabilito da Dio, ossia il comando dato da Dio, priva l’agente della rettitudine del volere, distorce la direzione della volontà, e priva il paziente che subisce l’atto disordinato, ossia il peccato, del bene che gi spetta, causando in esso il male di pena, dolore o sofferenza.

Il buonismo confonde il buono in senso morale col buono in senso trascendentale, perché per lui l’uomo stesso è un ente trascendentale. Invece mentre il buono in senso metafisico non è l’altro che la bontà ed amabilità dell’ente come tale, il bene morale non è il bene dell’ente come tale, ma di quel tale ente, di quel dato e particolare ente che è l’uomo. Per questo non è il bene trascendentale, ma è un bene categoriale adatto all’uomo, un bene, che se manca, si ha il male.

È vero che la volontà vuole sempre un bene ontologico, giacchè il male è la privazione di un bene dovuto, riconducibile al non-essere e il non essere non può essere oggetto della volontà. Ma quando si dice che il peccatore vuole il male, ci si riferisce ad un bene apparente, un bene arbitrariamente giudicato tale dal peccatore, un bene contrario all’ordine morale. Ora il bene morale, che si oppone al peccato, ossia al male morale, non è semplicemente il bene ontologico, ma è un bene inserito nell’ordine morale, un bene giovevole al vero bene dell’uomo.

Il bello è che poi il buonista esalta al massimo la libertà di ognuno sotto il segno inevitabile di un’etica relativista e liberale, dove ad ognuno è concesso di decidere del bene e del male come gli pare, cosicchè, diventando soggettivo il criterio di distinzione, nessuno può dire all’altro: tu pecchi, perchè ognuno ha un suo criterio di giudizio per conto proprio.

Per i buonisti non esistono leggi naturali oggettive, universali, immutabili ed obbligatorie per tutti, ma ognuno giudica come gli pare, sicchè quot capita, tot sententiae, e ciò risulta giusto perché comunque tutti sono buoni. E Dio, bontà infinita, salva tutti, proprio come alla fine della favola: tutti vissero felici e contenti. Qual è infatti quel balordo che sceglie per sé una pena eterna?

Il buonista riduce il male al solo male di pena e ignora il male di colpa, ossia quello causato dalla volontà, il peccato. Ma osservo che se non si sa che cosa è il male di colpa, ossia la cattiva volontà, non si spiega neppure il male di pena, la sofferenza, il dolore. E neppure c’è il modo di toglierlo. Infatti, come vedremo meglio, il male di pena è originato o causato o motivato dal male di colpa.

Per il buonista non esistono atti veramente cattivi o malvagi, né si può dividere l’umanità in buoni e cattivi, ma tutti, in fondo, magari inconsapevolmente, in modo atematico, sono buoni, nonostante certe apparenze. Tutti, anche l’empio, l’eretico, l’ateo, l’assassino o lo stupratore, sono cristiani anonimi, secondo la famosa espressione di Karl Rahner.

La bontà morale e la santità, anzi la mistica, infatti, secondo Rahner, non sono la volontaria messa in opera di un ideale concepito dalla ragion pratica e riflesso della volontà divina, dopo un opportuno cammino ascetico, ma sono l’esperienza trascendentale o l’opzione fondamentale, che tutti almeno inconsciamente fanno, la tendenza o autotrascendenza atematica verso Dio dello spirito orientato all’essere come essere pensato, all’essere come essere assoluto divino.

Il buonista è convinto di essere un salvato già adesso, per cui ritiene che Dio sia sempre teneramente con lui e di essere sempre in grazia qualunque cosa faccia. I buonisti estremi non riconoscono il male di colpa, ma solo quello di pena. Si sentono sempre vittime di disgrazie o della cattiveria altrui e non riconoscono di aver mai fatto nulla di male agli altri. In quanto buonisti, non danno colpe a coloro che hanno fatto loro del male, ma sono pronti a scusarli.  Anche i buonisti che ammettono la possibilità di una cattiva volontà, si ritengono già sempre perdonati.

Il buonista non si ritiene mai privo della grazia. Non si riconosce mai la possibilità di trovarsi in stato di peccato mortale. Sembra di essere agli antipodi di Lutero, per il quale tutti gli atti che compiamo sono peccati mortali. Eppure c’è un punto in comune tra queste due posizioni estremiste, apparentemente opposte, e cioè che nessuna delle due ammette un alternarsi di atti volontari buoni e cattivi, un alternarsi di stato di grazia e stato di peccato. Per far combaciare i due stati ci pensò già Lutero con la tesi della coesistenza dello stato di peccato con lo stato di grazia: simul justus et peccator. È quello che Lutero chiama peccatum permanens, identificandolo con la concupiscenza.

Bene e male per il buonista

dipendono dalla decisione del singolo 

Quindi la bontà morale per il buonista non suppone valori morali universali, immutabili e non negoziabili, non suppone leggi o comandi astratti ed assoluti, ma solo la libertà di ognuno di fissare ciò che per lui è bene e male. Non esiste un intrinsece bonum e un intrinsece malum, ma ogni azione può essere buona o cattiva a seconda delle situazioni. Pensare diversamente è dannosa rigidità. Spetta al singolo decidere o discernere cosa fare in concreto, caso per caso, al di sopra dell’astrattezza della legge. Qualunque legge ammette delle eccezioni o casi imprevisti.

Il peccato, essendo costitutivamente perdonato grazie alla misericordia divina, che tutti perdona, sta sempre insieme con la grazia. Per questo non occorre alcuna penitenza, alcun sacrificio espiatorio per la remissione dei peccati, alcuna rinuncia, alcuno sforzo ascetico.  

Nell’agire non si tratta di ragionare, obbedire o calcolare, ma solo di lasciarsi guidare dall’amore e dallo Spirito Santo. Per i buonisti la Messa non è un sacrificio, ma un banchetto pasquale. L’Eucaristia non è mangiare il corpo di Cristo sotto le specie del pane, ma mangiare del pane nel quale c’è Cristo. Non occorre farsi dei meriti con opere buone, perché la salvezza è gratuita, non è condizionata dal compimento di opere, ma è incondizionata. Per entrare nel regno di Dio non si paga il biglietto, ma si entra gratis.

Il buonista ha una concezione contradditoria della condotta umana. Egli è sostanzialmente un russoiano, negatore del peccato originale, per cui l’uomo non nasce con un’inclinazione a peccare, ma viene corrotto dall’influsso della società. Ossia l’uomo nasce buono, ma crescendo in età, scopre la possibilità di fare il male e, dietro l’esempio degli altri, comincia a farlo, perché gli piace. Egli però non ha colpa, ma la colpa è degli altri che lo inducono al male. Egli può tuttavia correggersi; ma per questo non occorre il soccorso della grazia, ma basta la forza della buona volontà.

Per lui, quindi peccare o non peccare li considera come atti rimessi alla sua libertà. Infatti egli non si riconosce creato da Dio con doveri morali da Lui imposti, ma ritiene di sapere da sé ciò che è bene e ciò che è male. Gli è naturale e ritiene che sia sua facoltà sia essere buono come essere cattivo.

In ciò Rousseau, per quanto apparentemente opposto a Kant, che sostiene che l’uomo è radicalmente cattivo[2], viene in realtà ad avere la stessa posizione, ossia una posizione liberale e individualista. Infatti anche Kant sostiene che l’uomo può essere buono per la sua semplice buona volontà, senz’alcun aiuto della grazia.

E d’altra parte l’uno e l’altro risolvono l’agire umano nelle possibilità della semplice ragione o natura umana, senz’alcun riferimento al dovere di render conto a Dio, perché secondo loro Dio, che è una semplice idea della ragione, approva sempre quello che decide l’uomo. Ecco il buonismo, il quale pertanto, non esclude in modo assoluto che l’uomo possa peccare o fare il male, ma sostiene che se lo fa, è cosa lecita e naturale ed è libero di farlo, perché vuol dire che per lui è bene, ma sarà male semmai per gli altri. Il punto, quindi non è tanto l’immoralismo, ossia il negare la distinzione fra bene e male, ma è il relativismo morale.

L’antropologia del buonista

La concezione buonista del peccato suppone un’antropologia per la quale l’uomo non è un soggetto dotato di libero arbitrio, con una volontà orientata ad operare e ad amare il bene, ma nel contempo tentata a fare il male; una volontà divisa in se stessa, perché da una parte, in quanto mossa da Dio, stimola al conseguimento del suo vero bene, che è Dio, nell’osservanza della legge morale; ma dall’altra, in quanto erede della colpa originale, spinge alla malvagità; una volontà divisa e divisiva, che cerca la discordia e il conflitto piuttosto che l’unione e la pace, una volontà che tende a ribellarsi e a disobbedire a Dio e alla legge morale, a preferire i beni materiali a quelli spirituali, per cedere all’attrattiva di falsi beni, di illusorie prospettive di felicità, alla concupiscenza e agli stimoli della carne e delle cattive passioni.

Se non c’è il libero arbitrio, che per il buonista vale solo per le contingenze della quotidianità, l’uomo per il buonista è però una libertà lanciata verso la trascendenza in un’opzione atematica fondamentale per Dio sorretta dalla grazia, opzione effetto dell’esperienza trascendentale precategoriale dell’essere e di Dio, secondo la visione di Rahner e di Lotz.

Tale esperienza nella gnoseologia buonista corrisponde ad una visione idealista e materialista ad un tempo, per cui l’uomo, nella sua attività conoscitiva, non si sente a contatto con una realtà esterna, oggettiva e sensibile, per salire da essa alla conoscenza del mondo dello spirito: l’autocoscienza, la percezione dei valori filosofici, metafisici, morali, religiosi e teologici.

Al contrario, l’uomo si concepisce come un soggetto autoesistente, originario, assoluto e increato, che risulta dalla giustapposizione di due soggetti incompatibili fra loro, giusta l’antropologia cartesiana: uno spirito, res cogitans, il cui oggetto di conoscenza non è l’essere, ma l’essere pensato; e un corpo meccanico, res extensa, che suppone la confusione della vita col meccanismo, un uomo la cui attività conoscitiva è chiusa allo spirito e limitata alle cose materiali, intese, però non in se stesse, ma in quanto percepite, sicchè la gnoseologia empirista e materialista viene a congiungersi con quella idealista, con la differenza che mentre per la prima l’essere è il pensato, per la seconda l’essere è il percepito.

Così la cosa ridicola è che un Berkeley, che affetta di negare addirittura l’esistenza della materia, alla fine è un perfetto materialista come Hume, che risolve tutto l’essere nel sentito e nello sperimentato. Così pure l’idealista, che identifica l’essere con l’essere pensato, finisce nel materialismo, giacchè l’essere è anche l’essere materiale, per cui se la materia è la materia pensata, allora il pensiero è una realtà materiale. Se la materia è pensiero allora il pensiero è materia.

Confusione fra metafisica e morale

Le radici metafisiche del buonismo comportano una morale confusa con la metafisica. Siccome per la metafisica l’ente come tale, ogni ente è buono, il buonista ne deduce che l’uomo, ogni uomo, per il semplice fatto di essere un uomo, ossia un ente è buono, è naturalmente inclinato ad agire per Dio, per cui è moralmente buono, anzi è in grazia di Dio, e quindi tende efficacemente[3] a Dio. È questa la posizione di Rahner.

Ma queste radici metafisiche derivano a loro volta dall’identificazione e parificazione idealistica del pensiero con l’essere[4] e dalla reciprocità fra essere e pensiero: il pensiero dipende dall’essere, ma anche l’essere dipende dal pensiero.

Ne viene la conseguenza che l’uomo dipende da Dio, ma anche Dio dipende dall’uomo; come dice Hegel: «Dio non è Dio senza il mondo».  Dio perde la sua assolutezza, per cui non può esistere senza l’uomo[5]. Sul piano morale nasce allora la conseguenza che Dio sì è buono, ma anche l’uomo è buono. Ma entrambi lo sono limitatamente e capaci di peccare. Sicchè Dio corregge l’uomo, ma anche l’uomo corregge Dio.

Questa sarebbe la spiegazione del male; esso non lo può evitare né l’uomo né Dio, perchè la bontà, per il buonista, è limitata, ha sempre un rapporto con la malvagità. Dio corregge la cattiveria dell’uomo, ma anche l’uomo corregge la cattiveria di Dio. Dio quindi non è bontà assoluta, perché non può essere senza l’uomo. Gli uomini hanno provocato Auschwitz; ma anche Dio non ha potuto nè voluto rimediarvi. Dio non toglie la sofferenza, ma soffre con l’uomo.

Così il buonismo, dietro una facciata di bontà e tenerezza, di pietà e misericordia, nasconde la crudeltà e l’ingiustizia. Il buonista ama farsi passare per persona comprensiva, tollerante, liberale, di larghe vedute, compassionevole, sempre attenta ai bisogni dei poveri, dei piccoli, dei sofferenti, dei malati, degli oppressi, degli emarginati, degli scarti della società, di coloro ai quali non pensa nessuno.

Una cosa da tenere presente a proposito del buonismo è che non bisogna identificare tout court la misericordia con la compassione. Il buon samaritano certo ha compassione del povero viandante ferito, ma non si ferma alla compassione; si dà da fare per sollevarlo dalla sua miseria. Invece il misericordista si limita alla sola compassione, perché considera ineliminabile la sofferenza. Egli la mette persino in Dio. Per il buonista o misericordista, che dir si voglia, Dio non è onnipotente, benché sia buono e pietoso. Non riesce ad allontanare o evitare le sciagure e le grandi calamità – tipico è l’esempio di Auschwitz - e non ha la forza di ripararvi. Non riesce a far giustizia e a rimediare alle ingiustizie.

Ma allora sorge il grande inconveniente, che se Dio non castiga, i malfattori restano impuniti e si sentono liberi di peccare. Ma perché per il buonista la sofferenza è un assoluto incausato ed inspiegabile e presente addirittura in Dio? Perché egli è schiavo della dialettica hegeliana, per la quale il male, che Hegel chiama il «negativo», è una necessità logica; e siccome Hegel, da buon idealista, confonde il logico col reale («ciò che è razionale è reale»), succede che egli non sa vedere il male sul piano della realtà, come privatio boni debiti, ma semplicemente come concetto necessario al concetto del bene.

In tal modo, come in logica il concetto del bene non può esistere senza il concetto del male, che è il non-bene, così nella realtà per il buonista il male diventa necessario all’esistenza del bene. In tal modo diventa impossibile un Dio come bontà assoluta e il male entra nel concetto stesso di Dio. Per questo, per il buonista il male è bene, perché è necessario al male. Per il buonista non può esistere un mondo senza il male. Per questo il male diventa normale, diventa naturale. Tutto è bene e tutto e ad un tempo è male.

Il buonismo riduce il male alla pura negazione di essere, al semplice non-essere, alla finitezza. In tal modo l’essere finito è un male, come già aveva pensato Leibniz. Da qui il compito dell’uomo di rifiutare la sua finitezza, non solo quella dei difetti, ma anche quella delle qualità naturali o essenziali, sotto pretesto che il progresso morale non deve mai aver limite.

Ma un conto sono i limiti essenziali della natura umana voluti da Dio e un conto è il limite dell’azione umana fattuale, esistenziale, storica e concreta. Si capisce che nell’agire dobbiamo migliorarci e correggerci continuamente e proporci obbiettivi sempre più alti. Sant’Agostino diceva che la carità che non progredisce e non aumenta non è carità. In tal senso vale il proverbio «chi si ferma è perduto».

Ma ciò non va assolutamente inteso nel senso modernistico, che confonde  la fermezza e la saldezza con la rigidità e l’arretratezza, e non vuol dire assolutamente, come crede Rahner con gli idealisti tedeschi, che l’uomo possa e debba da sé, quasi possedesse da sé originariamente una forza divina, la «grazia», superare i limiti della propria natura creata ad immagine di Dio e quindi stabiliti da Dio, l’uomo come animale ragionevole, come se questa natura fosse un involucro accidentale e coartante, che andrebbe infranto o comunque superato, senza per questo abbandonare la sua empiricità e storicità per poter espandere il proprio spirito e la propria potenza vitale fino al livello dell’Assoluto.

Superare il limite non deve assolutamente voler dire, come sostiene Rahner, che l’uomo sia costitutivamente l’«essere della trascendenza», originaria «unità di coscienza ed essere», per cui la grazia divina non sarebbe altro che l’«autotrascendersi dell’uomo in Dio» e l’«autocomunicazione divina all’uomo»[6], inteso egli stesso come trascendente, per cui Dio non trascende l’uomo, ma l’uomo è lo stesso trascendersi in Dio.  Dove allora va a finire la distinzione fra la natura e la grazia? Che dico: fra l’uomo e Dio?

La metafisica che sta alla base dell’antropologia buonista identifica l’uomo con l’essere e l’essere con l’essere assoluto. L’uomo, quindi, non è un ente categoriale, che copre una sfera limitata dell’essere, ossia la composizione di essenza ed essere, materia e forma, ideale e reale, uno e molteplice, essere ed agire, sostanza e accidenti, potenza ed atto. L’uomo è l’essere assoluto o, come dicono gi idealisti, l’uomo è «soggettività trascendentale», il che è come mettere l’uomo al posto di Dio. Si capisce allora perché l’uomo è assolutamente buono e non fa nessun male, perché Dio è bontà infinita. Ma questo come mai? Per il semplice motivo hegeliano che il bene e il male s’identificano.

Ma l’idealista non deve credere di potersela cavare così a buon mercato, perché con questa tesi si caccia in un pasticcio trascendentale, dal quale non riesce più a venir fuori. Infatti il male è comunque presente nel mondo ed è un’assai magra consolazione credere di risolvere il problema col vano tentativo di legalizzare il male riconducendolo alla finitezza e al semplice non-essere. L’unico esito di questa pseudosoluzione è quello di chiamare bene il male e di porlo in Dio stesso.

Per questo, se in metafisica il male non esiste perché essa considera solo l’ente come tale e ogni ente è buono, come possibile oggetto della volontà e dell’amore, se il bene non è Dio stesso, esso è creato da Dio, il Quale fa bene tutto quello che fa. L’uomo, invece, nella sua condotta morale, ossia nel suo agire in relazione al suo bene, in forza del libero arbitrio, può respingere il suo vero bene; e tuttavia resta ontologicamente buono in quanto ente. Diventa cattivo solo moralmente, perché col suo peccato fallisce al suo vero bene, stabilito da Dio e dalla legge naturale. Al buonista manca il concetto del peccato perché identifica l’uomo con l’ente, che per sua essenza tende al bene e a Dio.  

Ora, l’azione metafisica dell’ente è sempre buona; ogni ente agisce sempre in vista di un fine; non è mai carente o difettosa, non è mai malvagia, non fallisce mai, ma sempre obbedisce alla legge fisica stabilita da Dio. Tutti gli enti della natura infraumana, minerali, piante ed animali, agiscono sempre in perfetta obbedienza alle leggi volute da Dio, le quali regolano e dirigono la loro azione. E se è vero che nel mondo della vita fisica esiste la malattia, la sofferenza e la morte, anche questi fenomeni si svolgono secondo leggi chimiche, esse pure stabilite dall’Autore della natura.  Ora tutto ciò che avviene secondo la legge è buono e razionale.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli 

Fontanellato, 27 settembre 2022

Il male è privazione del bene dovuto, che, come tale, non può essere dato dal semplice non-essere metafisico, che può essere finito o infinito. Il male non è il nulla. Il male dunque non dipende dal semplice essere, non può quindi avere una spiegazione o motivazione ontologica, ma è spiegabile solo con l’intervento di un ente categoriale personale, sia pur aperto alla totalità dell’essere, ossia lo spirito e precisamente la volontà.

Causa del male è dunque la volontà finita, la quale, violando, turbando o sovvertendo l’ordine ontologico e morale stabilito da Dio, ossia il comando dato da Dio, priva l’agente della rettitudine del volere, distorce la direzione della volontà, e priva il paziente che subisce l’atto disordinato, ossia il peccato, del bene che gli spetta, causando in esso il male di pena, dolore o sofferenza.

Il buonismo confonde il buono in senso morale col buono in senso trascendentale, perché per lui l’uomo stesso è un ente trascendentale. 

Invece mentre il buono in senso metafisico non è l’altro che la bontà ed amabilità dell’ente come tale, il bene morale non è il bene dell’ente come tale, ma di quel tale ente, di quel dato e particolare ente che è l’uomo. Per questo non è il bene trascendentale, ma è un bene categoriale adatto all’uomo, un bene, che se manca, si ha il male.



Immagini da Internet:
- Kabul, opera di Shamsia Hassani
- Madonna Odigitria, arte ucraina, Musei Vaticani


[1] Mi permetto di segnalare il libretto che ho scritto su questo argomento L’eresia del buonismo. Il buonismo e i suoi rimedi, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2017.

[2] La religione entro i limiti della sola ragione, Editori Laterza, Bari 1985, pp.32-46.

[3] Rahner riduce la grazia sufficiente alla grazia efficace e dice che ogni grazia e la grazia vien data a tutti, è efficace, ossia conduce infallibilmente alla salvezza.

[4] Sono note le sue formule: la cosa è il concetto della cosa; il reale è l’ideale; il razionale è il reale; l’essere è il pensare; l’essenza dell’essere è conoscere; l’essere è essere cosciente; il pensiero è intrascendibile; oggetto del pensiero è il pensato o l’atto del pensare; essere e conoscere costituiscono un’identità originaria; l’essere è la sua soggettività; l’essere per sua natura è autocoscienza; l’io pone il non-io nell’io e simili.

[5] Questa concezione sembra già adombrata nella concezione luterana dell’Incarnazione, dove sembra esser perso di vista che Dio non si è incarnato per essenza ma per volontà, sicchè vien fuori un Dio che non è per sé indipendentemente da me, ma un Dio-per-me. Se Dio è il fine dell’uomo, però anche l’uomo, come dice Rahner, è il «destino di Dio». Se Dio non fosse Cristo, non sarebbe Dio. E allora il Dio dell’Antico Testamento? È un Deus absconditus tirannico e crudele: Lutero segna un ritorno di marcionismo, con lo stesso inquietante antisemitismo che porterà al nazismo.

[6] Peter Paul Saldanha, Revelation as «Self-communication of God», Urbaniana University Press, Roma 2005.

2 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    ero un po' incuriosito, nella prima parte del suo articolo, quando descrivi i buonisti, quando dici: "Quindi la bontà morale per il buonista non suppone valori morali universali, immutabili e non negoziabili, non suppone leggi o comandi astratti ed assoluti, ma solo la libertà di ognuno di fissare ciò che per lui è bene e male. Non esiste un intrinsece bonum e un intrinsece malum, ma ogni azione può essere buona o cattiva a seconda delle situazioni. Pensare diversamente è dannosa rigidità. Spetta al singolo decidere o discernere cosa fare in concreto, caso per caso, al di sopra dell’astrattezza della legge. Qualunque legge ammette delle eccezioni o casi imprevisti".
    Nello specifico quell'ultima frase: "Qualunque legge ammette delle eccezioni o casi imprevisti".
    Mi interessa sapere se questa affermazione che lei fa delle caratteristiche generali dei buonisti, non possa avere qualche aspetto positivo e riscattabile. Questo è esattamente il punto a cui mi riferisco qui. Io spiego:
    Comprendo che ogni legge, sia divina che umana, ha un carattere generale, è astratto, non si riferisce a casi specifici, sebbene sia istituita per applicarsi a casi specifici. E che, quindi, può sempre sussistere il caso in cui si fa eccezione alla legge generale, proprio per una corretta applicazione della legge generale.
    Non è dunque questo il modo corretto di intendere l'affermazione "buonista" che viene fatta?: "Qualunque legge ammette delle eccezioni o casi imprevisti".
    Ricordo ad esempio quando, circa sei o sette anni fa, intorno ai Sinodi sulla Famiglia, in cui tutti discutevano della Comunione eucaristica ai divorziati risposati, uno degli argomenti a favore era proprio questo, che ogni legge ha la sua eccezione. Mi sembra persino di ricordare un articolo firmato da leie, in cui hai discusso sulla base di questi motivi.

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    1. Caro Alessandro,
      effettivamente nel metodo buonista si può ricuperare qualche cosa. Però bisogna fare molta attenzione su due punti. Uno, la differenza tra legge positiva e legge naturale. Due, la gerarchia delle leggi.
      Per quanto riguarda il primo punto, mentre la legge positiva ammette eccezioni, perché è convenzionale e quindi dipende dalla prudenza dell’agente, la legge naturale è una legge universale ed immutabile, stabilita dalla ragione divina, legge naturale che è obbligatoria sempre e in ogni caso. Quindi non ammette eccezioni. È ciò che in morale si chiama “bene onesto” o “intrinsece bonum”. Kant chiama questa legge “imperativo categorico”. Cicerone la chiama “legge non scritta”. E San Paolo la chiama “legge scritta nel cuore e testimoniata dalla coscienza” (Rm 2,14-15) e San Tommaso “legge naturale, stabilita dalla ragion pratica”.
      In forza del secondo punto, dobbiamo ricordare che non tutte le leggi naturali hanno la stessa importanza. Facciamo l’esempio del V Comandamento: non uccidere. È il Comandamento che promuove la vita a tutti i livelli, dalla vita fisica del singolo alla vita della società. Che cosa può capitare in questo campo? Che ci può essere un conflitto tra la vita del singolo e le esigenze del bene comune. Siccome la vita fisica del singolo è subordinata al bene della società, se il singolo mette in pericolo la vita della società, che è più importante, la società ha diritto di difendersi sopprimendo la vita del singolo, benchè egli abbia il dovere naturale di conservare se stesso.
      Un altro esempio può essere tratto dalla situazione di una coppia di DR con un precedente matrimonio valido. Dunque qui siamo davanti ad un obbligo assoluto, qual è l’indissolubilità del matrimonio. Però la considerazione che si può fare, e alla quale la AL si avvicina, è quella di tener conto di una situazione della coppia, alla quale essa non può sottrarsi senza violare il diritto naturale delle persone coinvolte. A questo punto la coppia ha il dovere di restare unita.
      Inoltre, l’AL dice che la coppia o uno dei due può essere in grazia anche senza accedere ai Sacramenti, perchè col dovuto pentimento può essere direttamente perdonato da Dio. Che cosa succede in questo caso? Che ne è della legge naturale? Non siamo davanti ad una eccezione della legge naturale, cosa impossibile, ma ad un caso straordinario dell’applicazione della legge naturale, un caso nel quale il dovere della coppia supera il dovere della fedeltà al matrimonio precedente.
      Si tratta della applicazione di una giustizia superiore, quella giustizia superiore a quella dei farisei, della quale parla Cristo, giustizia per la quale si soprassiede ad un valore inferiore per salvare quello maggiore, giustizia superiore già nota ad Aristotele col nome di “epikeia” e chiamata da Papa Francesco “equità”, virtù già conosciuta dal diritto romano con il nome di “equitas”.
      Infine potremmo ricordare che l’amministrazione dei Sacramenti rientra nella legge positiva della Chiesa. Pertanto, a proposito della situazione dei DR possiamo dire che un Papa può cambiare quello che ha fatto un Papa precedente. Quindi di per sé il Papa, se lo ritenesse opportuno, potrebbe concedere a precise condizioni i Sacramenti ai DR. In questo caso si può parlare di eccezione alla legge, perché non si tratta di una legge naturale, ma di una legge ecclesiale.

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