L’atteggiamento
del cristiano nei confronti della sofferenza
Terza parte
(Ultima parte)
(Ultima parte)
Come
la superstizione e l’ateismo affrontano il problema della sofferenza
Corruzione
della religione è la magia, per la quale l’uomo constata bensì che la divinità
gli è contraria, ma invece di correggersi obbedendo ad essa, offrendo sacrifici
espiatori, fare penitenza e chiederle perdono, pretende di correggere, mutare e
piegare il volere divino al fine di costringerlo ad accontentare le sue voglie.
Non è l’uomo che deve pentirsi e convertirsi per riconciliarsi con Dio, ma è
Dio che deve smettere di punire e deve accontentare l’uomo. Nella magia non Dio
ma l’uomo sa qual è il suo bene. Da qui la pratica magica tesa ad obbligare Dio
a fare la volontà dell’uomo. Ho criticato su questo blog una posizione del
genere sostenuta di recente da Luigino Bruni su Avvenire.
Quanto
all’ateo, egli, come è noto, rifiutando la religione, rifiuta per conseguenza
la soluzione data dalla religione al problema della sofferenza. Naturalmente
anche lui fa tutto il possibile per evitarla o per liberarsene. Ma quando non
ci riesce, come ragiona? Che fa?
Ci sono quattro
forme di ateismo: quella prometeica, marxista, convinta che l’uomo un giorno felice,
con le sue sole proprie forze, riuscirà
a soggiogare pienamente la natura ribelle e creerà una società libera e pacifica,
senza disuguaglianze, senza oppressi ed oppressori, dove la sofferenza sarà
eliminata per sempre: sarebbe la società comunista. Ma è chiaro che si tratta
di un’irrealizzabile utopia, benché sembri che i comunisti non se ne siano
ancora accorti, per cui, dopo due secoli di fallimenti, si ostinano ancora a
perseguire questo scopo, sbagliato non tanto in sé stesso, ma per il fatto di volerlo
ottenere senza il soccorso della religione e della grazia divina.
Esiste poi
l’ateismo naturalistico, il quale considera la natura come l’assoluto. Ma
questo in due modi: in un primo modo spiega l’origine della sofferenza con una
applicazione della legge di natura. Nel primo caso la sofferenza non è altro
che l’applicazione di una normale legge di natura, concorre all’armonia
generale e complessiva della Natura.
Nel secondo caso, la natura, non essendo per
lui creata da Dio, gli appare come una divinità, una Madre-Matrigna, una
Cerere, Sciva o Pachamama, Signora della vita e della morte, elargitrice
insindacabile ora del piacere, ora del dolore. In questo caso l’ateo spiega la
sofferenza con le proprie imprudenze nei confronti della natura. Per cui in tal
caso, per non avere guai, occorre tenersi buona la natura. La sofferenza,
quindi, per questi atei idolatri, non ha nulla a che vedere col peccato
dell’uomo, se non in quanto egli offende la Natura.
Ci sono poi gli atei eternalisti, che seguono
la filosofia di Emanuele Severino, per i quali la sofferenza non è una vera e
propria realtà sensibile in divenire, che possa sorgere e cessare, ma è solo
l’apparire passeggero, contingente e temporaneo, qui ed ora, dell’Essere Uno,
eterno, necessario ed immutabile. Per cui la sofferenza è eterna come l’Essere,
esiste da sempre ed esisterà sempre, come apparire e scomparire dell’Essere per
noi mortali e sofferenti. Essa quindi non è un male se non dal nostro punto di vista
psicologico, limitato, dell’individuo empirico che soffre. Ma se ci eleviamo al
punto di vista «teoretico», dello «sguardo dell’Essere», comprendiamo che ciò
che sembra un male per noi non è altro che la eterna manifestazione
dell’Essere. A me questa appare una presa in giro.
C’è infine
l’ateismo di Nietzsche, per il quale pure la sofferenza è strutturale ed
essenziale alla realtà. Egli, però, a differenza di Severino, non invoca
supreme esigenze metafisiche circa l’essenza dell’Essere, ma semplicemente
assume la sofferenza, in tutta la sua tragica realtà umana e non le dice un no,
ma al contrario le dice un sì assoluto ed incondizionato, non importa che essa
sia una punizione divina: ben venga la punizione divina, giacché Nietzsche
dichiara la sua intenzione di voler «danzare all’inferno».
Cristo
rimedio al peccato e alla sofferenza
Per tornare alla
realtà, diciamo dunque che l’uomo, secondo la narrazione biblica, avendo perso
col peccato originale la grazia, dono divino soprannaturale, non era più in
grado di riaverla, se Dio non glie l’avesse ridonata a condizione di pentirsi del
peccato. E per questo la Bibbia insegna che solo Dio può perdonare il peccato.
Infatti il perdono divino suppone un vero proprio atto creativo, atto che
evidentemente solo Dio può compiere.
Cristo è
Colui Che, col suo sacrificio paga il debito di Adamo è dà soddisfazione al
Padre per il peccato al nostro posto. A questo punto il Padre perdona il
peccato, ossia rimette a noi il debito già pagato da Cristo. Tuttavia, come
spiega bene San Paolo, siamo chiamati a «completare nella nostra carne», con le
nostre sofferenze, «ciò che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24).
Il sangue di
Cristo è il prezzo del nostro riscatto. Noi, che già appartavamo al Padre, una
volta sottrattici al suo dominio col peccato, e divenuti schiavi di Satana,
siamo stati liberati dal suo dominio, siamo stati ri-comprati, ri-acquistati (red-empti) da Cristo e restituiti al
legittimo proprietario, il Padre. Nel contempo Cristo ha rimborsato il Padre
col suo sangue, per il danno ricevuto dalla perdita del suo dominio sull’uomo a
causa del peccato originale. Per questo dunque Paolo dice che «siamo stati
comprati a caro prezzo» (cf I Cor 6,20), mentre l’Apocalisse dice che Cristo «ci
ha riscattati per Dio con il suo sangue» (Ap 5,9).
Il rimedio
al peccato non è solo la cancellazione della colpa, ma anche l’eliminazione
delle conseguenze del peccato, ossia
della sofferenza e, se è vero che il peccato merita un giusto castigo,
nulla vieta che la pietà per chi soffre, che è un aspetto essenziale dell’opera
della Redenzione, possa e debba estendersi anche a coloro che sono castigati
per i loro peccati o scontano una pena per i loro delitti, poiché la carità
cristiana, senza negar il rigore della giustizia, ha la propensione a mitigare
ed alleviare, per quanto possibile, il
dolore e la sofferenza, rifuggendo con ogni cura da ogni forma di rigorismo o,
ancor peggio, di crudeltà. Da qui, le opere della misericordia corporale e spirituale,
il sollievo della sofferenza, la lotta contro la sofferenza, il conforto e la consolazione
nella sofferenza, la liberazione dalla sofferenza.
La consolazione
degli afflitti, non solo per un sentimento di pietà umana, ma per obbedire al comando
di Cristo e per seguire l’esempio di Cristo, è una delle principali consegne dell’etica
cristiana, sempre praticata in mille forme nella storia cristiana, consolazione
efficacissima, fondata sul Vangelo, ed accompagnata dal fattivo impegno personale.
La stessa contemplazione del mistero della croce, che sempre caratterizza la
santità cristiana al seguito di San Paolo, è sorgente per il cristiano di ineffabile
consolazione, sempre sulla linea della amabilità della sofferenza per amore di
Cristo e per corrispondere al suo amore per noi.
Alcune
testimonianze e direttive bibliche significative. «Il Signore è vicino a chi ha
il cuore ferito» (Sal 34, 18); «chi tra voi è nel dolore, preghi» (Gc 5,13); «non
nascondermi il tuo volto nel giorno della mia angoscia» (Sal 102, 3); «ricordatevi di quelli che soffrono» (Eb
13,3); «la sapienza liberò i suoi devoti dalle sofferenze» (Sap 10,9); «o Dio, Tu
ci hai dato sollievo» (Sal 66,12); «come una madre consola un figlio, così Io
vi consolerò» (Is 66,13); «il Padre vi darà un altro Consolatore» (Gv 14,16);
«venite a me, voi che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò» (Mt 11, 28).
Da qui i
continui progressi in tutte quelle attività umane che sono ordinate al sollievo
delle miserie umane, sul piano fisico e su quello spirituale. Da qui, per
esempio, i progressi continui della medicina. Da qui la fondazione, nel corso
della storia cristiana, di innumerevoli istituti laicali e religiosi di assistenza
e di soccorso ai poveri, agli anziani, agli immigrati, ai pellegrini, agli
orfani, ai malati, ai carcerati, ai sofferenti ed emarginati di ogni tipo, età,
ceto e condizione.
Importante è
il posto della sofferenza nell’opera educativa cristiana e più in generale
nello stile pastorale dei santi vescovi e Papi: essa gioca un ruolo al punto di
convergenza e di equilibrio fra la dolcezza e la severità. Non esigere troppo e
non concedere troppo. Se si è troppo esigenti, il discepolo si scoraggia, diventa
scrupoloso, pauroso, ricorre alla finzione ed ai sotterfugi. Se si è troppo
accondiscendenti o indulgenti il carattere del discepolo non si irrobustisce,
diventa molle, instabile e volubile, pigro, egoista, soggetto ai piaceri,
inetto alle rinunce e al sacrificio. E grande è il rischio che vengano fuori
uomini di questo tipo: «Gli uomini saranno attaccati più ai piaceri che a Dio» (II
Tm 3,4).
Il buon
educatore deve saper educare il discepolo a come affrontare la sofferenza,
quindi alla pazienza, alla disponibilità, alla perseveranza, al sacrificio,
alla penitenza, al dono di sé, alla vittoria su se stesso, all’amore per la
Croce. Buono questo consiglio, quando il discepolo è nella prova: «dovresti
usargli benevolenza e confortarlo, perché egli non soccomba sotto un dolore
troppo forte» (II Cor 2,7).
L’illusione del misericordismo
Il misericordismo è quella falsificazione della misericordia per
eccesso, per la quale si respinge come malvagità ogni forma di severità, di
coercizione e di castigo, sotto pretesto che sono contrari alla misericordia.
Ora, che siano contrari è evidente, perché mentre la severità non perdona e fa
soffrire, la misericordia perdona e solleva dalla sofferenza. Ma nessuno
pretende che i contrari esistano simultaneamente. È chiaro che se c’è il caldo,
non ci può essere il freddo, se c’è il giorno, non ci può essere la notte, se
c’è il dolore, non ci può essere il piacere.
Ma il difetto del misericordismo sta nel fatto di credere che l’amore
e la bontà richiedano che non si deve mai per nessun motivo far soffrire il prossimo.
Ora il castigare e il costringere fanno soffrire il prossimo. E dunque chi fa
soffrire il prossimo per qualunque motivo è un malvagio e un crudele che pecca
contro la misericordia. Chi ragiona così è uguale a quello che non capisce che
d’inverno occorre il riscaldamento e d’estate ci vuole l’aria condizionata.
Non capisce
che può esser segno di bontà e può far bene al prossimo tanto la giustizia di
chi punisce quanto la misericordia di chi perdona. Non capisce le parole della
Scrittura: «il Signore è lento all’ira e grande nell’amore» (Sal 103,8).
Non capisce che l’essenziale per governare ed educare il prossimo non
è non farlo mai soffrire, ma lo convince della necessità di cercare valori così
alti, che val la pena di soffrire per essi, e gli fa capire che se soffre, può
esser segno che deve pentirsi di qualche peccato e correggersi, gli fa capire che
se soffre da innocente, può sempre unirsi alla sofferenza dell’Innocente per eccellenza,
che è Cristo; gli fa capire che, se siamo severi con lui e se gli arrechiamo
dispiacere, è per il suo bene.
La saggezza popolare di sempre conosce bene questi princìpi
educativi, che stanno alla base del buon ordine sociale, come per esempio: «Il medico
pietoso incancrenisce la piaga» o quelli della Scrittura: «Il bastone della correzione
allontanano la stoltezza (Pr 22,15); «flagello e correzione sono saggezza in
ogni tempo» (Sir 22,6). Essi sono la extrema
ratio per spingere a fare il bene o a evitare il male chi non si persuade
con la ragione o con motivi di fede.
Se poi quello continua spavaldamente a peccare, vuol dire che è incorreggibile,
per cui non gli si può fare alcuna misericordia, perché sarebbe lui il primo a rifiutarla. Chi è convinto di aver fatto
bene non sente alcun bisogno di essere compassionato.
Io penso che Giuda disperò del perdono divino non per mancanza di
fiducia nella divina misericordia, ma perché, pur avendo coscienza di aver
«tradito il sangue innocente», non si pentì sul serio, ma, avendo puntato tutto
sulla vita presente ed essendosi accorto che Gesù invece mirava ad una vita
futura, pur sapendo che aveva ragione, non si autopunì col suicidio, come
alcuni credono, ma semplicemente, aspettandosi da questa vita una felicità che Gesù
non gli aveva dato, e rimasto deluso di Lui, la cui missione evidentemente
aveva frainteso, volle rifiutare la vita presente, un po’come fece il famoso
poeta Cesare Pavese, il quale, deluso dal fatto che nelle elezioni politiche
del 1948 il Partito Comunista non aveva conquistato, come sperava, la maggioranza dei voti, si suicidò.
Invece il
misericordismo è una falsa misericordia sia in riferimento a Dio che in riferimento
a noi. In riferimento a Dio è una forma di speranza temeraria senza fondamento,
nella vana convinzione, priva di timor di Dio, che Dio non punisce mai ma perdona
sempre, anche chi non è pentito. Ma, come ci avverte San Paolo, non conviene
fare i furbi con Dio: «Non ci si può
prender gioco di Dio» (Gal 6,7).
Il
misericordista si rifiuta di pensare che le sventure che gli capitano possano
essergli mandate da Dio, perchè egli faccia penitenza e si converta dai suoi
peccati, ed è convinto di ciò semplicemente per il fatto che ritiene di non
aver peccati da scontare, avendolo Dio già perdonato nella sua misericordia e
poiché Dio è amore, «non può», come ha detto di recente Mons. Olivero Vescovo di
Pinerolo, «mandare il male». Il misericordista non capisce che invece le
sventure che Dio ci manda sono ottime occasioni per riconoscere e non
nascondere i nostri peccati, come ci avverte la Scrittura: «chi nasconde le
proprie colpe non avrà successo» (Pr 28,13).
Il misericordista è come un padre che, per accontentare il figlioletto
goloso di dolci, esagerasse nel comprargli dei dolci senza pensare che essi
fanno venire il diabete. Certamente la misericordia è un beneficio, una dolcezza
che piace a tutti. A tutti i figli di Adamo piace essere scusati e non puniti
dei propri peccati, per cui ci viene un desiderio insaziabile di essere
misericordiati, pur continuando a peccare. Per questo, se capita una sventura,
siamo subito pronti a dire, magari citando la Bibbia, che non si tratta affatto
di una punizione divina, ma solo di uno spiacevole incidente di percorso.
Per questo, non pensando
affatto che quella sventura gli venga da Dio, il misericordista ne attribuisce
la causa o alla natura o agli uomini, ma non certo ai suoi peccati o al peccato
originale, per cui, se in questo frangente rivolge il pensiero a Dio non è
affatto per chiederGli perdono dei suoi peccati, ma semplicemente perchè Dio lo
liberi da quel male. In tal modo egli non impara niente dalla lezione che Dio
gli ha impartito e continua tranquillamente negli stessi peccati di prima, convinto
che comunque si salverà perché Dio è «misericordioso».
Così il misericordismo, con la sua enfasi
esagerata sulla misericordia per tutti, finisce per dar spazio all’ingiustizia
e al peccato facendo sì che gli empi, i malfattori e gli egoisti, convinti di
non essere puniti, si sentano liberi di incrudelire, opprimere, sfruttare ed
angariare i deboli e i miseri a loro piacimento. Esso dunque ottiene l’esatto
contrario di quello che pretende di ottenere. I malfattori se ne ridono di
essere compassionati, considerano chi li compassiona degli «utili idioti», come
diceva Lenin e degli inconsci complici dei loro misfatti.
Invece è proprio in nome della solidarietà
con gli oppressi e in vista della realizzazione della giustizia sociale che
occorre in certi casi costringere con la forza i ricchi egoisti e gli
oppressori a mettere i loro beni a disposizione della comunità con particolare
attenzione ai più bisognosi e ai sofferenti.
San Giacomo ci insegna che con questi ricchi gaudenti
oppressori e sfruttatori non si deve avere nessuna misericordia, ma devono
essere severamente minacciati: «piangete e gridate per le sciagure che vi
sovrastano! … Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine,
la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divorerà le vostre carni
come fuoco. … Vi siete ingrassati per il giorno della strage» (Gc 5,1-2;5).
Giacomo può riferirsi alla giustizia divina,
ma anche ad un’azione punitrice severa proveniente dalla società o dallo Stato.
Occorre però sapersi regolare a seconda dei casi e delle possibilità. A ciò
infatti fa da contrappeso la raccomandazione di Paolo a Timoteo: «ai ricchi di
questo mondo raccomanda di non essere orgogliosi, di non riporre la speranza nell’incertezza
delle ricchezze, ma in Dio, che tutto dà con abbondanza perché ne possiamo godere,
di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere pronti a dare, di
essere generosi, mettendosi così da parte un buon capitale per il futuro, per
acquistare la vita vera» (I Tm 6,18).
Non è impossibile che il ricco entri nel
regno dei cieli, perché anch’egli può pentirsi e fare e ricevere misericordia. Non
è impossibile che il ricco si converta dall’egoismo e dalla superbia alla giustizia
e dalla misericordia. Uno dei frutti più belli della predicazione domenicana nei
secoli, è stato proprio questo di essere riuscita tante volte a toccare la coscienza
degli avari e dei prepotenti per trasformarla, sotto l’influsso della grazia,
ora con la minaccia, ora con la persuasione, sempre con l’esempio di una vita
retta ed onesta, dalla chiusura in se stessa all’apertura ai bisogni degli
altri, dalla crudeltà alla compassione, dall’attaccamento al mondo alla ricerca
di Dio.
Se Dio in tutto quello che fa è misericordia
e non castiga, come la pandemia può essere segno di misericordia? Infatti, che
misericordia è quella che manda la sofferenza? E d’altra parte non è forse
proprietà del castigo far soffrire? Rispondiamo che anche quando Dio ci manda
la sventura, possiamo vedere in ciò un segno della sua misericordia, perché,
per sua misericordia, possiamo scontare i nostri peccati.
Consideriamo inoltre che la Rivelazione cristiana
non contiene solo princìpi teoretici e pratici, ma anche dati di fatto, eventi storici
che sono l’effetto della volontà o della permissione divina. E trattandosi di
divina Rivelazione, questi dati positivi non possono essere oggetto di
discussione fra teologi o lasciati alla libera opinione di ciascuno, ma costituiscono
oggetto di fede divina al di fuori di qualunque discussione od opinione, assolutamente
certe ed immutabili, come è immutabile la Parola di Dio. Uno di questi dati di fatto è l’esistenza di dannati
nell’inferno, risultante con totale chiarezza dalle parole di Cristo e, se ci
fosse bisogno, più volte insegnata dal Magistero della Chiesa[1].
P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 9 giugno 2020
[1] Basterebbero le terribili parole rivolte da Cristo ai dannati al
Giudizio universale alla fine del mondo:
« Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno! (Mt 25,41). Cf il mio
libro L’inferno esiste. La verità negata,
Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.
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