La concezione idealistica del soggetto umano - Quarta Parte (4/4)

 La concezione idealistica

del soggetto umano

Quarta Parte (4/4) 

Soggetto e oggetto

Si sa come nell’idealismo soprattutto schellinghiano riveste un’enorme importanza il concetto del «soggetto». Esso è collegato al concetto dell’«io», che a sua volta proviene dall’io cartesiano, ossia l’ego dell’ego cogito. Kant lo chiama «io penso». Fichte parla semplicemente dell’Io; Schelling introduce il termine «Soggetto»: l’io di Cartesio, Kant e Fichte è per Schelling il Soggetto. Hegel continuerà a parlare di Soggetto, che però non è più l’oscura intuizione intellettuale pre o ultraconcettuale di Schelling, ma è il Concetto. Il reale, come si sa, per Hegel, è il razionale. L’oggetto della metafisica è lo stesso della logica.

Soggetto e oggetto per gli idealisti rappresentano, a partire da Schelling, la diade di pensiero e realtà, ovvero di ideale e reale. Essa è l’esplicazione dell’opposizione fichtiana fra Io e non-Io, la quale è posta da Fichte per fondare l’origine del diverso. Senonchè però il ricorso alla negazione crea all’interno dell’Io un’opposizione che mal si concilia con quella che dovrebbe essere l’unità originaria dell’Io. Fichte si dibatte in questa contraddizione senza venirne fuori.

Vediamo la posizione di Schelling:

«Nell’Io sono originariamente contrapposti soggetto e oggetto; entrambi si elidono e tuttavia nessuno dei due è possibile senza l’altro. Il soggetto si afferma solo in antitesi all’oggetto, cioè nessuno dei due può divenire reale, senz’annientare l’altro, eppure non possono non trovarsi insieme. Il conflitto è adunque non è tanto un conflitto fra due fattori, quanto tra l’impossibilità di unire gl’infinitamente opposti, da una parte, e la necessità di farlo, se non dev’esser tolta  l’identità dell’autocoscienza, dall’altra»[1].

Si può capire che la coscienza umana è in conflitto con se stessa. Ma quella divina? Ma perchè mai il conflitto dovrebbe essere necessario? La soluzione sarebbe stata una nozione analogica dell’io. Ma Fichte ignora l’essere analogico. Per lui l’altro è semplicemente il negativo. Il finito non sta assieme con l’infinito, ma si negano a vicenda. O Dio o l’uomo: non possono stare assieme. O sono identici o sono nemici. Fichte sceglie per Dio, perché l’uomo è Dio.

Gli idealisti concepiscono il soggetto non come un sostrato (l’aristotelico ypokèimenon), che faccia da fondamento o sostenga una potenza, una forma, o accidente, che si aggiungono al soggetto per completarlo o perfezionarlo, ma lo concepiscono come un sussistente autofondato, autocosciente ed originario (è l’ego cartesiano), che produce l’oggetto o è passivamente affetto dall’oggetto, che è un qualcosa di assolutamente altro e magari opposto (per es. il non-Io di Fichte), eppure necessario all’esistenza del soggetto, interno allo stesso soggetto (l’Io di Fichte).

In realtà, nella verità delle cose, che non è l’idealismo, il subiectum ha per essenza bisogno di un termine oggettivo di riferimento; è soggetto-di, soggetto-a. L’essere soggetto, propriamente, non è quindi un sussistente chiuso in se stesso, ma è la proprietà di un sussistente materiale o spirituale, rispetto a qualcos’altro o aperto a qualcos’altro, a cui o di cui è soggetto.

Nell’idealismo il soggetto è diventato il soggetto umano, la persona. Questo modo di esprimersi è entrato da tempo nell’uso linguistico e persino nel linguaggio della scienza e della Chiesa. Resta tuttavia che si tratta di un uso improprio del termine, che nasconde l’origine idealista, benché ormai ignorata e quindi non intenzionale nel parlare oggi corrente.

Il concepire il soggetto come centro e principio di attività è di origine idealista, in quanto l’idealista identifica la persona con il suo agire. In realtà, principio di attività in noi non è il soggetto, ma sono gli abiti e le potenze. Solo in Dio l’essere s’identifica con l’agire. Tuttavia è chiaro che l’uso odierno e corrente del termine ha ormai perduto questo senso idealista e si riferisce semplicemente all’individuo umano, il quale evidentemente è il soggetto dell’azione. In questo senso corrente non c’è nessun problema a dire che il soggetto agisce. Ma il senso in cui gi idealisti usano la parola suppone un pensare e un agire sussistente, così come si ricava dal cogito cartesiano.

Quanto all’oggetto, bisogna fare un discorso simile. Nel linguaggio attuale l’«oggetto» è un corpo, un qualcosa di sussistente materiale, naturale o artificiale, Ma obiectum propriamente è la qualità della cosa o del fine in quanto sta davanti alla potenza o alla facoltà; per cui si dice, per esempio, che Dio non è un «oggetto», nel senso di cosa materiale, e tuttavia è oggetto di conoscenza, giacchè anche l’oggetto, propriamente, non è qualcosa di a sè stante o di assoluto, ma è un relativo: l’oggetto è oggetto-di. Non se ne sta da solo, come crede l’idealista, sempre per la sua tendenza a reificare gli enti di ragione.

L’oggetto, per l’idealista, non è quindi la regola di una potenza, così che questa, ossia il soggetto, debba adeguarsi all’oggetto o regolarsi sull’oggetto, ma al contrario è il soggetto che progetta, norma, produce e regola l’oggetto. Così nella conoscenza non si tratta di essere oggettivi, ma si deve essere e non si può non essere soggettivi. Il soggettivismo non è un difetto, ma un valore.

Per capire che cosa è il soggetto per gli idealisti, bisogna capire che cosa intendono con la parola «io». Si capisce che si rifanno all’io cartesiano, ma non si sono ma dati la briga di chiarire e discutere che cosa esattamente Cartesio intendeva col suo ego e di mostrare l’ambiguità del discorso di Cartesio, per cui egli, iniziando a parlare in modo autobiografico del suo io umano, fisico, individuale e personale, passa poi sofisticamente e di soppiatto a parlare e a concludere a un ego, che evidentemente, ponendosi come monoesistente originario autoposto dall’autocoscienza come inizio del sapere e fondamento della certezza, non può essere il contingente io dell’individuo umano Cartesio, che si mette sulle spalle un peso ontologico che non può sopportare e che conviene solo all’Io divino, all’Ego Sum Qui Sum di Es.3,14.

Infatti un io del genere va ben al di là della finitezza e creaturalità dell’io umano e avanza la pretesa illegittima di costituirsi come Io divino, quello che l’idealismo chiamerà Io assoluto, mediato dall’io trascendentale, che è già un ampliamento indebito, sia pur solo nell’orizzonte trascendentale, dell’io umano. Infatti l’io umano non è affatto un trascendentale, ma essendo l’io di una natura umana, appartiene all’ordine categoriale della sostanza, anche se è vero che il vero e il buono trascendentali suppongono l’atto dello spirito umano aperto alla totalità dell’essere. Ma un conto è questo atto, che è atto categoriale, e un conto l’oggetto di questo atto (dell’intelletto e della volontà), che è indubbiamente trascendentale.

Ma l’operazione idealistica di enfiagione dell’io umano – da lei detto «empirico» - alle dimensioni di un trascendentale, non le basta. L’io cartesiano possiede ulteriori virtualità, le quali, al di là del trascendentalismo kantiano, confinato, tutto sommato, nella finitezza dell’intelletto, sorgono non dal cogito, sul quale si è fermato Kant, ma dal sum, sul quale Kant ha sorvolato. Queste virtualità, scoperte da Fichte, elevano l’io trascendentale, tutto sommato posto ancora al livello della finitezza umana, alla dignità dell’Io assoluto, infinito e divino.

L’idealista distingue dunque un io empirico da un io trascendentale e da un Io assoluto non come tre ipostasi distinte, ma come tre livelli dell’io, che sale su se stesso e si autotrascende. All’idealista manca una nozione analogica e partecipativa dell’io. L’io empirico non esiste in Cartesio, perché per Cartesio l’io è puro spirito che si autointuisce; l’esistenza del corpo, in quanto esterna allo spirito, è da dimostrare insieme con l’esistenza delle cose esterne.

L’io empirico è una tesi di Kant che passa poi agli idealisti successivi. Kant infatti è consapevole del fatto, in ciò legato all’empirismo, che io posso avere esperienza sensibile di me stesso nel senso interno. Kant non ha problemi circa l’esistenza delle cose, esistenza che per lui è evidente. Resta bloccato davanti al problema dell’essenza della cosa in sé, che per lui è insolubile e la cosa in sé ci appare come fenomeno.

Hegel porta a pieno compimento il programma dell’idealismo

In questo cammino verso il panteismo e la divinizzazione dell’io Hegel compie il passo finale, perchè, a differenza di chi lo aveva preceduto, egli si pone veramente dal punto di vista più universale, che non è quello dell’io, ma quello dell’essere. Hegel fa un discorso veramente metafisico, al di là dell’autobiografismo dell’io cartesiano, dal quale né Kant, né Fichte, né Schelling avevano saputo staccarsi per assurgere al superiore e supremo punto di vista dell’essere.

Hegel porta a compimento l’opera di autodivinizzazione della ragione iniziata da Cartesio col suo concetto di io penso-io ragiono non sulla base di verità evidenti al senso e bisognose di essere   razionalmente spiegate come effetti di una causa, ma sulla base del dubito-sono. Le tappe di quest’opera le abbiamo viste prima in Kant, che pur continua a parlare di ragione umana come facoltà dello spirito, successivamente in Fichte la ragione non ha più davanti a sé la cosa in sé, ma come Io assoluto pone il suo oggetto, l’altro da sé o non Io nell’Io, che pertanto diventa ragione assoluta come principio della scienza e delle cose.

Abbiamo poi la parentesi di Schelling, il quale accetta bensì l’Io fichtiano, ma sostituisce la ragione e il concetto, per lui incapaci di intuire e sentire l’Assoluto, come Soggetto inteso come opposizione-identità-indifferenza estetico-poetica-mistica di soggetto ed oggetto, di spirito e natura, di realismo e di idealismo, di ideale e di reale.

Heidegger, qui schellinghiano e non hegeliano, sostituirà anche lui la rappresentazione concettuale razionale – fuorviante astrazione - con una precomprensione preconcettuale esperienziale dell’essere che trascende l’ente, come autocoscienza esistenziale-singolare dell’uomo o dell’io o soggetto umano inteso come Essere-lì dell’Essere come Nulla.

L’apoteosi hegeliana della ragione va di pari passo con l’apoteosi dell’idea. In Cartesio l’idea è nella ragione, ma è distinta dalla ragione. Kant parla dell’idea della ragione, costitutiva della ragione. Per Kant la ragione è ancora la ragione umana, benché in morale diventi autofondata. Fichte vede l’idea come posta dalla ragione, che per lui coincide con l’Io. Quindi la ragione non è più una facoltà dell’uomo, ma è autosussistente, è pura attività dell’Io. Per Schelling, l’Io, il Soggetto, pone in sé il soggetto-oggetto, l’ideale-reale. Ma l’intuizione intellettuale estetica intuisce l’Assoluto superando la ragione concettuale ideale-oggettiva. Heidegger sarà su questa linea: la ragione è superata dall’esperienza del Dasein.

Il procedimento hegeliano

Invece Hegel va fino in fondo nel progetto idealista cartesiano, esplicitandone le ultime conseguenze. Il razionale, come si sa, coincide per Hegel col reale. L’essere è l’essere pensato. La logica coincide con la metafisica. La cosa è il concetto della cosa. L’Idea coincide con la Ragione. Il Soggetto assoluto è la Ragione-Idea.

Se la logica è la scienza del pensato o delle idee, per Hegel, che identifica l’io con l’essere, il pensante col pensato, il pensiero con l’essere, l’ideale col reale, la ragione con la realtà, la scienza filosofica suprema diventa la logica, che assorbe in sé la metafisica, la gnoseologia e la teologia. Dice Hegel:

«La logica è da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, come essa è in sé e per sé, senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, come egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito»[2].

Per questo Hegel dice che la ragione non conosce misteri, ma tutto, compreso Dio è svelabile ai suoi occhi e nulla può frenare la sua potenza nel penetrare l’essenza stessa dell’Assoluto. 

Per Hegel il razionale è l’ideale e l’ideale è il reale. Per questo, per lui, la ragione è l’idealismo compiuto. Dice:

«L’autocoscienza è ragione. … L’autocoscienza, fatta sicura di se stessa … è certa di se stessa come realtà, ossia è certa che ogni realtà non è niente di diverso da lei; il suo pensare è esso stesso immediatamente l’effettualità, verso la quale essa si comporta come idealismo. … La ragione è la certezza della coscienza di essere ogni realtà; così l’idealismo esprime il concetto della ragione. A quel modo che la coscienza sorgente come ragione ha in sé immediatamente quella certezza, in modo non diverso anche l’idealismo immediatamente la esprime: Io sono Io, nel senso che Io, il quale mi è oggetto, è oggetto proprio con la coscienza di non-essere di qualsiasi altro oggetto, è oggetto unico, è ogni realtà e presenzialità»[3].

«La ragione fa appello all’autocoscienza di ogni e qualunque coscienza: Io sono Io; mio oggetto e mia essenza è: Io; e nessuna coscienza smentirà alla ragione questa verità. Ma poiché la ragione fonda la verità sopra questo suo appello, essa sanziona la verità dell’altra certezza, vale a dire di quella che suona; c’è per me un altro; altro dall’Io mi è oggetto ed essenza; ossia: mentre Io mi sono oggetto ed essenza, Io lo sono soltanto in quanto mi ritraggo dall’altro in generale e mi metto accanto a lui come un’effettualità. Soltanto quando la ragione, come riflessione, si solleva da questa opposta certezza, la sua affermazione di sè si presenta non solo come certezza e come asserzione, ma anche come verità; e non accanto ad altre verità, ma come l’unica verità»[4].

«La verità in sé e per sé, che è la ragione, è la semplice identità della soggettività del concetto e della sua oggettività ed universalità. L’universalità della ragione ha perciò il significato dell’oggetto, che nella coscienza come tale è dato soltanto, ma che è ora esso stesso universale e abbraccia e comprende l’Io; ed altresì quello del puro Io, nella pura forma, che sorpassa l’oggetto e lo chiude in sé. …

L’autocoscienza, ossia la certezza che le sue determinazioni sono tanto oggettive – determinazioni dell’essenza delle cose -, quanto suoi propri pensieri, è la ragione; la quale, in quanto siffatta identità è non solo la sostanza assoluta, ma la verità come sapere. Giacchè la verità ha qui per determinazione peculiare, per forma immanente, il concetto puro che esiste per sé, l’Io, la certezza di se stesso come universalità infinita. Questa verità, che sa, è lo spirito»[5].

Comunque stiano queste cose, anche Hegel paga il suo scotto all’io cartesiano, giacchè che cosa è l’essere hegeliano se non il divenire del mio io identificato con l’essere? Per questo, come posso esser certo dell’esistenza degli altri, in base a un cogito che non è il risultato di un precedente contatto sensibile con gli altri, ma pretende di esser certo solo della propria esistenza?

D’altra parte, la tesi che io sono l’essere perché penso l’essere non è forse già implicita nel cogito cartesiano e non è forse stata esplicitata da Fichte? Hegel parte dunque dall’Io di Fichte e di Schelling. Dal primo prende la negazione dell’Io, che vuol dire finitezza, quindi singolarità umana: dal secondo prende il concetto del Soggetto come lotta fra il soggettivo e l’oggettivo, fra il reale e l’ideale, la natura e lo spirito.

La ragione torna a se stessa negando se stessa

In questa lotta Hegel trova l’antitesi dialettica già abbozzata da Fichte col suo non-Io e addirittura da Kant con la sua dialettica trascendentale, con la differenza però che mentre Kant dà a questa dialettica la qualifica di pensiero illusorio e inconcludente, Hegel considera la dialettica come scienza assoluta.

 Come mai questo passaggio? Perché Kant è preoccupato di evitare la contraddizione, e non si pone il problema del divenire, mentre Hegel spiega il divenire con la contraddizione, per cui per Hegel la contraddizione diventa la legge della verità. Ne segue allora che per Hegel la negazione, ovvero l’antitesi dialettica, come già in Fichte il non-Io, è principio di scienza e di verità. Ora per Hegel l’essere coincide col divenire. Per questo la dialettica diventa la metafisica, non è più apparenza od opinione, ma è scienza e certezza.

Hegel nelle sue esposizioni si preoccupa di non contraddirsi e rileva gli errori degli altri mostrandoli in contraddizione con se stessi. Ma il problema è che Hegel intende l’identità come «identità dell’identità con la non-identità», per cui è convinto che la verità filosofica o speculativa può e deve essere espressa con due proposizioni opposte e si trovi nella congiunzione di entrambe, per quanto essa possa ripugnare alla nostra ragione.

Il ragionare hegeliano, privo dello strumento dell’analogia, che assicura la coerenza nella diversità, l’unità dell’uno col molteplice e dell’identico col diverso, è costretto a operare le distinzioni per opposizioni dialettiche, come per esempio positivo-negativo, essere-non-essere, finito-infinito, esterno-interno, soggetto-oggetto, io-non-io, astratto-concreto. Nel contempo l’aut-aut («sì, sì, no, no») è sostituito dall’et-et, sicchè il pensare cade nella doppiezza e nella disonestà.

Ne viene fuori una ragione che trova quiete nell’inquieto, sintesi nel conflitto, identità nella contraddizione, il bene nel male, il vero nel falso e così via. La ragione hegeliana non sana il conflitto, ma vive del conflitto. Si può immaginare quali possono essere le conseguenze sul piano della vita morale e sociale dell’umanità.

Per questo Hegel arriva a tesi farneticanti, come quelle per esempio di dire che l’Assoluto è essere e nulla, che vita e morte si richiamano a vicenda, che il bene e il male sono la stessa cosa e che il conflitto bellico è la molla del progresso storico. Egli sposa così il razionale con l’irrazionale, confonde il contrario col contradditorio, e arriva a concepire il razionale come sintesi di razionale ed irrazionale. Del resto la contraddizione, come abbiamo visto, è già insita nel cogito cartesiano.

L’Io dev’essere uguale a se stesso

Hegel è nella linea del sum cartesiano, ma ne esplicita fino alle estreme conclusioni le sue potenzialità egolatriche, atee e panteistiche. Egli si accorge che, tutto sommato, il sum cartesiano cela l’ipsum Esse, nasconde l’Io sono di Es 3,14 e del Cristo giovanneo (Gv 8,24, 28, 58; 13,19). Il sum cartesiano certamente fa immediato riferimento all’io personale di Cartesio. Ma nel momento in cui Cartesio considera implicitamente il proprio esistere – secondo l’esplicitazione di Fichte - come fondamento della realtà, è evidente che Cartesio, forse senza rendersene conto, considerando che in fin dei conti egli era cattolico, venne implicitamente a pareggiare il proprio sum umano al Sum di Gesù Cristo.

Fu così che Hegel, superando i suoi predecessori nell’ampiezza del suo sguardo metafisico che ricorda quello di San Tommaso, ossia raggiungendo il punto di vista non più dell’io ma dell’essere, non più io esisto ma io sono l’essere, conduce a piena esplicitazione e compimento le virtualità contenute nell’io cartesiano, identificando sic et simpliciter l’essere ovvero l’io col pensiero.

Egli accolse bensì la parola soggetto, ma in Hegel il Soggetto si riveste di attributi divini: è l’Assoluto, l’Uno, l’Io, lo Spirito, l’Autocoscienza, è l’Idea, l’Essere, il Concetto, la Ragione, il Pensiero, la Libertà, la Totalità, la Realtà, l’Infinito, la Necessità, l’Eterno.  Il soggetto umano si attribuisce ciò che appartiene a Dio, ma nel contempo il Dio di Hegel è un Dio miserabile ed odioso immerso nelle contraddizioni, debolezze, precarietà e malvagità proprie dell’uomo. Non è lo Spirito Santo, ma, come egli stesso lo chiama, è lo «Spirito del mondo», esattamente l’espressione che S.Paolo usa per designare il demonio.

Indubbiamente Hegel, che sa che cosa è la metafisica, non è tutta prima interessato al limitato contingente essere umano e tanto meno all’io di un io particolare come quello di Cartesio, ma al fine di dar fondamento all’inizio (Anfang) del sapere e dell’essere, guarda all’essere nella sua unità, totalità, universalità ed assolutezza. Ma ecco che subito sin dall’inizio, egli mette nell’essere l’egoità, il divenire e la contraddizione mostrando di ridurlo alle povere dimensioni del soggetto umano, mentre questo per converso si lusinga di godere di una scienza, di una potenza e di una libertà divine.

La rivelazione finale dell’io cartesiano

Hegel inoltre porta a compimento l’esigenza sistematica dell’idealismo. Essa nasce chiaramente con Fichte, mentre Kant manca di tale esigenza, perché si adagia in alcune categorie filosofiche senza riuscire o pensare di metterle d’accordo fra di loro, come sono lo spirito, la ragione, la cosa in sé, l’esperienza, la natura, la libertà, il dovere. Avrebbe potuto utilizzare l’io penso, ma non gli è venuto in mente. Lo farà Fichte, il quale con acume si accorge che questo è il principio del sistema idealistico, che non è altro che il principio cartesiano.

Egli pertanto è il primo idealista che tenta di costruire, sulla base dell’Io, il sistema filosofico idealista, ossia una scienza che sia universale, certa e dimostrativa partendo dall’io cartesiano esplicitato dall’io fichtiano. Ma Fichte, troppo preso dal potere attivo dell’Io, non riesce ad integrare la natura nell’io, perché essa si risolve ad essere la semplice antitesi dell’Io. 

Così anche Schelling, nonostante il tentativo attuato nel suo Sistema dell’idealismo trascendentale, non riesce ad andare oltre la fondazione della natura, la quale resta ingabbiata nell’autocoscienza, per cui non offre alcun appiglio alla fondazione dell’antropologia, dell’etica e della teologia, ma anche queste discipline si risolvono in una produzione del Soggetto.

Siccome l’io cartesiano è spirito, tutto il sistema hegeliano si potrebbe riassumere in un’autoaffermazione dialetticamente storico-progressiva del’Io come Spirito assoluto, che pone sè, si oppone a sé nell’altro da sé e torna in sé dall’altro da sé. Hegel interpreta un tal modo il dogma trinitario. E paragona il passaggio dallo Spirito fuori di sé allo Spirito tornato a Sé all’avvento del pensiero moderno inaugurato dalla riforma protestante, che propone il Dio immanente misericordioso, il Dio-per-me, al di là del cristianesimo cattolico medioevale del Dio trascendente punitore, il Dio-contro-di-me.

In questo Dio, Dio è al di là e minaccioso al di sopra dell’uomo; invece il Dio del protestantesimo, compassionevole e perdonante, si fa uno con l’uomo e s’identifica con l’uomo. La Fenomenologia dello Spirito è la narrazione dell’epopea travagliata dello Spirito (Io), che inizialmente nega se stesso, si separa da se stesso e si oppone a se stesso (non-Io) nel cattolicesimo, e torna in se stesso pacificato (ma sempre inquieto perché dialettico) nel protestantesimo[6].

Hegel costruisce, così, nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, un sistema di più ampio respiro, che suddivide le tappe dello sviluppo dell’Io come ragione. La scienza si risolve nell’autocoscienza. L’essere è identico al pensare. La metafisica è risolta nella logica. L’antropologia è divisa tra la filosofia della natura (oggetto) e la filosofia dello spirito (soggetto). La filosofia della natura comprende anche la cosmologia. La filosofia dello spirito tratta in un’unica disciplina dello spirito umano oggettivo e dello Spirito divino assoluto. Si nota il dualismo antropologico cartesiano: il corpo umano è ridotto al corpo fisico; lo spirito umano è in continuità con lo Spirito assoluto. Tuttavia, lo Spirito si risolve nella natura e la natura si autotrascende nello Spirito.

Hegel rimane altresì cartesiano nell’identificare l’inizio del sapere con l’inizio dell’essere. Hegel non respinge l’Io fichtiano che pone l’essere nel momento in cui pone il pensiero. Nella Logica, che vorrebbe essere una critica della conoscenza o una dottrina della scienza, Hegel parte dall’essere come concetto primario, astratto dell’essere, mentre nella Fenomenologia dello Spirito parte dal Soggetto che pone l’essere. 

Dunque l’essere hegeliano non è altro che l’Io di Fichte, è il Soggetto schellinghiano, universalizzato nelle vesti dell’essere. Hegel ha il merito di aver riportato la metafisica alla sua dignità di scienza dell’essere, superando la metafisica come autobiografia alla maniera di Cartesio, di Fichte e di Schelling. Quanto a Kant, egli si pone certamente il problema della scienza e non di sapere se esisto o non esisto. Tuttavia anche la ragione kantiana paga il suo scotto a Cartesio, quando pretende di far ruotare le cose attorno alla ragione, cioè all’io penso, anziché la ragione attorno alle cose.

Per questo Hegel, nonostante questa apertura di spirito che gli fa certamente onore, anch’egli rimane impigliato nell’io di Cartesio e non riesce a cogliere veramente l’essere reale come vi è riuscito San Tommaso. E questo perché? Perché Hegel è rimasto ingannato dall’idealismo cartesiano, che scambia l’idea per la realtà. La realtà è la mia idea della realtà. Da qui l’identità hegeliana del pensiero con l’essere, che per la verità vale solo per Dio e non per l’essere come tale, né per il sapere umano, che presuppone la distinzione ontologica del pensiero dall’essere.

Il sistema hegeliano culmina nell’apoteosi del soggetto umano elevato alla dignità di Soggetto assoluto inteso come Io, Essere, Spirito, Ragione, Concetto, Idea e Libertà. Ma che vale simile glorificazione, se questo Dio resta comunque nel suo limite, e non riesce a cavarsela col problema della liberazione dal peccato, dalla corruzione, dalla contraddizione, dal conflitto, dalla sofferenza e dalla morte, ma ci sguazza dentro come fossero l’attuazione della sua divinità?

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 15 giugno 2022

Il ragionare hegeliano, privo dello strumento dell’analogia, è costretto a operare le distinzioni per opposizioni dialettiche, come per esempio positivo-negativo, essere-non-essere, finito-infinito, esterno-interno, soggetto-oggetto, io-non-io, astratto-concreto. Nel contempo l’aut-aut («sì, sì, no, no») è sostituito dall’et-et, sicchè il pensare cade nella doppiezza e nella disonestà.

Hegel arriva a tesi farneticanti, come quelle per esempio di dire che l’Assoluto è essere e nulla, che vita e morte si richiamano a vicenda, che il bene e il male sono la stessa cosa e che il conflitto bellico è la molla del progresso storico.

Hegel non riesce a cogliere veramente l’essere reale come vi è riuscito San Tommaso. E questo perché? Perché Hegel è rimasto ingannato dall’idealismo cartesiano, che scambia l’idea per la realtà.


Immagini da internet:
- Le conseguenze della guerra, Rubens
- Vittoria del bene sul male, Ricciardi, sec. XVIII

[1] Ibid., p.65.

[2] Scienza della Logica, Editori Laterza, Bari 1984, p.31.

[3] Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1988, vol.I, pp.194-195.

[4] Ibid,. p.196.

[5] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Editori Laterza, Bari 1963, p.401.

[6] Cf Massimo Borghesi, L’età dello Spirito in Hegel. Dal Vangelo storico al Vangelo eterno, Edizioni Studium, Roma 1995, pp.79-83, 93-94, 296, 309.

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