Il Dio dialettico - Occorre bloccare l’operazione per la quale si vuole inserire il male in Dio e scagionare l’uomo - Prima Parte (1/4)

 

Il Dio dialettico

Occorre bloccare l’operazione per la quale si vuole

 inserire il male in Dio e scagionare l’uomo

 Prima Parte (1/4)

 Il Dio buono che non castiga

Una questione oggi molto sentita è quella della bontà divina. Ci si chiede: stante il fatto che il male è privazione del bene dovuto, mentre Dio, bontà infinita, vuole solo il bene, e considerando il fatto che il male di pena sembra essere privazione del bene dovuto, ossia che la punizione è un male di pena, come è possibile che Dio voglia punire qualcuno, ossia voglia privare qualcuno del bene dovuto? Può in nome della giustizia punitiva la privazione di un bene diventare un bene, una cosa giusta?

È questa la domanda che oggi molti si pongono e alla quale vogliamo tentare di rispondere con questo articolo sostanzialmente dedicato alla visione in merito di Von Balthasar, che mi sembra l’esito di una lunga storia del pensiero umano che potremmo far risalire da una parte all’antica sofistica greca e a Plotino e dall’altra alla speculazione kabbalistica incentrata sull’esegesi del racconto della creazione e del peccato originale, speculazione mediata dall’idealismo hegeliano, del cui influsso risente il pensiero di Von Balthasar. Vedremo questi punti nello svolgimento dell’articolo.

Diciamo però fin da adesso che questa tesi che Dio approva tutto quello che facciamo suppone il concetto non di un Dio giudice e legislatore, al quale dobbiamo rispondere delle nostre azioni, ma di un Dio notaio, che si limita a prender nota delle nostre decisioni. È chiaro che tutto ciò suppone il trasferimento da Dio all’uomo della facoltà di decidere che cosa è bene e che cosa è male. Quindi si tratta di una tesi di comodo per coloro che sono insofferenti della legge divina e vogliono concepire un Dio «misericordioso» nel senso che li lascia fare ovvero «perdona» tutto quello che vogliono.

Ma qui nascono due difficoltà gravissime dalle quali i perdonisti non riescono a venir fuori, ma s’impigliano nella bestemmia e nella violenza. Nella bestemmia, perché considerando se stessi arbitri del bene e del male, e quindi innocenti, arrivano alla conclusione che il Dio misericordioso è ad un tempo un Dio crudele che manda terremoti e carestie e un Dio malvagio che proibisce all’uomo di fare la propria volontà.

I buonisti infatti da una parte pongono in Dio e non nell’uomo la causa del peccato, per cui l’uomo risulta essere innocente e patire da innocente e il malvagio peccatore è Dio. E questo perchè? Perché per il buonista, essendo lui il legislatore ed essendo il peccato disobbedienza alla legge, non è lui a peccare, ma è Dio, che si oppone alla sua volontà. E d’altra parte, se il peccato è volere il male dell’altro, Dio, opponendosi alla volontà dell’uomo, pecca contro di lui.

D’altra parte il buonista, pur dicendosi cristiano, considera la sofferenza come un’assurdità inspiegabile, ingiustificabile, inutilizzabile, un male assoluto che va respinto assolutamente, niente affatto preso dalle mani di Dio che è buono, perché anzi Dio stesso davanti a lei è impotente e soffre, nemica dunque di Dio e dell’uomo, invincibile ed eterna. Evidentemente il buonista non tiene conto della spiegazione biblica dell’origine della sofferenza e del senso e valore salvifico che le dà Cristo.

I buonisti sono spinti inoltre alla violenza contro il prossimo perché, negando un Dio che dà a tutti la medesima legge morale, ma avendo secondo loro ognuno il diritto di imporre la propria volontà agli altri, ne nasce un bellum omnium contra omnes e il regno della sopraffazione e della violenza. Come a Nietzsche, le esortazioni evangeliche alla misericordia fanno semplicemente ridere o quanto meno non possono avere una giustificazione teologica, perchè la natura di Dio è quella di essere ad un tempo principio del bene come del male, della bontà come della malvagità. Dio non è analettico ma dialettico.

Per risolvere queste antinomie, occorre partire dal giusto concetto del bene e del male e dire che mentre il bene può essere senza il male, perché esiste un bene sostanziale e sussistente, che è appunto Dio, per cui Egli è bontà infinita esente da ogni male di colpa, Dio è tuttavia giusto, per cui infligge il male di pena. Il male invece è un fatto accidentale e contingente, che suppone un soggetto buono e che può essere tolto.

Occorre dire allora, che il male in generale esiste certamente, ma appartiene all’ordine del non-essere, che non vuol dire che il male non sia nulla, tutt’altro: i suoi effetti sono realissimi ed evidentissimi; tuttavia esso è solo concepito come fosse essere, è un ente di ragione; è semplicemente privazione del bene dovuto.

Dobbiamo peraltro distinguere due specie di male: uno è l’atto del privare qualcuno del bene dovuto, che è il male dell’agire, quindi il male di colpa, il peccato; e l’altra specie è l’atto del privare moderatamente di un bene, nella fattispecie non dovuto, il malfattore, atto che in tal caso può essere giusto e doveroso, da parte del giudice umano o divino. Allora abbiamo la sanzione penale umana civile o ecclesiastica o il castigo divino, temporaneo (in questa vita o nel purgatorio) o eterno (l’inferno).

Il male di pena è il male in un soggetto privato del bene genericamente o in linea di principio a lui dovuto. Il che è il male del patire, il dolore, la sofferenza. Qui però occorre fare un’ulteriore distinzione: il male di pena può essere dovuto o al mancato rispetto del diritto di un soggetto o la giusta o ingiusta pena inflitta ad un soggetto rispettivamente o per giustizia o per violenza.

Anche qui si deve distinguere una pena giusta da una pena ingiusta a seconda che il giudice rispetti o non rispetti la giustizia. Qui il giudice umano può sbagliare, ma non sbaglia il giudice divino.

Il peccato, secondo la Scrittura, l’esperienza e la sana ragione, ha come conseguenza il male di pena. Questa conseguenza può essere naturale – per esempio il vizio della gola reca danno alla salute -. Oppure può essere dovuta da parte del giudice e quindi può mancare per trascuratezza della giustizia umana, ma la giustizia divina prima o poi giunge infallibilmente, se il peccatore non si pente per tempo – vedi per esempio il ricco epulone -.

Un errore oggi frequente nel buonismo è la confusione fra male di pena e male di colpa, il peccato. Si tenta di far scomparire questo per sostituirlo con quello. Così non c’è più la malvagità, ma la fragilità. Non si parla più di colpa o di peccato, ma di sbaglio o di errore. Ogni delitto è scusato con motivi psicologici. Nessuno è colpevole. Lo psichiatra ha sostituito il sacerdote e il giudice. Non c’è più il non volere, ma solo il non potere, il non farcela. Da qui l’uso in ogni caso del principio: nemo ad impossibilia tenetur.

Salvo poi a inventare colpe dove non ci sono o non sono dimostrabili, come avviene per un terremoto, un disordine climatico, un’alluvione, un incidente ferroviario o il crollo di un ponte: subito si cercano i colpevoli e s’imbastiscono processi interminabili con lauti guadagni per gli avvocati.

Tutti salvi tutti dannati. L’escatologia di Von Balthasar

Questa confusione fra il peccato e la sofferenza ha origine nella Kabbala, passa per Lutero (justus et peccator) e Böhme, arriva ad Hegel e purtroppo giunge, come vedremo, fino a Von Balthasar. In questa teoria Cristo ci salva non solo soffrendo ma anche peccando, Egli cioè prende su di sé non solo il castigo del peccato, ma anche la stessa colpa del peccato.

Ignacio Andereggen, teologo argentino della Gregoriana, studioso di Von Balthasar, riferisce come per Von Balthasar, «Cristo, quando discese negli inferi, non ha avuto più speranza, perché – secondo Balthasar – Cristo è disceso veramente nell’inferno ch’è l’unico inferno che lui considera, cioè l’inferno dei condannati»[1]. «Per Balthasar nell’inferno c’è addirittura il Figlio di Dio e tutti quelli che partecipano alla condizione del Figlio di Dio»[2].

Dice infatti Von Balthasar:

 

«Il Figlio porta i peccatori in sé unitamente alla disperata impenetrabilità dei loro peccati per la luce dell’amore divina. Perciò egli esperisce in sé, non il loro peccato, ma la disperazione della loro posizione contro Dio è il no senza grazia della divina grazia contro questa opposizione. Il Figlio, che si è del tutto abbandonato affidandosi al Padre (fino all’identificazione con i fratelli nella loro perdizione), deve proprio adesso essere abbandonato dal Padre. Egli, che si è lasciato del tutto donare dal Padre, deve adesso sentire che tutto ciò era “invano”.

 

Nulla risulta alla fine ripulito o risolto o liquidato tra luce e tenebra, ogni calcolo, tra l’“invano” del peccato e del suo odio e (“invano”)  della grazia che si dà via senza ragione, è andato in frantumi. Alla fine della notte (in quanto infinitamente vissuta) erompe nella sua forza creativa originaria la luce, alla fine dell’assoluta inutilità del perdono. Ma la notte vissuta come infinita era, essa stessa, già la luce assoluta (che dove non incontra ostacoli nell’aria, dice Giovanni della Croce, diviene invisibile) e non si dona e perdona perché qualcosa è stato prestato in corrispondenza, ma perché ogni possibile prestazione era impossibile. L’assunzione della tenebra del mondo nella luce intra-trinitaria significa un miracolo di trasfigurazione, la distanza della peccaminosa notte viene superata è abbracciata dalla distanza volontaria dell’obbediente sì divino. L’ira di Dio contro la negazione dell’amore divino coglie un amore divino, quello del Figlio, che si espone a questa ira, la disarma e la rende letteralmente priva di oggetto. Ma in questa formulazione astratta e complessiva restano nascosti i problemi inevasi»[3].

 

Riferisce ancora Andereggen[4]:

 

«la verità si può esprimere come una dissonanza musicale. “La grande musica è sempre drammatica. Crea continuamente delle tensioni e le risolve ad un livello più alto – questo è Hegel nelle Lezioni sulla filosofia della religione -. La dissonanza però non è cacofonia”. Dunque questa dissonanza avrebbe la sua origine in Dio, anzi sarebbe costitutiva di Dio stesso. E qui compare l’ispirazione protestante di Balthasar. “L’ultima prova di rottura è la croce – dice nella Verità è Sinfonica – poiché Dio vi si nasconde sub-contrario [Lutero]. Ma nella croce c’è soltanto la sofferenza nella permanente identità dell’obbedienza. Non c’è più la rivolta di Giobbe; il Dio accusa se stesso di contraddizione; non c’è nessun modello di contestazione intra-ecclesiale”»[5].

 

Il principio che regge la soteriologia balthasariana è che inferno e paradiso sono indissolubilmente congiunti in Cristo stesso che, nella kenosi della croce, ha negato e svuotato se stesso, per ritornare a se stesso negando la negazione di sé nella risurrezione. È la stessa cristologia dialettica di Hegel.

È l’estremizzazione escatologica del simul justus et peccator: il cristiano è simultaneamente in grazia ed in peccato mortale, perdonato e impenitente, tutti buoni e tutti malvagi, tutti colpevoli e tutti innocenti, tutti misericordiati e tutti dannati: «morte e inferno sono nascita trasformante, rinascita. E il fuoco della dannazione sale verso il cielo come fuoco di lode»[6].  

In questo modo non è tanto la sofferenza che libera dal peccato, non è la morte che libera dalla morte, ma è lo stesso peccato che libera dal peccato. Ecco che allora il peccato, il male diventa necessario all’esistenza del bene. Il paradiso esiste appunto perché c’è l’inferno. Dio è buono appunto perché è anche cattivo.  Il positivo, per dirla con Hegel, c’è perché c’è il negativo.

Ma allora – uno potrebbe dire – che ne è del Dio misericordioso che salva tutti? Certo che salva tutti, ma in che senso? Che toglie a tutti il peccato? Neanche per sogno! Perché tutti – come già aveva intuìto Lutero - sono giusti e peccatori e giusti proprio in forza del loro essere peccatori! Dunque tutti sono in paradiso perchè tutti sono all’inferno. Questa è la vera tesi di Von Balthasar, per cui si può dire che in un senso per lui l’inferno è vuoto in quanto tutti sono in paradiso; ma in altro senso si deve dire che tutti sono all’inferno in quanto è a causa del peccato, che pur è stato mezzo di salvezza, tuttavia permanente nell’inferno, che essi sono nell’inferno.

Quindi tutti, in Cristo, innocente e peccatore, sono ad un tempo beati e dannati. Questo è il vero Von Balthasar, la versione integrale del suo pensiero, coraggiosamente svelata da Andereggen, non l’immagine addolcita e dolciastra messa in circolazione dai buonisti del bonaccione che scusa tutti mandandoli tutti un paradiso con una vita comoda, senza sacrifici, e risparmiando loro l’inferno.

Tra il buonismo di Plotino e il Dio cattivo della Kabbala

C’è da aggiungere che Von Balthasar è stato tratto in inganno dalla concezione plotiniana del male, che ricompare di Origene, in Leibniz[7] e in Spinoza, secondo i quali il male non è privazione del bene dovuto, ma il semplice non-essere, la semplice negazione.

Ne viene che la finitezza o limitatezza dell’ente finito è già per lui un male, ma è un male naturale ineliminabile, salvo che il finito non diventi infinito, come nelle visioni panteistiche. Omnis determinatio est negatio, come dice Spinoza, è finitizzazione dell’Infinito.

Dunque l’uscita o emanazione degli enti dall’Uno – così pensa Plotino – è il formarsi della molteplicità, la quale, muovendosi di moto circolare (stasi-uscita-ritorno), dopo aver raggiunto il punto opposto del cerchio, torna indietro verso l’Uno. Per il semplice fatto di uscire dall’Uno gli enti peccano in quanto uscendo dall’Uno sono finiti. Si salvano solo tornando all’Uno.

Ma ricongiungendosi all’Uno, la molteplicità scompare nell’Uno e con essa scompare il male, legato alla molteplicità, perché tutto si ricompone nell’unità iniziale. Origene incautamente, affascinato da Plotino, fa propria questa visione panteistico-emanatista, quando invece nella visione cristiana Dio crea un mondo nel quale permette l’esistenza del peccato, per cui alla fine del mondo non fa scomparire il male, ma se lo assoggetta creando l’inferno abitato da coloro che Lo hanno rifiutato.

Così, se in Plotino a Dio corrisponde l’Uno, mentre il male nasce dalla finitezza dei molteplici enti, per cui il male scompare al ritorno degli enti nell’Uno, per la Kabbala il male non è la semplice limitazione dell’ente, ma è una vera privazione di essere, come in Aristotele, con la differenza che mentre Aristotele riconduce il male alla sola cattiva volontà dell’uomo, la Kabbala che sa che l’uomo è creato da Dio, trova in Dio stesso l’origine del male, la cosiddetta «mano sinistra»[8]. Da qui l’eternità del male e le pene eterne dei malvagi oltre all’esistenza di creature spirituali malvage, i demòni, come nella Scrittura.

Male di colpa e male di pena

C’è da aggiungere che esiste una differenza tra le finalità dei castighi umani e quelli divini. Le sanzioni penali dell’autorità umana hanno uno scopo correttivo e compensativo o riequilibrativo. Quest’ultimo consiste nel principio secondo cui è giusto che colui che volontariamente è andato un tot oltre il limite consentito dalla legge, sia riportato coercitivamente dall’autorità secondo lo stesso tot entro i limiti consentiti dalla legge. Si tratta di restaurare o ricomporre l’ordine infranto[9].

I castighi divini, oltre agli scopi suddetti, sono anche purificatori (purgatorio), redentivi (vita presente) ed afflittivi (inferno). Infatti chi ha meritato questa pena, la subisce per sempre e non può servire a correggere il peccatore perché è fermo per sempre nella sua decisione di rifiutare Dio.

Fatte queste distinzioni che chiariscono i termini del problema, cominciamo adesso col domandarci: Dio vuole il male? Può volere il male? Può agire in modo sbagliato? Ingiusto? Può volere il peccato? La sofferenza?

Come può esistere una giusta pena, una pena dovuta? Se il male è privazione del bene dovuto, può esistere forse una dovuta e giusta privazione di un bene dovuto? Come fa a diventare dovuto quello che non è dovuto? È dovuto e non dovuto? Dove va a finire la distinzione fra il fare il bene e il fare il male? Fare il bene è certo un dovere. Ma può essere dovuto il fare del male a qualcuno? Togliergli o impedirgli un bene dovuto? Non è un’ingiustizia? Come fa ad esistere una giusta pena? Ci può essere un male dovuto?

Se non posso privare qualcuno del bene che gli spetta, con quale diritto, in nome della punizione, gli tolgo il bene che gli spetta? Punire non è forse fare del male a qualcuno? E se peccare è fare del male, il punire non sarà allora un peccato? Non sarà crudeltà? Allora Dio punendo può commettere un peccato? E allora dove va a finire la bontà divina? La misericordia è il sollevare dalla miseria e il togliere la sofferenza al sofferente. Ma col punire, che infligge dolore e miseria, che ne è della misericordia? E se Dio è misericordioso, come fa a punire con l’inferno? Ecco il problema di Von Balthasar, che è problema di molti di noi.

Ma diciamo subito si tratta di una impossibilità e di una contraddizione solo apparenti. Per questo Cristo non ci inganna e non si inganna quando ci dice che esistono dei dannati nell’inferno. Ciò, come vedremo, non comporta in Dio alcuna contraddizione o alcuna ingiustizia o mancanza di misericordia, ma anzi fa risplendere l’una e l’altra. Vediamo come vanno le cose.

Bisogna anzitutto intendersi su cosa vuol dire questo fare del male a qualcuno. Infatti io, se sono un giudice o autorizzato a far valere i miei diritti, posso fare al prossimo un male ingiusto come posso fare un male giusto. Il male ingiusto è una violenza, un sopruso o un peccato di ingiustizia. Il male giusto è la giusta punizione, un bene dovuto al malfattore proprio per il suo bene, affinchè si ravveda. Infatti, il giudice che punisce il malfattore non lo priva di un bene che gli spetta, ma di un bene che, a seguito del suo crimine, non gli spetta più, almeno per tutto il tempo della pena.

Come la giustizia umana a buon diritto priva temporaneamente di un certo bene il malfattore, il quale per il suo delitto si è reso indegno di possedere quel bene, così analogamente la giustizia divina priva per sempre del bene divino chi ha deciso per sempre di rifiutare Dio. In questo senso si può dire che Dio voglia il male di pena. Questa considerazione giustifica l’esistenza di dannati nell’inferno.

Questo rifiuto che il peccatore ostinato ed impenitente oppone al bene divino dà a Dio il diritto di infliggergli una pena eterna. Dio allora allontana per sempre da Sé chi per sempre non Lo ha scelto come suo sommo bene eterno. Questo è il castigo infernale.

Ora invece dobbiamo segnalare con dolore una cosa ben nota da tempo e cioè un’abile operazione condotta da teologi, i quali, col pretesto di portare avanti l’ecumenismo o di esaltare la misericordia divina e sottolineare la volontà di Dio di salvare tutti, cercano di persuadere i cattolici ad assumere la concezione luterano-böhmiana-hegeliana di Dio, purtroppo presente in un grande teologo come Von Balthasar presentata come quella veramente biblica, contro quella aristotelico-tomista, che a loro dire, sarebbe inficiata dalla metafisica dualista ed astratta greco-scolastica, superata dalla nuova teologia narrativa  ed esistenziale promossa dal Concilio Vaticano II[10].

Fine prima Parte (1/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 22 febbraio 2024


L’uscita o emanazione degli enti dall’Uno – così pensa Plotino – è il formarsi della molteplicità, la quale, muovendosi di moto circolare (stasi-uscita-ritorno), dopo aver raggiunto il punto opposto del cerchio, torna indietro verso l’Uno. Per il semplice fatto di uscire dall’Uno gli enti peccano in quanto uscendo dall’Uno sono finiti. Si salvano solo tornando all’Uno.

Ma ricongiungendosi all’Uno, la molteplicità scompare nell’Uno e con essa scompare il male, legato alla molteplicità, perché tutto si ricompone nell’unità iniziale. Origene incautamente, affascinato da Plotino, fa propria questa visione panteistico-emanatista, quando invece nella visione cristiana Dio crea un mondo nel quale permette l’esistenza del peccato, per cui alla fine del mondo non fa scomparire il male, ma se lo assoggetta creando l’inferno abitato da coloro che Lo hanno rifiutato.

Ora dobbiamo segnalare con dolore una cosa ben nota da tempo e cioè un’abile operazione condotta da teologi, i quali, col pretesto di portare avanti l’ecumenismo o di esaltare la misericordia divina e sottolineare la volontà di Dio di salvare tutti, cercano di persuadere i cattolici ad assumere la concezione luterano-böhmiana-hegeliana di Dio.

Immagine da Internet: Mysterium Magnum, libro di Jacob Böhme


[1] Inferno vuoto? Un confronto con l’infernologia di Hans Urs Von Balthasar, in Inferno e  dintorni. È possibile un’eterna dannazione?, a cura di Serafino Lanzetta, Edizioni Cantagalli, Firenze 2010.

[2]Ibid.

[3] Teodrammatica, vol.IV, Editrice Jaca Book, Milano 1982, pp.325-326.

[4] Le graffette angolate sono parole di Anderggen; quelle semplici sono parole di Von Balthasar.

[5] Inferno vuoto? Cit., ibid.

[6] Cit.dal mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010, p.57.

[7] Cf Charles Journet, Il male, Edizioni Borla,Torino 1963, 133-139.

[8] Gershom Scholem, La cabala, Edizioni Meditrranee, Roma 1992, pp.128-129.

[9] Vedi J.Maritain, Nove lezioni sulle nozioni prime della filosofia morale, Vita e Pensiero, Milano 1979, lezione IX – La nozione di sanzione,  pp.231-248 .

[10] Vedi il mio libro L’inferno esiste. La verità negata, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010, c.VII – Von Balthasar, pp.54-70.

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