Circa la rigorizzazione del concetto di creazione
Quinta Parte (5/5)
Osservazioni conclusive
Da quanto abbiamo visto nelle dichiarazioni di Postorino, appare evidente il fondo hegeliano dell’ontologia severiniana, alla quale Postorino si ispira. La differenza con Hegel sta nel fatto che mentre Hegel, senza negare Parmenide, accentua l’elemento eracliteo, più attento alla causa efficiente e all’azione concreta, Severino, senza trascurare Eraclito, accentua il fattore parmenideo, più attento alla causa formale e alla necessità logica.
Ma è evidente che entrambi si fondano su di una concezione non analogica, ma univoco-equivoca dell’essere, che mette assieme Parmenide con Eraclito. Uno potrebbe dire ma come fa, se l’uno sono l’opposto dell’altro? Bisogna scegliere! E invece no: questo è il punto.
E’ vero che Parmenide respinge gli «uomini dalla testa doppia», come egli dice. Ma Parmenide non s’accorge di cadere anche lui in contraddizione, proprio nel momento in cui crede di difendere più che mai il principio di non-contraddizione, perché, se tu vuoi ammettete il divenire, sei costretto, come parmenideo, a concepirlo come contradditorio. E allora, se vuoi ammetterlo e non puoi non ammetterlo, perché esiste, sei costretto a legalizzare il contradditorio. Esso diventa fondante. Ecco dunque Eraclito. Dunque anche Parmenide si basa sulla contraddizione, al di là del suo proclama a favore dell’identità.
Si riconosce allora benissimo nell’argomentare di Postorino l’influsso hegeliano del dualismo Dio astratto e Dio concreto, che governa tutta la teologia di Hegel, per cui il vero Dio non è, alla maniera di Marcione, il Dio «astratto» dell’Antico Testamento, il Dio celeste dell’al di là, il disumano, ma è il Dio «concreto», il Dio umano, dell’«unità della natura umana e della natura divina» in Cristo, il Dio-mondo e non il Dio che può esistere senza il mondo. Non il Dio della punizione, ma il Dio della riconciliazione e del perdono.
Ora, il ridurre che fa Postorino la creazione e il creato a un’entità formale come espressone finita della contraddizione fondamentale dell’essere, non è una rigorizzazione del concetto di creazione e di creatura, ma il suo totale fraintendimento, che riduce il reale a un meccanismo dialettico. La nozione tomistica di creazione, invece, vera interprete del dogma della creazione fondato sulla sacra Scrittura, è già da sé perfettamente rigorosa, coerente e non ha bisogno di alcuna rigorizzazione.
Essa non è affatto nichilistica e non suppone alcun dualismo, ma una sanissima e razionale concezione dell’essere e del divenire, tale da spiegare l’esistenza dell’uno e dell’altro e da conciliarli perfettamente tra di loro, concezione opportunamente ricavata dalla filosofia di Aristotele, fondatore della fisica come scienza del divenire, ossia dell’ente mobile sensibile, della metafisica come scienza dell’ente in quanto ente, della teologia come scienza dell’ente supremo, della causa prima e del fine ultimo, e della logica come scienza del ragionamento fondato sul principio di non-contraddizione parmenideo perfezionato dall’inclusione del divenire.
Spetterà poi all’Aquinate perfezionare la scienza dell’ente contingente come scienza dell’ente creato, distinguendo i corpi cosmici, oggetto della fisica, dagli spiriti finiti, oggetto dell’angelologia. Dall’oggetto della fisica aristotelica uscirà la moderna filosofia della natura e dalla metafisica, la filosofia dello spirito e la teologia.
Spetterà all’Aquinate perfezionare l’oggetto della metafisica elevandolo dalla scienza dell’ente alla scienza dell’essere, in base alla distinzione fra essenza ed essere, resa necessaria per spiegare il fatto dell’essere creato dell’ente contingente. Spetterà all’Aquinate elevare l’oggetto della teologia da quello di motore immobile causa prima del divenire allo stesso essere per sé sussistente creatore dei corpi e degli spiriti.
Spetterà all’Aquinate elevare la logica da ragionamento sull’ente a ragionamento sull’essere, ossia da ragionamento che ignora l’esistenza del non-essere al ragionamento che tien conto del non-essere perché l’ente contingente è creato dal nulla, per cui il principio aristotelico di non-contraddizione è perfezionato sulla base dell’opposizione dell’essere al nulla.
Si tratta sì della ripresa del principio di Parmenide, ma mediata dalla rigorizzazione operata da Aristotele, in modo tale che Tommaso, tornando all’intuizione parmenidea dell’essere (einai) sfuggita ad Aristotele fermo nell’ente (on), ha potuto includere la considerazione del nulla nel principio di non-contraddizione aristotelico, che è limitato dalla sola considerazione dell’ente e non tien conto del nulla.
Invece il fatto della creazione dal nulla obbliga San Tommaso a fondare una logica che non tenga conto solo dell’essere, ma anche del nulla. Infatti il nulla o non-essere parmenideo non è così radicale come il nulla rivelato dalla Bibbia e assunto dal dogma cristiano e quindi da San Tommaso.
In tal senso Cristo stesso, parlando di Se stesso Si dichiara esistente «prima che il mondo fosse» (Gv 17,5) e «prima della creazione del mondo» (Gv 17,24). Per questo motivo il Prologo giovanneo parla del Logos che era in principio; usa l’imperfetto era perché sottintende che il Logos divino esisteva già all’inizio del tempo e prima dell’inizio del tempo, ab initio temporis, come insegna il Concilio Lateranense IV, il quale interpreta l’«in principio Dio creò» di Gen 1,1 nel senso di «inizio del tempo».
Notiamo inoltre che per parlare sensatamente di nichilismo bisogna sapere che cosa è il nulla e ammetterne l’essenza, quel nulla dal quale Dio trae l’essere. Un severiniano come Postorino, oltre a sbagliare nell’accusare Tommaso di nichilismo, mostra di non saper neanche che cosa è il nulla, dal momento che considera contradditorio il concetto del nulla.
Semmai il nichilista, nel vero senso della parola, è lui, che nega l’esistenza del divenire e negando questa, nega necessariamente l’esistenza di Dio che ne è la causa. E sebbene ciò possa sembrare paradossale, è nichilismo anche negare l’esistenza del nulla, che comporta come conseguenza la negazione del fatto della creazione e quindi l’ateismo.
Falsa è anche l’accusa di dualismo fatta da Postorino al concetto tomista di creazione. L’ammettere la distinzione fra essere necessario ed essere contingente, fra essere e divenire non è affatto dualismo, ma rigorosa necessità logica per non cadere nella contraddizione di ammettere un ente che può non essere ed è simultaneamente ammetterlo come necessario, ossia che non può non essere. Semmai il dualista è Postorino, che non riesce a mettere d’accordo l’essere col divenire, tanto da negare l’essenza del divenire per salvare l’essere.
Ma Postorino, oltre ad essere un nichilista e un dualista, è anche un panteista, perché, per «togliere» la supposta contradditorietà del divenire e nel contempo nell’intento di assicurargli un rifugio ontologico, non trova niente di meglio che negarne l’esistenza fuori di Dio per metterlo nell’essenza divina, come se Dio stesso evolvesse alla maniera hegeliana.
In tal modo egli non toglie nessuna contraddizione, ma, come egli stesso riconosce, non fa che trasportare in Dio quelle contraddizioni che sono nel mondo fuori di Dio. Per lui contraddittorio è il concetto del nulla e contradditorio è il divenire. La prima contraddizione la toglie negando, come abbiamo visto, l’esistenza del nulla prima della creazione; la seconda la toglie portando il divenire in Dio, che è identità assoluta. In tal modo, secondo Postorino, la contradditorietà del mondo è tolta, ma ad un prezzo troppo alto, perché egli l’ha trasportata in Dio.
È così che egli parla, al seguito di Severino, di «contraddizione fondamentale»[1], che diventa così, in barba a Parmenide, la costituzione fondamentale dell’essere, alla maniera della dialettica hegeliana. Dunque il mondo con la sua contradditorietà non fuori di Dio ma in Dio identico a Dio.
In Dio, secondo Postorino, che è identità assoluta alla parmenidea, la contradditorietà mondana sarebbe tolta. Ma è una menzogna. Postorino riconosce che comunque la contraddizione in essa rimane, mondana o divina che sia, anzi, trasferita in Dio diventa peggiore, giacchè, se è intollerabile che il mondo sia contradditorio, ancor più intollerabile è che Dio stesso sia contradditorio.
Ciò dimostra che chi comincia con Parmenide finisce con Hegel, il quale era cosciente di questa sua derivazione parmenidea[2], solo che per lui che il divenire sia contradditorio non fa alcun problema, come non faceva problema per Eraclito, tanto che per Hegel l’essere stesso è divenire, Dio stesso diviene. L’eterno non è l’essere eterno, ma il Divenire eterno.
Chiediamoci allora a questo punto: chi difende meglio il principio di non-contraddizione? Severino e Postorino o Aristotele e San Tommaso? Ma il clou di tutta l’impresa postoriniana sta nella sua dichiarazione esplicita non di opporsi a San Tommaso, ma addirittura di superarlo e rigorizzarlo. E come? Alla scuola di Severino. A questo punto mi fermo, senza far commenti.
Postorino, nonostante il suo sforzo alla ricerca del principio d’identità dell’ente e allo scopo di evitare ogni contraddizione, si accorge a un certo punto di essere giunto ad un vicolo cieco, e tuttavia non torna sui suoi passi e non riconosce d’aver imboccato una strada sbagliata. Quella giusta, infatti, sarebbe stata quella di seguire Aristotele, migliorato da San Tommaso e confermato dalla Scrittura e dal dogma cattolico.
Al contrario, Postorino arriva ad accettare la peggiore di tutte le contraddizioni che si possano immaginare: quella di mettere Dio contro Se stesso, quindi di unire un Lui l’essere e il non-essere, il vero e il falso, il bene e il male, esattamente come fa Hegel, un Dio che è Dio solo nel mondo ed anzi come mondo.
Questa è la conseguenza del rifiuto dell’analogia dell’essere per una esasperata e puntigliosa difesa dell’univocità alla maniera parmenidea, con la conseguenza che per riconoscere l’alterità, il divenire e il molteplice non resta altro che la doppiezza dell’equivocità, con tutte le disastrose conseguenze morali che da essa discendono. E questo non è altro che Hegel. Per questo, il suo sistema non è stato chiamato soltanto panlogismo, ma anche pantragismo.
Infatti, mentre il principio dell’analogia dell’essere assicura l’unità e la diversità nel pensare, un univocismo rigido, monolitico ed esasperato alla Parmenide impedisce l’elasticità e la duttilità mentale, chiude la mente in una maniaca volontà di chiarezza e precisione, quando dovremmo sapere che le verità più sublimi e profonde, sono oscure. L’univocista parmenideo-hegeliano rimedia a contraddizioni apparenti con più gravi contraddizioni reali.
Il tormentone delle interminabili aggrovigliate discussioni fra Bontadini e Severino di qualche decennio fa, che tennero il fiato in sospeso per anni una folla di curiosi, generando fra di loro ulteriori discussioni per capire chi aveva ragione, che vantaggio hanno procurato al progresso della filosofia?
Hanno veramente fatto amare la metafisica o hanno confermato l’amara benché ingiusta osservazione di Kant che i metafisici non sono mai andati d’accordo fra di loro? In realtà, se si scopre e si capisce la metafisica di Aristotele e San Tommaso[3], ci si accorge della mirabile saldezza, apoditticità ed universalità di questa mirabile scienza, nonché di come in essa da sempre i loro discepoli nella filosofia scolastica raccomandata dalla Chiesa, vanno d’accordo fra di loro, pur in una legittima libertà di d’opinioni[4].
Ora i filosofi non hanno il compito di discutere fra di loro per inventare teorie originali e strane, o per mettere in dubbio ciò che è certo ed evidente, o per sciorinare la loro dialettica, o per dar spettacolo e far vedere quanto sono rivoluzionari, acuti, rigorosi e geniali, ma per aver misericordia per i ciechi, per «illuminare chi giace nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Lc 1,79), per difendere e riparare i semplici dai sofisti, guidarli alla sapienza e con essa e per essa farli arrivare, con la grazia di Dio, alla salvezza eterna.
Fine Quinta Parte (5/5)
P. Giovanni CavalcoliFontanellato, 18 novembre 2022
Per Parmenide
il nulla non esiste, perché è convinto che sarebbe contradditorio ammetterne
l’esistenza. Per Parmenide tutto è da sempre; non gli viene in mente la
possibilità di un ente che abbia cominciato ad esistere nel passato e quindi un
ente che sia stato creato dal nulla, perché è fermo all’idea in sé giusta che
il nulla non può diventare essere, ma non pensa che possa esistere un essere
che faccia sorgere l’essere dal nulla.
Parmenide non pensò che il provenire dal nulla o il passare di un ente dal non-essere all’essere poteva essere concepito come un cominciare ad esser dopo il non-essere-stato, un giungere all’essere di ciò che prima non esisteva, ad opera di un ente di tale potenza da farlo passare dal nulla o non-essere all’essere. Questa idea non comporta nessuna contraddizione, avendo semplicemente cura di distinguere il prima e il dopo.
Si tratta di un prima peraltro da intendersi ovviamente non in senso temporale, giacchè non esiste il tempo prima del tempo, ma un prima trascendentale, ossia riguardante l’essere divino creatore. Dio è prima di tutti i secoli ed è Lui, come dice la fede, che ha dato inizio al tempo nel momento in cui ha creato il cielo e la terra.
In tal senso Cristo stesso, parlando di Se stesso Si dichiara esistente «prima che il mondo fosse» (Gv 17,5) e «prima della creazione del mondo» (Gv 17,24). Per questo motivo il Prologo giovanneo parla del Logos che era in principio; usa l’imperfetto era perché sottintende che il Logos divino esisteva già all’inizio del tempo e prima dell’inizio del tempo, ab initio temporis, come insegna il Concilio Lateranense IV, il quale interpreta l’«in principio Dio creò» di Gen 1,1 nel senso di «inizio del tempo».
Immagini da Internet:
- Venezia, Basilica di San Marco, Cupola della Genesi
[1] Quella che Severino chiama la «terza contraddizione» dopo quella del nulla e quella del divenire.
[2] Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Edizioni Laterza, Bari 1963, p.91.
[3] Vedi la stupenda esposizione che ne Joseph Gredt, OSB, nei suoi Elementa philosophiae aristotelico-thomisticae, Edizioni Herder, Friburgo in Brisgovia 1937.
[4] È invano e addirittura dannosamente che filosofi come Scoto, Ockham, Suarez e Rosmini, Bontadini e Rahner hanno cercato o di migliorare o di correggere la metafisica tomista o come Cartesio, Kant, Hegel, Heidegger, Husserl e Severino hanno cercato di rifondare la metafisica. Il risultato è sempre stato o quello di trovare in Tommaso errori che non ci sono o quello di sovvertirei princìpi della metafisica. Il vero progresso della metafisica avviene solo ad opera dei tomisti. Occorre anche guardarsi dal falso tomismo, che mescola per esempio Tommaso con Kant, con Hegel, con Heidegger, con Husserl o con Severino. Tommaso va corretto usando i suoi stessi princìpi e va superato non introducendo elementi inquinanti, ma sviluppando i suoi princìpi, come hanno fatto per esempio Maritain e Congar.
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.