La liturgia come servizio pubblico - Prima Parte (1/2)

La liturgia come servizio pubblico

Prima Parte (1/2)

    Questo popolo mi onora con le labbra,

ma il suo cuore è lontano da Me

               Is 29,13 

Un accorato appello all’unità

La recente Lettera apostolica del Santo Padre Desiderio desideravi ci dà spunti ed occasioni per ulteriori riflessioni e chiarimenti su questo tema sublime, centrale, ricchissimo e fecondissimo di operosità e di santificazione cristiane, che è la liturgia. Lo stesso Pontefice dice di proporre solo alcune riflessioni, che non intendono esaurire il tema.

Il problema della frequentazione dei fedeli alla Messa è il problema pastorale che oggi sta più a cuore alla Chiesa insieme con quello dell’evangelizzazione, al quale è strettamente connesso, perché il proposito di evangelizzare nasce da una sentita partecipazione alla Messa. È nella Messa che noi comprendiamo il dovere di evangelizzare, riceviamo il mandato di evangelizzare, riceviamo gli stimoli soprannaturali per quest’opera di carità, ritroviamo la forza di portare avanti, nonostante difficoltà e disillusioni, la nostra opera evangelizzatrice, troviamo conforto e consolazione per i nostri insuccessi nell’evangelizzare, per gli attacchi ricevuti dai nemici della Chiesa e a volte dagli stessi fratelli di fede.

Un malinteso ecumenismo ha diffuso l’idea che non hanno importanza i dissensi che ci dividono dai fratelli protestanti, giacchè sarebbe indifferente o facoltativo accettare la transustanziazione o l’impanazione, la morte di Cristo come sacrificio espiatorio o come martirio, la Messa come sacrificio cultuale o come banchetto, il ministro dell’assemblea come sacerdote che offre un sacrificio o come semplice presidente dell’assemblea.

La riforma della liturgia attuata dietro le indicazioni della Sacrosanctum Concilium aveva diffuso nei pastori della Chiesa grande speranza di un aumento della partecipazione alla liturgia; i Padri erano convinti di aver trovato il modo di attirare meglio la gente alla mensa eucaristica. E invece purtroppo, ormai da sessant’anni assistiamo soprattutto in Europa ad un salasso continuo, ad un calo impressionante delle vocazioni sacerdotali e della partecipazione dei fedeli non solo alla Messa, ma a tutti i sacramenti.

Per converso, la Messa vetus ordo, che i Padri ritenevano ormai non più adatta al nostro tempo in questi ultimi decenni ha conosciuto e conosce un crescente  successo presso molti cattolici, nonostante le restrizioni apposte dall’autorità ecclesiale.  La vetus ordo però è anche coltivata da gruppi scismatici contrari alla riforma e che accusano il novus ordo di filoluteranesimo e il Concilio e i Papi del postconcilio di modernismo.

Come si spiega questo insuccesso della Messa novus ordo? Le cose non sono legate al nuovo rito in se stesso, che, come sottolinea il Pontefice, è molto bello e in se stesso attraente, adatto alle esigenze e alle aspirazioni degli uomini del nostro tempo. Ma s’intende che si tratti di esigenze giuste e legittime. Purtroppo la nostra società soprattutto occidentale, a partire dall’umanesimo fiorentino del sec. XV ha cominciato ad esaltare la dignità dell’uomo in maniera esagerata.

Questo processo, aggravatosi col Rinascimento, che ebbe successo persino nella corte pontificia, suscitò giustamente la protesta di Lutero. Senonchè egli stesso, nel suo esasperato antiumanesimo con l’odio per la ragione, la negazione del libero arbitrio, la dottrina della corruzione totale della natura e della concupiscenza invincibile, forse senza accorgersene, non riuscì ad emanciparsi del tutto dall’antropocentrismo rinascimentale, con una concezione di Dio non come fine dell’uomo, ma come funzionale all’uomo (il Dio-per-me  e in me).

Ne venne che Lutero non riuscì a recuperare l’umiltà dell’uomo davanti a Dio, ma concepì un Dio falsamente misericordioso, in realtà connivente col peccato, quindi non un Dio che impone all’uomo la sua volontà, ma un Dio che accetta e copre la volontà peccatrice dell’uomo. Ma l’antropocentrismo non è affatto vinto ma confermato sotto apparenze pie e religiose.

Il Concilio di Trento non andò al fondo della questione, che era il chiarire qual è il concetto del vero Dio (trascendente o immanente?), si limitò a rimproverare Lutero di essersi ribellato al Magistero della Chiesa e quindi a correggerlo dalle eresie nelle quali era caduto. C’è voluto il Concilio Vaticano I per restituire a Dio i suoi attributi, toltigli dagli idealisti e passati all’uomo.

Il problema inoltre oggi è che il nuovo rito in molti casi non è praticato con quella cura, coscienziosità, devozione, fedeltà e diligenza che sarebbero richieste dai canoni, dalle rubriche, dal cerimoniale e dalle direttive pastorali dell’autorità ecclesiale. Certi sacerdoti usano le formule prescritte dalla liturgia, ma non credono al loro significato così come è definito dal dogma. La loro celebrazione è esteriormente corretta, per cui il fedele è convinto di ricevere la grazia. E di fatti la riceve, ma solo perchè la grazia della Chiesa sopperisce alla deficienza del sacerdote («supplet Ecclesia»). Il celebrante, per esempio, che dà la Comunione a un fedele senza credere alla transustanziazione, gli dà semplicemente un pezzo di pane. Tuttavia Dio, nella sua misericordia, concede ugualmente la grazia a quel fedele che suppone che il celebrante creda a quello che ha fatto.

Tuttavia, ad un esame attento e prolungato, al fedele avveduto non può sfuggire la differenza fra la Messa del prete che finge di credere e quella di quello che ci crede sul serio. Chi non celebra per convinzione ma solo per recitare una parte non può non essere riconosciuto a lungo andare dal fedele avvertito e perspicace, a meno che non sia il fedele stesso, ad essere una persona doppia come il celebrante. Nel qual caso sarà fedelissimo alle sue Messe.

La Messa del finto celebrante si riconosce da alcuni segni. Ciò che a lui interessa non è la Messa in se stessa, ma la Messa come occasione e veicolo delle sue idee. Per questo questi sacerdoti non dicono mai la Messa da soli, ma hanno sempre bisogno del pubblico al quale trasmettere le loro idee. Per questo fanno sempre l’omelia. Il rito viene celebrato in maniera sciatta, affrettata e precipitosa. L’omelia invece è accuratissima e studiatissima, così da far presa sugli uditori.

In secondo luogo questi sacerdoti tengono alla loro Messa, in quel luogo e in quel dato orario, cosicchè i loro seguaci sanno dove e quando trovarlo. Del resto, ad essi non interessa la Messa come tale, ma solo quella Messa detta da quel sacerdote.

Altra cosa da notare nel presente degrado o smarrimento del senso del sacro o della religione, è che spesso si è persa la stima per la cerimonia religiosa o liturgica; si è diffusa una disistima per la stessa virtù di religione, che è il principio dell’attività liturgica, quando non si cade addirittura in false concezioni di Dio,  di tipo immanentista o panteista; si è perso il gusto dello sforzo ascetico e l’amore per il sacrificio, che sono le condizioni per apprezzare e amare  grandi valori umani, morali e spirituali che ci sono mediati o illustrati dalla liturgia.

Papa Francesco non ci dà una definizione della liturgia, ma la presuppone come nota. Come meglio vedremo sotto, l’essenza e i fini della liturgia sono stati definite da Pio XII nell’enciclica Mediator Dei del 1947 ed è stata ripresa dalla Sacrosanctum Concilium.

Per capire che cosa è la liturgia è importante conoscere l’etimologia della parola. Essa deriva dal greco leiturghìa, parola composta di leitos, equivalente a demosios, che significa «pubblico» ed ha riferimento al popolo e ergon, che significa lavoro od operazione. Quindi la liturgia è un servizio pubblico. Il liturgo, ossia il sacerdote, è un pubblico ufficiale. «Pubblico» non significa un atto collettivo, ma si tratta dell’atto di un singolo ufficiale o ministro, il quale svolge un ufficio pubblico, ossia a nome del popolo e per il popolo, per il bene comune in campo religioso.

La liturgia è opera della virtù di religione finalizzata alla carità e motivata dalla carità. Vedendola come fons et culmen totius vitae christianae, il Concilio sembra confonderla con la carità. Dice bene invece Pio XII nella Mediator Dei, dove parla di «culto pubblico» di Cristo e del sacerdote in persona Christi, che è appunto atto della virtù di religione. E S.Tommaso mostra come la liturgia, che qui chiama «religione» perché la parola liturgia è ignota a Tommaso, è ordinata alla carità:

 

«Spetta alla carità che l’uomo consegni se stesso a Dio, aderendo a Lui per una certa unione spirituale, Ma che l’uomo si consegni a Dio per compiere le opere del culto divino, ciò spetta immediatamente alla religione; mediatamente invece alla carità che è il principio della religione»[1].

La fons et culmen, dunque, non è la liturgia, ma la carità. La liturgia è un servizio pubblico reso al prossimo ed atto di culto divino, dove il pubblico ufficiale è il sacerdote e il popolo è il beneficiario di questo servizio, mentre esso stesso ne prende parte attiva.

La liturgia non è altro che la regolamentazione e la pratica ufficiale pubblica, disciplinare, pastorale, giuridica e cerimoniale dei sacramenti, che sono i segni sensibili sacri della grazia, istituiti da Gesù Cristo e da Lui affidati alla Chiesa, confezionati ed amministrati dal sacerdote, che contengono la grazia che essi significano, mezzi ordinari della salvezza.

L’ideatore della liturgia è il Padre celeste, come recita il celebrante nell’introduzione alla III Preghiera eucaristica:

 

«Padre veramente santo, a Te la lode da ogni creatura. Per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, nella potenza dello Spirito Santo, fai vivere e santifichi l’universo e continui a radunare attorno a Te un popolo, che da un confine all’altro della terra offra al tuo Nome il sacrificio perfetto»

La liturgia parla all’uomo e agisce sull’uomo al fine di condurlo alla salvezza come membro della Chiesa e discepolo di Cristo. La parola è il linguaggio della liturgia o liturgia della parola; l’azione sull’uomo è la prassi o pastorale liturgica o liturgia del sacramento.

Il linguaggio della liturgia è la forma semantica con la quale il sacerdote o ministro comunica la grazia sacramentale. Detto linguaggio conosce tutte le forme della semantica e i mezzi di comunicazione artistici (pittura, scultura, musica, danza, canto, poesia, architettura, abbigliamento, artigianato) e letterari (simboli, allegorie, metafore, miti, racconti, analogie, sentenze, parabole, paragoni), gestuali e verbali, tecnici e naturali, antichi e e moderni. L’azione è la confezione e l’amministrazione dei sacramenti.

Un’insufficiente definizione della liturgia è quella di Cipriano Vagaggini, che riduce la liturgia al «complesso dei segni sensibili di cose sacre, spirituali, invisibili, istituiti da Cristo o dalla Chiesa»[2]. Osserviamo che la liturgia non è un complesso di segni, ma è un’attività religiosa, riferita al culto divino pubblico, la quale, certo, si serve di segni per realizzare la sua attività, ma non si esaurisce affatto nel complesso di questi segni.

Una definizione del genere oggi non interessa a nessuno. L’ho citata solo perchè all’epoca di Pio XII godette di un certo favore nella falsa idea che potesse dedursi dalla definizione di Pio XII, che indubbiamente accennava all’aspetto giuridico-sociale-empirico della liturgia. Ma è un’interpretazione materializzata e positivista della grande definizione della Mediator Dei, che probabilmente ha contribuito a estendere nella Chiesa la consapevolezza che  l’intervento del Papa, male inteso da Vagaggini, non bastava ancora a realizzare quella riforma della liturgia, della quale già per altri motivi si sentiva il bisogno, sicchè la definizione conciliare della liturgia, riprendendo in pieno e fedelmente quella di Pio XII, cancellava l’infelice definizione del Vagaggini.  

Il tono dell’esposizione di Papa Francesco esprime una profonda convinzione; è un tono fortemente pastorale, persuasivo, immediato, semplice, come è nello stile di Papa Francesco a volte accorato e commosso. Ci potremmo chiedere qual è lo scopo di questo autorevole ed impegnativo intervento del Papa. Egli si limita ad affermare la sua intenzione di esaltare la bellezza della liturgia e il suo valore di scuola di santità e di espressione ufficiale e rituale del culto che la Chiesa rende a Dio Padre nel Figlio e nello Spirito Santo.

Elenca con cura tutti i fattori intellettuali, biblici, culturali, morali, giuridici, linguistici, psicologici, sociali, devozionali, rubricistici, cerimoniali, spontaneistici, simbolici, artistici e spirituali che concorrono alla buona e piena celebrazione della liturgia e provocano gli effetti salutari ai quali essa è ordinata.

Con quali sentimenti accostarsi al mistero liturgico

Il Pontefice si ferma molto a ricordarci il valore dello stupore che deve prenderci davanti ai misteri ineffabili, sacri e divini che ci sono mediati e presentati dalla liturgia. Mi permetto tuttavia di osservare che forse qui il Papa usa il termine «stupore» in un senso inappropriato, forse non adatto al concetto che egli intende esprimere.

Stupore viene dal latino stupor, che, per la verità, non ha un significato esaltante, perché significa sbalordimento o intontimento. Così la parola «stupido» viene da stupor e gli stupefacenti sono le droghe. Sarebbe meglio, secondo me, recuperare categorie bibliche come quelle dell’estasi[3] e del rapimento[4], che sono tradizionali nella spiritualità cristiana. Ci siamo abituati a considerare questi atti dello spirito come straordinari e propri dei grandi santi e mistici. Ma non c’è motivo per farlo. L’estasi, come spiega San Tommaso[5], non è altro che l’effetto di un amore fervente ed intenso.

Noi, propriamente, invece, siamo presi da stupore per fatti insoliti della via quotidiana, per esempio nel constatare un atto di trascuratezza compiuto da una persona molto diligente, per l’esibizione straordinaria di un atleta che sappiamo essere di basso livello, per la bellezza inaspettata di un passaggio che ci era stato descritto come banale. Insomma, le cose delle quali ci stupiamo sono cose tutto sommato, alla portata della nostra profanità e secolarità.

Non so pertanto se sia sufficiente parlare di stupore riguardo all’esperienza dei misteri divini e delle realtà sacre e trascendenti che ci sono trasmesse e rappresentate dalla liturgia. Forse sarebbe meglio parlare di commozione, meraviglia, ammirazione.

È vero che le opere di Gesù suscitano stupore[6]; ma si tratta di suoi miracoli o cose impreviste o insegnamenti che appaiono strani e inauditi. Rappresentano approcci sensibili o iniziali o emozionanti, che non rappresentano ancora l’intimo del suo mistero divino, il cui contatto e la cui scoperta provoca l’estasi[7] o il rapimento[8].

Quando l’autore sacro, come per esempio Giovanni, vuol parlare di una vera esperienza del mistero, e quindi di Cristo, parla di estasi. E se la liturgia è esperienza del mistero di Cristo, perché non dovremmo usare quella parola? È bene, quindi, togliere ad essa i connotati di cosa eccezionale e straordinaria, per riproporla come normale effetto psicologico dell’esperienza e dell’attività liturgica.

È vero che l’estasi ancor oggi è considerata un fenomeno raro e tipico dell’esperienza mistica. Ma appunto la liturgia è la via migliore all’esperienza mistica. In tal senso la liturgia è veramente fons et culmen totius vitae christianae. La liturgia, come dice e ripete il Papa, ci conduce all’incontro mistico con Cristo. Certo è un contatto mediato dai concetti di fede, ma è pur sempre un incontro interpersonale e non una semplice meditazione speculativa sul mistero di Cristo.

 Questo è chiarissimo nella mente di coloro che hanno fatto la riforma liturgica e lo si vede dalla meticolosità con la quale hanno stabilito i momenti di silenzio nel corso della celebrazione diligentemente elencati da Papa Francesco. Che cosa vogliono dire questi momenti, se non il dar spazio all’estasi e all’esperienza mistica? È vero che l’esperienza mistica è dono divino imprevedibile e non può essere decisa da noi un anticipo. Tuttavia, quando siamo presi ed assorti nella celebrazione liturgica, siamo trasportati dallo Spirito Santo, per cui possiamo esser certi che, se poniamo il nostro animo in questa docilità allo Spirito, ad ogni Messa, sacerdoti e fedeli, possiamo fare un’esperienza mistica e andare in estasi. Nell’estasi si pregusta il paradiso. E per che cosa è fatta la Messa, se non per essere una pregustazione del paradiso e del banchetto messianico?

La famosa analisi del sacro di Rudolf Ott non è priva di valore, ma tuttavia manca di equilibrio, perché risente dell’emotività irrazionale e tormentata di Lutero. Il sacro è certamente fascinosum. Questo lo sperimentiamo nella liturgia. Sperimentiamo la dolcezza, la tenerezza, la commovente bontà e la misericordia di Dio.

D’altra parte la Scrittura non si perita di presentare Dio anche come tremendo, terribile e spaventoso: «Sono distrutto sotto il peso della tua mano» (Sal 39, 11). Dio tuttavia appare così agli empi. Sembra crudele ai ribelli. Per il giusto Dio non è tremendo, ma temibile; non è crudele ma giusto. Lutero confonde il timore col terrore e Ott sbaglia seguendo Lutero.

Il timor di Dio fa evitare il peccato ed è scuola di sapienza. Il terrore di Dio getta nella disperazione ed è l’anticamera della dannazione. La liturgia suscita un timore sacro, dettato dall’amore, benefico allo spirito, che induce alla riverenza, all’obbedienza, all’ossequio, all’adorazione, alla glorificazione.

Se il novus ordo ha un difetto che non ha il vetus ordo è che questo incute il timore e il tremore davanti dell’arcano, mentre il novus ordo crea un’atmosfera di tranquillità soddisfatta che nasce dalla convinzione che Dio è un Dio per l’uomo. Ci sentiamo Dio vicino, senza problemi, ma con una certa superficialità e faciloneria.

Altro sentimento importante nell’accostarci degnamente alla liturgia è quello della devozione. Così la definisce San Tommaso:

«La devozione non pare essere altro che una certa volontà di dedicarsi a quelle cose che riguardano la familiarità con Dio»[9]. Essa è un atto speciale della volontà di fare con prontezza quelle cose che riguardano il servizio divino»[10].

Il Papa sottolinea inoltre l’importanza del simbolo nella liturgia ed esorta quindi ad apprendere il significato dei simboli presenti nell’azione liturgica. Essi hanno una parte essenziale, accanto alla conoscenza concettuale, nell’aiutarci a comprendere e a gustare il mistero divino che viene celebrato, mistero che per la sua trascendenza, non si lascia includere nella nostra limitata comprensione intellettuale, ma la supera infinitamente. 

È in questa prospettiva che dobbiamo comprendere la polemica del Papa contro l’astratto a favore del concreto. Egli sa benissimo che il pensare comporta l’astrazione, ma il suo bersaglio polemico è l’astrattismo gnostico ed idealista, che pretende di sostituire l’essere col pensiero o di risolvere l’essere nel pensiero. I simboli liturgici sono umili e semplici cose concrete alla portata di ogni intelligenza, le quali però, dovutamente comprese nel loro significato sacro e religioso, divinamente rivelato, elevano la mente e il cuore ben al di sopra della più alta attività teoretica o speculativa dell’intelletto del più dotto e geniale dei teologi.  Il simbolo nella liturgia ha la sua parte accanto al segno.

Questo è un fatto naturale, empirico o mentale che rappresenta o rimanda alla realtà da esso significata. Il concetto, per esempio, è un segno naturale mentale della cosa concettualizzata, rappresentativo della cosa. Il simbolo invece è un artefatto dell’inventiva umana o divina, di carattere convenzionale.

Nella liturgia, per esempio, l’acqua è ad un tempo segno e simbolo della grazia, dove questa duplice funzione è stata stabilita da Dio stesso. È simbolo, in quanto è assunta come qualcosa che rappresenta la purificazione spirituale a causa dell’analogia con la purificazione del corpo operata dall’acqua. Ma nel contempo l’acqua usata dal sacerdote per battezzare è segno sacramentale della grazia, che produce effettivamente quella grazia che esso significa. Il simbolo rappresenta; il segno produce. Il simbolo fa conoscere, il segno applica praticamente la conoscenza.

La liturgia coinvolge l’uomo in tutte le sue facoltà, anima e corpo, sensi ed intelletto, esperienza e coscienza, affetti e volontà, memoria e progetti, parole e silenzio, lettura e canto, persona e società, tecnica e poesia, sentimenti e passioni, movimento e requie, abbigliamento e luogo, temporalità ed eternità.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 11 luglio 2022

 

L’ideatore della liturgia è il Padre celeste, come recita il celebrante nell’introduzione alla III Preghiera eucaristica:

 

«Padre veramente santo, a Te la lode da ogni creatura. Per mezzo di Gesù Cristo, tuo Figlio e nostro Signore, nella potenza dello Spirito Santo, fai vivere e santifichi l’universo e continui a radunare attorno a Te un popolo, che da un confine all’altro della terra offra al tuo Nome il sacrificio perfetto».

Altro sentimento importante nell’accostarci degnamente alla liturgia è quello della devozione.

Così la definisce San Tommaso:

«La devozione non pare essere altro che una certa volontà di dedicarsi a quelle cose che riguardano la familiarità con Dio». Essa è un atto speciale della volontà di fare con prontezza quelle cose che riguardano il servizio divino»

Immagini da Internet


[1] Sum.Theol., II-II, q.82, a.2.

[2] Il senso teologico della liturgia, Edizioni Paoline 1957, p.33

[3] La parola estasi viene dal greco ek-stasis, che significa uno stare fuori di sé. Ora questo uscire da sé, come nota già S.Tommaso (vedi nota sotto), può avere un senso positivo e un senso negativo. Nel primo caso essa è effetto dell’amore, che ci proietta nell’amato; nel secondo è la ragione, che in certo senso, abbandona il soggetto ed esce da lui. Propriamente che cosa succede, al di là di questa metafora? Che il soggetto perde l’esercizio normale della ragione. In tal seno gli psicologi parlano di alienazione mentale.

[4] Cf Sum. Theol., II-II, q.175, a.1.

[5] Sum. Theol., I-II, q.28, a.3.

[6] Mt 8,27; 9,33; Mc 6,2;7,37; Lc 2,33.48;24,12,37, ecc.

[7] At 10,1, 11,5; 22,17.

[8] II Cor 12, 2-4.

[9] Sum.Theol., II-II, q.82, a.1.

[10] Ibid.

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