Il
purgatorio come sconto della pena per il peccato
Per il tuo sdegno non c’è in me
nulla di sano,
nulla è intatto nelle mie ossa
per i miei peccati.
Sal 37,4
Da
dove viene l’attuale incapacità
di
interpretare nella fede le pene della vita
La convinzione
che la divinità punisce le trasgressioni alla sua volontà e che queste
trasgressioni vanno rimediate con opportuni sacrifici espiatori o riparatori affinché
torni la pace fra il dio e l’uomo peccatore, è una convinzione insopprimibile
della coscienza religiosa naturale e quindi è propria di tutte le religioni tradizionali
razionalmente fondate, ed è confermata dalla Sacra Scrittura.
In tal modo il concetto di «castigo di Dio», rettamente
inteso, utilizzato in funzione penitenziale, e la conseguente possibilità che
ci è offerta di volgere a vantaggio della nostra anima le sventure della vita, è
uno degli insegnamenti fondamentali della sapienza biblica, insegnamento che
non saprebbe essere ignorato o frainteso senza far crollare tutto l’insegnamento
biblico sulla penitenza, il sacrificio cultuale fino al sacrificio
soddisfattorio di Cristo, col conseguente ottenimento della grazia divina,
della divina misericordia, della riconciliazione con Dio, del perdono, del
recupero dell’innocenza perduta col peccato, dell’espiazione, della pratica
delle buone opere, della figliolanza divina, della salvezza, della santità e
della beatitudine celeste.
Ecco allora che S.Tommaso dedica uno degli
articoli della Somma Teologica a dimostrare
la tesi secondo la quale «i flagelli con i quali in questa vita siamo puniti da
Dio possono avere una funzione soddisfattoria». È l’art.2 della questione 15 del
Supplemento della Somma Teologica dedicata ai mezzi con i
quali, nell’ambito della Confessione sacramentale, diamo soddisfazione a Dio
per i nostri peccati.
Se Lutero avesse messo in pratica questo
aspetto salutare della Confessione, invece di tormentarsi con scrupoli inutili
e pretestuosi, avrebbe trovato nella Confessione quel conforto,
quell’incoraggiamento e quella pace, che ogni anima cristiana sincera trova.
Quei predicatori dunque che si ostinano a
negare che Dio castighi e che dobbiamo compiere opere soddisfattorie, devono
rendersi conto di predicare in stridente contrasto col chiarissimo e
importantissimo insegnamento della Bibbia, rispondente, come ho detto, al concetto
naturale e razionale, oltre che di fede, della giustizia divina.
Un Dio che non punisce il peccato, per questa
coscienza onesta universale, non è un Dio buono e misericordioso, ma è un Dio
che pecca contro la giustizia. E il semplice atto del punire, se è una giusta
punizione, non è cattiveria o crudeltà, ma è atto di squisita giustizia,
convenientissimo a Dio, giustissimo Giudice. Inoltre, il negare l’esistenza dei
castighi divini impedisce che noi traiamo da essi il mezzo per espiare i nostri
peccati e per salvarci.
Indubbiamente, il castigo divino non è
esattamente la stessa cosa che il castigo del peccato. Questo è il tormento interiore
immediatamente, inevitabilmente e necessariamente conseguente all’atto del peccato,
supponendo un peccato commesso con malizia. Chè se invece il peccatore ha peccato
senza sapere che peccava, magari provoca un danno esterno a sé e agli altri, ma
resta innocente e nella pace e non può essere incolpato di nulla, anche se da
un punto di vista civile dovrà rispondere delle conseguenze.
Invece per quanto riguarda il castigo divino,
secondo il linguaggio biblico, esso è soprattutto la pena temporale o in questa
vita o in purgatorio o quella eterna infernale, che è dovuta al peccato non
espiato. Al riguardo bisogna dire che, secondo la Scrittura, mentre Dio non può
mitigare o far terminare la pena infernale, perché essa dipende dalla volontà
del peccatore di separarsi definitivamente da Dio, Dio può mitigate o togliere
o raccorciare la pena temporale sia terrena, sia quella che del purgatorio,
perché questa è regolata da Lui secondo giustizia e misericordia.
E questo perché, come osserva S.Tommaso, Dio
punisce il peccatore meno di quanto meriterebbe e premia il giusto di più di
quanto meriterebbe. Egli dunque condisce sempre la giustizia con la misericordia.
Nella pratica della giustizia aggiunge sempre una punta di misericordia, fosse
anche la pena infernale. Invece può praticare la misericordia da sola senza la
giustizia, non perché sia ingiusto, ma perchè in tal caso la giustizia è già
stata soddisfatta.
L’errore di coloro che negano i castighi
divini ha oggi una radice profonda che colpisce il senso stesso dell’opera
salvifica di Cristo, alla quale si nega il carattere soddisfattorio al Padre
per i nostri peccati. Si nega che noi dobbiamo dare soddisfazione per i nostri
peccati perché si nega che Cristo abbia soddisfatto per noi e si limita l’opera
di Cristo alla semplice testimonianza del martire[1].
Ma la verità non è questa. Come insegna il
Concilio di Trento (Denz.1529), Cristo ci ha ottenuto la misericordia e il perdono
del Padre proprio perché ha soddisfatto per noi e la misericordia del Padre per
noi consiste proprio nella possibilità che ci ha dato di soddisfare in Cristo
per i nostri peccati. Se noi neghiamo questa nostra partecipazione all’opera di
Cristo, veniamo a togliere la ragione del perdono del Padre, vanifichiamo l’opera
di Cristo e restiamo nei nostri peccati.
È il Padre che ha voluto che Cristo
soddisfacesse per noi, per cui Gesù salendo sulla croce non ha fatto altro che
obbedire alla volontà del Padre. Da qui vediamo le conseguenze terribili alle
quali porta la negazione di castighi divini: si viene a negare alle radici il senso dell’opera divina della nostra salvezza.
Il dramma
interiore di Lutero
L’idea infelice di interpretare l’esperienza
interiore della severità divina come crudeltà di un falso Dio, anziché come
occasione di espiazione e richiamo paterno alla conversione, è stata di Lutero,
il quale, da una parte non sapeva rinunciare al peccato e dall’altra non voleva
la punizione; per cui volle trovare una scappatoia per poter continuare a
peccare pur nella certezza di salvarsi. Egli
si era convinto che a sforzarsi di smettere di peccare non si possa ottenere nulla:
tanto valeva allora continuare a peccare. E per trovar pace escogitò la famosa
«fede fiduciale» e la «giustificazione forense», poi condannate dal Concilio di
Trento (Denz.1559, 1561).
Tuttavia, ad onor del vero, si deve dire che Lutero
credeva nell’opera soddisfattoria compiuta da Cristo. Quello che egli negava
era che noi possiamo partecipare con le nostre opere, per esempio la Messa, a quest’opera
salvifica. Oggi invece ci sono teologi cosiddetti «cattolici», come Schillebeeckx
e Rahner, che sono lontani dal cattolicesimo ancor più di Lutero, perché negano
che Cristo col suo sacrificio abbia dato soddisfazione al Padre per i nostri
peccati e quindi vengono a negare il valore soddisfattorio del sacrificio della
Messa in modo ancor più radicale di Lutero.
Resta comunque il triste fatto che Lutero, per
poter peccare liberamente senza rimorsi di coscienza, che cosa escogitò?
Appunto il Dio «misericordioso», che non lo punisce e gli aveva promesso di
salvarlo. Punisce però con l’inferno il Papa e i papisti! E se la coscienza
continua a rimordere, Lutero attribuisce ciò all’invidia del diavolo, per cui,
per fargli rabbia e dispetto, consiglia di fare un buon peccato[2].
Con quale logica Lutero faccia questo discorso, è difficile capirlo. Ma sappiamo
purtroppo quanto Lutero fosse sleale nel suo ragionare, pur di difendere le sue
posizioni insostenibili.
È interessante notare altresì come egli
sbagli completamente nella sua lotta contro il demonio, tanto da vedere il
diavolo nei rimproveri della coscienza e nella persona del Papa e senza accorgersi
di quanto era ingannato dal diavolo nella sua idea fissa di essere predestinato
alla salvezza.
Nelle opposizioni che incontra, negli attacchi
che riceve, nelle obiezioni degli avversari, nei rimproveri che gli rivolgono, nei
colpi della sorte, nelle malattie che lo affliggono, nelle angosce e nei rimorsi
che lo rodono, non gli viene mai in mente di vedere in tutto ciò una punizione per
i suoi peccati, una sferza al suo orgoglio, nessun invito all’umiltà, nessun appello
provvidenziale alla penitenza, al ravvedimento, alla conversione. Niente.
Non sa trarre da ciò alcuna lezione celeste, alcun
quaresimale, alcuna traccia del vero Dio misericordioso. Tutto scivola via come
acqua sulla roccia. Per lui tutto ciò non è che l’odio del demonio e dei
papisti, che vuol perderlo e contro il quale deve lottare con tutte le sue forze.
È convinto che sia sempre con lui il Dio «misericordioso», che gli ha promesso
di portarlo in paradiso.
Che senso
hanno le pene del purgatorio
Anche le pene del purgatorio non sono altro
che un prolungamento nell’al di là dei castighi divini per peccati ancora non
del tutto espiati. Solo che in questo caso le anime purganti, benché già virtualmente
salve e certe di andare in paradiso, non possono far nulla per accorciare o
mitigare, se fosse possibile, la pena che devono scontare, se non c’è qualche anima
buona sulla terra, che rechi loro soccorso, il che è una splendida opera di
misericordia fraterna, col far celebrare Messe, con l’acquisto di indulgenze o
con altre opere penitenziali, approfittando per esempio di un’epidemia.
Invece purtroppo noi oggi, anche tra
cattolici, siamo ancora influenzati dal falso e comodo misericordismo luterano, che, nonostante lo sbandierato amore
per la Bibbia, non riflette affatto il vero insegnamento biblico, ma è il segno
dell’infantilismo spirituale ed egocentrico di un io che si rivolge a Dio con
la richiesta della sua misericordia senza aver prima soddisfatto alle esigenze
della sua giustizia, un’anima che non si accorge che la pena è castigo del
peccato, un’anima che, col pretesto della gratuità della grazia, vorrebbe
gustare la dolcezza della tenerezza divina senza aver prima pagato il debito
della giustizia e morire con Cristo, un’anima che vorrebbe che le si rimettesse
il debito senza rimettere agli altri il loro.
Occorre allora ritrovare l’uso del linguaggio
biblico sulla tematica del castigo divino, ricordando innanzitutto che per la
Scrittura il peccato provoca e ad un tempo merita una pena. La provoca
nell’atto stesso del peccare. E questa
pena è il castigo del peccato, che è dato dal rimprovero o rimorso della
coscienza per la colpa commessa. Il castigo del peccato è dunque intrinseco al
peccato stesso, sicchè non può esservi peccato senza castigo. Dio può perdonare
la colpa, ma resta da scontare la pena. Può eventualmente accorciare o mitigare
la pena. Ecco la pena del purgatorio.
Il peccato nel senso grave è un atto che
causa la morte del peccatore, ecco il peccato mortale, e la conseguente pena
infernale, sicché sarebbe contradditorio ipotizzare un peccato che non sia
causa di morte, ossia castigabile. Il peccato, invece, in generale, merita una
pena successiva al peccato, in quanto è esigenza di giustizia che il peccato sia
punito con giusta pena. Qui può capitare che il peccato, a causa
dell’ingiustizia umana, resti impunito. Invece la giustizia divina è
infallibile. Essa può tardare, ma prima
o poi chiede conto al peccatore del suo operato.
È questa una pena successiva al peccato, pena
che può essere eterna o temporale, eterna per il peccato mortale, temporanea
per il peccato veniale. La pena infernale è eterna, perché l’uomo è fatto per
l’eterno, per cui, rifiutando un bene eterno come Dio, non può che essere
castigato con una pena eterna. La pena eterna del peccato mortale viene tolta col
sacramento della Confessione, che restituisce la grazia perduta, in modo tale
che l’uomo che muore in stato di grazia, è salvo.
Al peccato veniale invece è dovuta solo una
pena temporale, da scontare in questa vita mediante opere di penitenza. Se in
punto di morte le opere non fossero state sufficienti, l’anima dovrà terminare
di scontare la sua pena in purgatorio. La pena del peccato veniale è
temporanea, perché questo peccato non rompe la relazione d’amore che l’uomo ha
con Dio e non tocca la sostanza di questa relazione. Invece il peccato mortale
spezza il legame con l’Eterno e per questo merita una pena eterna.
Il che vuol dire che chi pecca venialmente resta
in grazia di Dio, al contrario di quanto avviene col peccato mortale, che fa
perdere la grazia, che garantisce la vita eterna, per cui l’uomo merita una
pena eterna dopo la morte. Non c’è dubbio comunque che anche in questa vita chi
cade nel peccato mortale, viene subito castigato con l’obnubilamento della
mente, la perdita della pace, la ribellione della carne, la pronità ai vizi, la
schiavitù al peccato, la ripugnanza per la virtù, l’odio verso i buoni, una
profonda inquietudine interiore, il rimorso della coscienza e la soggezione a
Satana.
L’anima purgante, invece, è sostanzialmente
nella pace, perché è in grazia di Dio e oltre a ciò è certa di andare in
paradiso. Ha solo bisogno di raggiungere la pienezza della pace. Nonostante la severa
pena che patisce, è più serena delle anime sante di quaggiù, le quali, seppur
in grazia, devono sì sperare nella salvezza, ma nel contempo curare la loro salvezza
«con timore e tremore» (Fil 2,12).
Quanto alla durata della pena del purgatorio[3],
essa è più o meno lunga a seconda della maggiore o minore impurità rimasta
nell’anima a seguito dei peccati veniali commessi in vita e non totalmente
espiati. Questa pena può essere accorciata, mitigata o estinta grazie
all’applicazione di SS.Messe e di indulgenze. Infatti le indulgenze sono grazie
purificatrici ottenute dalla Chiesa attingendo al tesoro dei meriti di Cristo
in forza del potere delle chiavi ed applicabili a vivi e a defunti in forza del
compimento di alcune pie pratiche stabilite dalla Chiesa.
L’efficacia soprannaturale di queste pratiche
dipende dall’intensità della devozione del fedele (ex opere operantis), a differenza dell’efficacia dei sacramenti che
dipende dalla grazia stessa del sacramento (ex
opere operato).
Dio ha permesso questa prova dell’epidemia
perché ci ricordiamo di queste medicine per i nostri peccati, farmaci che sono
fonte di consolazione e garanzie di vita eterna, alimenti di vita, che ci
preparano alla prossima Pasqua, nella speranza che la scoperta del vaccino
contro il coronavirus possa assicurarci la salvezza anche della vita temporale.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 14 marzo 2020
[1] Ho esposto le idee di alcuni cristologi che
negano l’opera soddisfattoria di Cristo nel mio libro Il Mistero della Redenzione, ESD, Bologna, 2004.
[2] Cf J.Maritain, Tre Riformatori. Lutero, Cartesio, Rousseau. Morcelliana, Brescia
1964, p.52.
[3] M.Jugie, Il
purgatorio e i mezzi per evitarlo, Edizioni Paoline 1960; A.Rudoni, Escatologia, Marietti, Torino 1972,
parte II, 4; J.Auer-J.Ratzinger, Escatologia.
Morte e vita eterna, Cittadella Editrice, Assisi 1979, c.III, §7, II; C.Pozo,
Teologia dell’al di là, Edizioni San Paolo
1986, parte III, c.IX; B.Sesboüé, Dopo
la vita. Il credente e le realtà ultime, Edizioni Paoline 1992, parte
II,c.X; J.L.Ruiz de la Peña, L’altra dimensione.
Escatologia cristiana. Edizioni Borla, Roma 1996, parte II, c.10;
F.-J.Nocke, Escatologia, Queriniana, Brescia
1997, parte II, 4.6.
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