Per una preghiera cristiana matura


Per una preghiera cristiana matura

Non la mia, ma la tua volontà sia fatta
Lc 22,42
Chiedete e otterrete
Gv 16,24

Nei momenti di calamità pubblica è più che mai di conforto la preghiera

La Sacra Scrittura è maestra eccellentissima di preghiera e, siccome la preghiera, soprattutto quella cristiana, è sorgente di grande sollievo, pace, pazienza, conforto e speranza nelle calamità, ecco l’utilità di ricordare brevemente il senso e il valore della preghiera cristiana in questo momento di prova per tutti.

È certamente confortante il fatto che si stiano moltiplicando o per intervento di privati o per opera dei pastori diverse iniziative di preghiera collettiva o pubblica per implorare da Dio Padre, per intercessione di Cristo e, subordinatamente, della Madonna e dei Santi, la cessazione della calamità, chiedendo altresì serenità e forza per la gente, e l’eterno riposo per i morti, nonché ogni genere di aiuto per tutte le forze umane impegnate in questa lotta mortale contro un nemico potente, invisibile, nascosto, proditorio ed implacabile, che colpisce senza tregua chiunque, un nemico col quale è impossibile trattare e contro il quale abbiamo molta difficoltà di difenderci.

La preghiera che ci suggerisce la Bibbia e soprattutto il Vangelo, ha però una forma più complessa di quella che spesso si vede girare tra la gente, preghiera, questa, la quale si limita a chiedere pietà e guarigione, ma trascura un elemento essenziale, presente nelle vere preghiere bibliche e cristiane,  comprese quelle liturgiche, ossia l’esordio, col quale l’orante, pentito dei propri peccati, e pronto a far penitenza,  riconosce che i mali che lo affliggono sono la conseguenza dei suoi peccati e quindi una manifestazione della giustizia divina, che chiede riscatto e riparazione.

Ma questo riscatto lo ha già offerto Cristo al Padre. Per questo, per fare una preghiera completa, che abbia speranza di essere esaudita, occorre appellarsi alla Passione del Signore, con la promessa di pagare il debito del peccato con l’offerta della presente sofferenza. Solo a questa condizione otteniamo misericordia e abbiamo probabilità che Dio allontani il flagello, tanto più se la preghiera è rivolta a Dio dall’intera Chiesa, come è apparso di recente nella preghiera che il Papa, Capo della Chiesa, ha fatto per la liberazione dal morbo, certamente a nome della Chiesa, alla Madonna in S.Maria Maggiore e al Crocifisso miracoloso della chiesa romana di S.Marcello. Occorre però che tutta la Chiesa si stringa attorno alla preghiera del Papa. Allora Dio potrà esaudire le nostre suppliche, così come esaudì le preghiere della Chiesa, secondo quanto si narra nel c.12 degli Atti degli Apostoli, affinché Pietro fosse liberato dal carcere.

Potremmo chiederci che ne sarà di coloro che non vogliono pregare o perché sono atei o perché sono panteisti. L’ateo infatti come fa a pregare un Dio che non esiste? Egli infatti mette la natura o l’umanità al posto di Dio. E il panteista, che s’identifica con Dio stesso (modestia a parte), chi dovrebbe pregare? Sé stesso? Ma allora, come affrontano costoro la questione della sofferenza, del male e della morte?

Nessun problema: si tratta della manifestazione delle leggi del Tutto, del Deus sive natura, che è il Dio di Spinoza. Siccome tutto è Dio e Dio non è altro che tutto della natura, come dice un idealista di oggi, «tutto va bene così com’è», per cui il parlare di sofferenza, di male e di morte, è, secondo costoro proprio di chi non sa mettersi dal punto di vista universale e sublime del Tutto o della Natura o dell’Umanità, punto di vista dal quale la sofferenza, il male e la morte dell’effimero individuo empirico non sono altro che il normale ricambio dell’evoluzione della Natura o dell’Umanità.

Questa lugubre fantasia è bene espressa nella poesia diffusa questi giorni nei web, «9 marzo 2020» di Mariangela Gualtieri, per la quale

«È potente la terra. Viva per davvero. Io la sento pensante d’un pensiero che noi non conosciamo. E quello che succede? Consideriamo se non sia lei che muove. Se la legge che tiene ben guidato l’universo intero, se quanto accade mi chiedo se non sia piena espressione di quella legge, che governa anche noi – proprio come ogni stella – ogni particella di cosmo. Se la materia oscura fosse questo tenersi insieme di tutto in un ardore di vita, con la spazzina morte che viene a equilibrare ogni specie».

 La terra, secondo la materialista Gualtieri, sembra essere è la Dea Natura, che dà la vita e dà la morte, come la Pachamama per gli Amazzonici o Sciva per gli Indù, una «materia oscura che è un tenersi insieme di tutto in un ardore di vita, con la spazzina morte che viene a equilibrare ogni specie». Oscura mostruosa materia pensante, vita che genera la morte, morte che genera la vita. Questa è la bella consolazione degli atei e dei panteisti.

E i modernisti che fanno in questo frangente? Pregano? Se pregano, pregano male, perché hanno un concetto sbagliato della preghiera. Infatti essi non la intendono come richiesta Dio di perdono, di salvezza o di grazia, ma solo come «ringraziamento» perché essi si sentono già in grazia, anzi già salvi ed anzi sentono Dio da sempre, sin dalla più tenera infanzia, già dolcemente presente nel loro intimo, originariamente e direttamente da Lui illuminati mediante un’esperienza atematica, ineffabile, preconcettuale e trascendentale.

Essi quindi non devono chiedere nulla perché hanno già tutto. Per sentirsi a posto, a loro basta fare come dice Lutero, credere fermamente che Dio ha loro promesso di salvarli. Essi sono convinti di essere salvati per la loro semplice fede di essere salvati. Devono quindi solo ringraziare Dio che li salverà. Potrà Dio mancare alle sue promesse?

E con l’epidemia, come la mettiamo? Un castigo per i loro peccati? Ma quale castigo, se Dio ha promesso incondizionatamente di salvarli? L’epidemia è un semplice fatto naturale, che va curato con la medicina e basta, senza tirare fuori Dio o i peccati, che non c’entrano, perché sono già stati perdonati. Chiedere a Dio che ci liberi dal male? Lo può fare chi ha una fede immatura, veterotestamentaria, ma il fedele evangelico ha solo da ringraziare la misericordia divina, che gli ha promesso di salvarlo.

Preghiera condizionata e preghiera incondizionata

Passiamo adesso a cose serie. La preghiera nelle relazioni umane è un gesto di grande importanza: è un messaggio fiducioso, umile e insistente rivolto a qualche persona buona, dalla quale ci attendiamo o speriamo un aiuto o qualche cosa di cui abbiamo bisogno e che non riusciamo a procurarci da soli, mentre sappiamo che quella persona ce lo può dare. La preghiera non è la rivendicazione di un diritto, ma è la richiesta di una grazia. E per questo, ottenuta la grazia è dovere ringraziare, ossia ricambiare il favore all’occasione opportuna.

Noi preghiamo Dio sul modello di come preghiamo un altro uomo, Gli parliamo come se dovessimo parlare ad un’altra persona. È chiaro che il pregare è convenientissimo nei nostri rapporti con Dio, giacché, se è vero che possiamo avere bisogni di cose nelle quali gli uomini possono soddisfarci benissimo, per certi bisogni solo Dio ci può aiutare.

Nella preghiera a Dio ci sono due generi di beni che Gli possiamo domandare: i beni sicuramente ordinati alla salvezza e i beni da rimettere al beneplacito divino. Circa i primi, essi sono certamente voluti da Dio, per cui se, nelle dovute disposizioni, li chiediamo, Dio certamente ce li dà. Li possiamo chiamare beni assoluti, che possiamo chiedere incondizionatamente.

I secondi, invece, possiamo chiamarli beni relativi: relativi al fatto che Dio può volerli o non volerli. Dobbiamo chiederli a condizione che piacciano a Dio, perché potrebbe anche non volerli, proprio in ordine alla nostra salvezza, le cui vie e i cui mezzi Egli conosce meglio di noi. Per cui, se non ce li dà, vuol dire che era meglio così, anche se non sappiamo il perché. Ma lo sa Lui e questo ci deve bastare.

I beni che Dio certamente vuole sono quelli che sono certamente ordinati alla nostra salvezza, e che quindi dobbiamo certamente chiedere, anche se essi a volta sono ostici alla natura o richiedono sacrificio. Questi Dio non ce li fa attendere, ma ce li dona immediatamente, in quanto tengono in vita il nostro organismo soprannaturale. Quanto invece a quelli circa i quali non sappiamo se li vuole o no, nessuno ci proibisce di chiederli. Occorre però che, in caso di mancato esaudimento, siamo disposti ad accettare serenamente le decisioni divine.

Occorre notare adesso che la sofferenza in questa vita è inevitabile. Certo dobbiamo fare il possibile per alleviarla o per estinguerla. Ma, per quanto facciamo, essa sempre si ripresenta. In ogni caso, per amore o per forza, siamo obbligati a patire. La saggezza e la preghiera cristiane ci insegnano a patire per amore e con amore. E siccome l’amore dà gioia, ecco la misteriosa gioia che il cristiano prova nel patire con Cristo per fratelli e per la propria salvezza.

E ciò dà un grande sollievo e una grande pace: sapere perché, per che cosa e per chi si soffre. Noi cristiani soffriamo per amore di Cristo e dei fratelli e nel nostro stesso interesse, perché unendoci alla croce di Cristo, sopportiamo ogni prova, siamo liberati dalle pene, dai castighi, dai peccati e dalla morte. Invece, chi soffre per forza, perché costretto e controvoglia, contro l’inclinazione stessa della nostra natura, soffre sin da adesso le pene dell’inferno. Neppure li consola l’espediente di Nietzsche, di sapore stoico, di far nostri volontariamente i colpi del destino, quello che gli chiama «amor Fati», perché questa orrenda distorsione della volontà può portare alla pazzia o se dà qualche tranquillità, è solo ostinata e tragica alterigia dell’orgoglio.

Quando dunque Cristo dice riguardo all’esaudimento della preghiera: «tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato» (Mc 11, 24), egli si riferisce ai beni necessari, che vengono conosciuti, desiderati e sperati nella fede, ossia in quanto oggetto di fede, perché si tratta di beni soprannaturali rivelati, che sono appunto oggetto della fede. Ora la fede dice certezza. E per questo, chi prega sinceramente in questo modo, non può non essere esaudito.

Fermiamoci adesso un momento su quest’ordine del Signore:

 «pregando, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che Glie le chiediate» (Mt 6, 7-8). Che intende dire?

Non intende proibire una lunga ripetizione di formule nel pregare, sennò Gesù dovrebbe essere contrario alla recita del S.Rosario, come credeva Lutero, cosa che invece è stata raccomandata dalla Madonna nelle sue più accreditate apparizioni. Ma si sa che per Lutero le apparizioni della Madonna sono superstizioni. Cristo, invece, con l’espressione «venire ascoltati a forza di parole» si riferisce all’idea superstiziosa che la parola magica possa avere una «forza» tale da obbligare Dio a fare quello che vogliamo noi.

D’altra parte Cristo stesso ci ordina di «pregare sempre» (Lc 18,1) e «in ogni momento» (Lc 21,36). Sono a tal riguardo famose ed utilissime, soprattutto per cacciare le tentazioni e nella lotta contro il demonio, le giaculatorie dei Padri del deserto, anche se ovviamente non bisogna dare tempo eccessivo alla preghiera, soprattutto quando urgono impegni della carità fraterna.

Anzi il Concilio di Efeso del 451 ha condannato come eretici i cosiddetti Euchiti o Messaliani, i quali, col pretesto del Dio «unico necessario», e il dovere del «pregate sempre», erano dei fannulloni che esageravano nel tempo dedicato alla preghiera, sottraendosi agli obblighi del lavoro, della vita sociale e della carità fraterna.

Dei beni appresi nella fede possiamo essere assolutamente sicuri che sono beni, per cui, se li chiediamo, possiamo esser certi che ci verranno dati, perché sono voluti da Dio stesso per la nostra salvezza. È solo questione della determinazione del tempo e delle varie circostanze; ma una cosa è certa: che ci verranno dati e più di quanto ci attendevamo, anche se non nelle stesse forme e modalità. Sommo tra tutti questi beni è la salvezza, che chiediamo soprattutto nella Preghiera Eucaristica della S.Messa.

Il segreto, dunque, per essere esauditi, è poter sapere che cosa Dio vuole per noi. Una volta che sappiamo questo, il più è fatto: non ci resta che chiedere a Dio ciò che Egli stesso vuole. Possiamo immaginare che non lo faccia? Ecco allora che la prima preghiera da fare è quella del Padre Nostro: sia fatta la tua volontà. Il problema semmai sarà di sapere qual è questa volontà. Ma allora è chiaro che questo è da chiedere primariamente ed insistentemente nella preghiera.

Tanto i beni assoluti o incondizionati, quanto quelli relativi o condizionati possono essere fisici o spirituali. I primi sono soprattutto morali o spirituali ed anzi soprannaturali, primo fra tutti la grazia santificante. I secondi invece sono soprattutto fisici, sensibili, temporali o materiali. I beni assoluti o necessari, quelli sicuramente salvifici e voluti da Dio, oggetto della preghiera incondizionata, sono i beni celesti, eterni od ordinati al cielo. Ma anche beni spirituali come i sacramenti hanno un aspetto materiale.

Invece i beni relativi o contingenti, non sicuramente salvifici e che rimettiamo fiduciosamente alle decisioni divine, beni che sono oggetto della preghiera condizionata, sono beni esclusivamente terreni e caduchi, anche se preziosi. Sono soprattutto fisici, ma possono essere anche spirituali, mai invece soprannaturali o celesti.

Esempi di beni assoluti, da chiedere incondizionatamente: il perdono e la misericordia divina, i sacramenti, la conoscenza della Parola di Dio, il recupero della grazia se si è perduta, la comunione ecclesiale, la fedeltà ai propri sacri impegni, l’aumento delle virtù e della grazia, se già la si possiede, la fortezza contro le tentazioni, il dominio dello spirito sulla carne, la presenza dello Spirito Santo, la vittoria sul demonio.

Esempi di beni relativi, da chiedere condizionatamente: il cibo, il vestito, l’alloggio, il lavoro, la guarigione da malattie o proprie o di persone care, la conversione di peccatori, la liberazione dalla compagnia di persone moleste, il successo nell’apostolato, la rivendicazione di propri diritti, la liberazione da calamità naturali, l’immunità dall’aggressione di malviventi, il riparo da incidenti stradali, ecc.

Presupposti per essere esauditi

Non presentarti a mani vuote davanti al Signore
Sir 35,4

Oggetto precipuo della preghiera è l’ottenimento della grazia di Dio, il poter fruire della sua misericordia, della sua benevolenza e della sua amicizia. Ma per poter essere esauditi non ci sono solo condizioni oggettive, riguardanti, cioè, ciò che si chiede, come abbiamo visto adesso; ma esistono anche condizioni soggettive, ossia bisogna che il soggetto proceda in un certo modo.

Infatti, quando ci presentiamo davanti a Dio per aver misericordia o per ottenere qualche grazia e per avere o sentire la sua amicizia, bisogna che prima regoliamo con Lui i conti secondo giustizia, se con Lui abbiamo qualche carico pendente o qualche conto aperto, insomma qualche debito da pagare.

Questo la Bibbia intende, quando ci ordina di non presentarci «a mani vuote». Le mani vuote sono quelle di coloro che, col pretesto che tutto ci viene da Dio, e con una falsa idea della loro indegnità, rifiutando di farsi meriti per la salvezza o di pagare i debiti, fanno come il servo della parabola evangelica che seppellisce il talento ricevuto (Mt 25, 14-30).

La parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) è istruttiva per l’applicazione di Sir 35,4, ossia su come bisogna presentarsi al Signore quando Lo si vuol pregare. Entrambi hanno qualcosa da offrire al Signore: il fariseo presenta al Signore le sue buone opere, ma non chiede perdono dei suoi peccati ed anzi ne commette uno guardando con disprezzo il pubblicano, del quale non sa apprezzare l’umiltà. Questi, invece, non ha opere buone da offrire, ma sente solo il bisogno di chiedere pietà per i suoi peccati.

Gesù chiarisce che cosa intende dire il passo del Siracide elogiando la preghiera del pubblicano, che si è presentato al Signore con l’offerta del suo pentimento e biasimando quella del fariseo, che si è presentato apparentemente a mani piene, ma in realtà a mani vuote non tanto per la sua consapevolezza d’aver fatto opere buone, quanto piuttosto per la superbia di non aver voluto riconoscere e pentirsi dei suoi peccati.

Stupisce, pertanto, l’antipatia che S.Teresa di Gesù Bambino provava per questo principio etico della Bibbia.  Parlando infatti di sé dichiara di «presentarsi a Dio a mani vuote»; ma non sembra preoccupata più di tanto; anzi, pare dichiararlo con una certa soddisfazione come cosa buona, forse, nel suo pensiero, segno di umiltà e riconoscimento della sua povertà, per significare probabilmente che ciò che era e che aveva le veniva da Dio.

In realtà, come sappiamo, la vita di S.Teresa fu penitente, operosissima, culminando nel voto di vittima della divina misericordia. Quindi essa in realtà trafficò abbondantemente i talenti ricevuti. In realtà si presentò al Signore a mani piene. È possibile che essa in buona fede abbia subìto l’influsso di qualche direttore spirituale giansenista, che non ha saputo interpretare il passo biblico nel senso giusto.

È vero che nel Padre nostro Gli chiediamo di rimetterci i nostri debiti, ma dobbiamo ricordare la condizione: che noi rimettiamo i debiti che gli altri hanno con noi, anche se ciò non vuol dire che, se possono pagare, non debbano pagare; per cui, se non vogliono pagare, dobbiamo esigere che paghino, come del resto farà Dio stesso con noi, se, pur potendo pagare, non vogliamo pagare e vogliamo farla franca viaggiando gratis sotto pretesto della gratuità della grazia e che tanto ha pagato Cristo. Così ragionava Lutero.

Ma questo è voler fare il furbo, è un discorso sleale da scansafatiche, che Dio non può assolutamente accettare e che quindi non ci procura affatto la sua misericordia, ma semmai aumenta il suo sdegno contro di noi, perché qui Dio Si sente preso in giro e non c’è nulla che ci faccia sdegnare di più di quando ci accorgiamo di essere beffati.

Dio conosce benissimo la nostra debolezza, ed è dispostissimo ad aver pietà di noi e a venirci incontro, e lo si vede da come ha trattato suo Figlio per amor nostro. Ma vuole, e con ciò stesso ci fa onore, che ci mettiamo del nostro – ecco il senso delle pene della vita presente – non certo per perfezionare l’opera della Redenzione, ma per partecipare alla sua stessa efficacia, unendo le nostre opere e le nostre sofferenze all’opera redentrice di Cristo. Così, grazie a Cristo, volgiamo o «ricicliamo», se mi è consentita l’espressione, a nostro vantaggio quella stessa sofferenza che di per sé è perdita e disgrazia.

Dio, Che è leale, ci chiede di essere persone leali e che la nostra sia una preghiera non da scrocconi, ma da persone leali. Si può infatti pretendere l’amicizia da una persona, se, avendo un debito nei suoi confronti prima non ci sdebitiamo con lei? Come potremmo pretendere di ricevere ciò che suppone che da parte nostra le abbiamo dato ciò che le spetta? L’amicizia suppone la giustizia. Non ci può essere amicizia se manca la giustizia. Questo vale sia nei rapporti interumani che nel nostro rapporto con Dio.

Caratteristiche e modalità della preghiera

La preghiera non va fatta in modo piagnucoloso o petulante, da accattoni, in modo pretenzioso o furbesco, ma con dignità, cuore contrito e umiltà ad un tempo, con fiducia, abbandono e sapendo che ciò che si chiede è gradito a Dio ed anzi da Lui voluto, mentre, se si tratta di cose incerte o contingenti, va fatta sì con fervore, ma con distacco, senza incaponirsi e pronti ad accettare con rassegnazione quello che Dio vorrà.

La preghiera, come ho detto, non è una formula magica, che costringa Dio ad esaudirci. Nella preghiera non dobbiamo chiedere che si faccia la nostra volontà, ma quella di Dio, quale che sia, anche il sopportare le conseguenze dei nostri peccati. Essa non è uno sfogo emotivo o sentimentale, non è uno slancio romantico, ma è atto sì di fede, ma nel contempo supremamente ragionevole e prudentemente calcolato; infatti ha una precisa logica: bisogna saper prendere Dio, oserei dire, «per il verso giusto», altrimenti, invece di esaudirci, si sdegna di più. Egli ci obbedisce, se noi per primi Gli obbediamo.

Bisogna distinguere quando si deve pregare e quando si deve far uso delle proprie forze, in quanto sono sufficienti. Se infatti chiediamo a Dio di darci quello che possiamo ottenere con le nostre forze, mostriamo disprezzo per queste forze e svalutiamo la forza divina, e quindi pecchiamo doppiamente contro Dio sia svalutando la sua potenza in sé stessa e sia in relazione alle forze che ci ha dato.

Dobbiamo chiedere aiuto, invece, quando, dovendo compiere quel dato dovere o acquistare quella data virtù od obbedire a quel dato comando divino o fuggire quella data tentazione, ci accorgiamo che le nostre forze sono insufficienti. Occorre allora applicare il detto di S.Agostino: «fa’ quello che puoi e chiedi quello che non puoi»; tentare Dio, invece, e quindi peccato di presunzione sarebbe metterci in un un’impresa o sottoporci a una tentazione superiore alle nostre forze e chiedere a Dio che ci faccia riuscire.

Nella preghiera chiediamo a qualche amico o persona di fiducia in grazia di qualcun altro superiore di interporsi o di intercedere presto questi per ottenere un aiuto o un favore da quel superiore. Gesù Cristo con i meriti della sua Passione ha soddisfatto per noi presso il Padre, ci ha ottenuto la remissione dei peccati, la figliolanza divina e la possibilità di espiare a nostra volta con i nostri meriti i nostri peccati. Egli ha pregato il Padre come uomo per poter compiere l’opera della Redenzione e come Figlio di Dio intercede presso il Padre a nostro favore, affinché noi a nostra volta possiamo offrire noi stessi al Padre in Cristo come vittime di soave odore (Cf Ef 5,2).

Prima di salire sulla croce Gesù ha pregato il Padre che inviasse lo Spirito Santo (Gv 14,15) ed ha pregato per i suoi (Gv 17, 9); dopo la resurrezione non prega più per loro il Padre, ma li assicura che sarà sufficiente chiedere nel suo nome (Gv 16,26). Egli poi ha voluto associare l’uomo alla sua opera redentrice, in modo tale che se il Redentore era Lui, l’uomo, con le sue opere e le sue sofferenze, avesse la possibilità di cooperare all’opera redentrice.

Così come il cristiano si rivolge a Cristo nella preghiera per ottenere la salvezza, in grado subordinato può rivolgersi anche a fratelli e sorelle, che, in modo eminente ed esemplare hanno collaborato all’opera redentrice, cioè sono stati partecipi della Passione del Signore, e quindi sono in qualche modo mediatori di Cristo Mediatore del Padre. Somma Mediatrice di Cristo è tra tutte le creature umane la Beata Vergine Maria e, al di sotto di Maria, tutti gli altri Santi del cielo e della terra.

La preghiera di Giobbe

L’insegnamento che traiamo dalla preghiera di Giobbe è basato sulla consapevolezza che egli ha che in quello che ci capita nella vita, sia il piacevole, sia lo spiacevole, occorre ricondurre tutto a Dio. Da qui le sue famosissime espressioni: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1, 21) e: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).

 Certamente la ragione naturale dimostra che Dio è bontà infinita, per cui non è difficile ricondurre a Lui tutto il bene che ci capita, benché gli stolti e gli atei non capiscano neanche questo. Più difficile è capire come e perché o a qual fine Dio possa permettere o forse volere le sventure. Non c’è ancora in Giobbe la consapevolezza del valore soddisfattorio e redentivo della sofferenza, che apparirà col Vangelo.

La Scrittura veterotestamentaria, che si limita all’elementare principio di giustizia che il peccato merita il castigo, dice che i mali che capitano sono castighi divini. Sì, possono essere causati dagli uomini o dalla natura. Ma dietro a tutto ciò c’è sempre la permissione divina. Gli amici di Giobbe si fermano a dire questo. Ma Giobbe non si accontenta di questa risposta, perché, sentendosi innocente, non ritiene di meritare il male che gli capita. Giobbe sa che Dio non ci fa del male per il gusto di farci del male, come il demonio, ma è come un buon medico che dà una cura dolorosa al malato per farlo guarire.

Tuttavia il bello di Giobbe è che non per questo dubita che Dio lo ami e che un giorno lo libererà e potrà godere per sempre di Lui. Certo, qui non si parla delle conseguenze del peccato originale, che, come spiegherà S.Paolo, sono la causa originaria e remota di tutte le pene della vita, sia di quelle dei malvagi che di quelle degli innocenti, perche nessuno è così innocente da non meritare nessun castigo.

Giobbe sa comunque che Dio è buono, per cui, se permette la sventura, dev’esserci una ragione, deve avere un motivo di giustizia e di bontà, che a noi può essere sconosciuto; ma il sapere che tale motivo c’è deve bastare a farci rimanere sereni e ad avere fiducia in Lui, che in un modo o nell’altro, quando e come vorrà, ci libererà e ci premierà per la nostra pazienza e ci restituirà in abbondanza tutto ciò che ci aveva tolto. In Giobbe non c’è ancora l’idea di un liberatore dal peccato, cosa che comparirà solo con Cristo; ma tuttavia c’è l’idea che Dio stesso pensa a rivendicare i giusti dei torti subìti, a liberarli dalle sofferenze e dalla stessa morte.

Giobbe è innocente e non accetta la sentenza dei suoi amici che le disgrazie che gli capitano siano punizione per i suoi peccati. Cristo non è ancora venuto, per cui Giobbe non pensa ad offrirsi, come Cristo per scontare i peccati degli altri. Tuttavia la saggezza di Giobbe è fondamentale ed è il presupposto per capire il senso della Redenzione di Cristo.

La preghiera della regina Ester

Un metodo esemplare della preghiera ben fatta, che tocca il cuore di Dio ed ottiene, lo troviamo nelle parole della regina Ester (Est 4, 17k-17z). Essa infatti ci dà l’esempio di come ci si deve regolare o quale via seguire per ottenere da Dio grazia in abbondanza. Essa c’insegna che la buona preghiera va fatta in due tempi ben precisi, l’uno successivo all’altro ed ordinato all’altro.

Così infatti Ester si esprime:

«Abbiamo peccato contro di Te e ci hai messo nelle mani dei nostri nemici, per aver noi dato gloria ai loro dèi. Tu sei giusto, Signore! Ma ora non si sono accontentati dell’amarezza della nostra schiavitù, ma hanno giurato di sterminare la tua eredità».

Questo è il primo tempo. È l’atto della presa di coscienza delle proprie colpe con la richiesta di perdono. Segue il secondo tempo, con la richiesta di aiuto:

«Non consegnare, Signore, il tuo scettro a dèi che neppure esistono. Non abbiano a ridere della nostra caduta, ma colpisci con un castigo esemplare il primo dei nostri persecutori. Salvaci con la tua mano e vieni in mio aiuto, perché sono sola e non ho altri che Te, o Signore!» (17n-17t).

La regina Ester c’insegna che per ottenere misericordia presso Dio, la prima cosa da fare, il punto di partenza della preghiera è il cominciare col riconoscere le proprie colpe, che il Signore è giusto nel castigarle e che ci siamo meritati i suoi castighi, come è detto nell’Atto di Dolore: «Mio Dio mi pento e mi dogo dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più perché ho offeso Te infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni cosa».

A questo punto, riconosciuto il nostro debito col Signore, dichiaratici pronti a pagarlo e calcolando la sventura che ci affligge come pagamento del debito, il Signore è ben disposto verso di noi, a perdonarci e ad accordarci quella misericordia che Gli chiediamo per essere liberati dai nostri mali. Per donarci la sua misericordia Dio esige che siamo pentiti dei nostri peccati e pronti a riparare. Però c’è da tener presente che lo stesso pentimento e l’atto di soddisfazione o riparazione sono mossi dalla grazia e quindi effetti della misericordia.

Dio quindi non perdona incondizionatamente, ma soltanto a condizione che siamo pronti a convertirci. Ci dona invece la prima grazia incondizionatamente, dalla quale parte il processo della giustificazione. E in ciò Lutero è nel vero. Perdonare incondizionatamente, infatti, e questo vale sia per l’uomo che per Dio, ossia senza esigere la condizione previa che l’offensore si penta, non sarebbe un vero perdonare, che tolga il peccato, ma al contrario sarebbe complicità o connivenza dell’offeso col peccato di chi lo ha offeso.

La preghiera di Geremia

Al c.14 di Geremia troviamo una preghiera del profeta che costituisce un esempio del modo adeguato di pregare in tempi di pubbliche calamità.  Il profeta piange la triste sorte di Gerusalemme devastata da un esercito straniero. Come esordisce nella sua preghiera per la liberazione della città?

«Riconosciamo, Signore, la nostra iniquità, l’iniquità dei nostri padri; abbiamo peccato contro di Te» (14,20).

Solo a questo punto Geremia sente di poter invocare il Signore con sicurezza e fiducia:

«Ma per il tuo nome non abbandonarci, non render spregevole il trono della tua gloria. Ricordati! Non rompere la tua alleanza con noi. Non sei piuttosto Tu, Signore nostro Dio? In Te abbiamo fiducia perché Tu hai fatto tutte queste cose» (vv.21-22).

La preghiera di S.Caterina da Siena

Tra le Orazioni della Santa Senese scelgo questa, nella quale appare con particolare chiarezza come essa, al fine di rendere accettabile al Padre la sua supplica, esordiva facendoGli presenti i meriti della Passione di Suo Figlio, ai quali associava il riconoscimento dei suoi peccati, la cui pena essa espiava stando unita alla Passione di Cristo. Solo a questo punto essa si riteneva abilitata a chiedere al Padre grazie, misericordia, pace, giustizia, benessere e salvezza per lei, per i suoi cari, per i peccatori, per la sua città, per l’Italia, per il Papa e per la Chiesa. Dice Caterina:

«O dolce ed eterno Iddio, infinita sublimità! Poiché non potevamo elevare l’affetto, il quale era infimo, né il lume dell’intelletto alla tua altezza per le tenebre della colpa, però Tu, sommo medico, ci hai donato il Verbo con l’esca dell’umanità, e hai attirato l’uomo e catturato il demonio non in virtù dell’umanità ma della divinità. E così facendo Te piccolo hai fatto grande l’uomo, satollato di obbrobrii, l’hai riempito di beatitudine, avendo Tu patito fame l’hai satollato nell’affetto della tua carità, spogliatoti della vita, lo hai rivestito della grazia, riempito Tu di vergogna hai reso a lui l’onore, essendo oscurato. Tu quanto all’umanità hai reso a lui il lume, essendo disteso Tu sulla croce, lo hai abbracciato e gli hai fatto una caverna nel tuo costato, nella quale avesse rifugio dalla faccia dei nemici, nella quale caverna può conoscere la tua carità, perché per essa mostri che gli hai voluto dare più che potesse con finita operazione. Ivi ha trovato il bagno nel quale ha lavato la faccia dell’anima sua dalla lepra della colpa»[1].

Conclusione

La preghiera cristiana conferma il pregare proprio della religione naturale, compresa quella veterotestamentaria, ma nel contempo lo rende più efficace, lo supera per una migliore conoscenza di quello che dobbiamo chiedere a Dio, per l’ampiezza e sublimità di prospettive, per una più profonda conoscenza del peccato e della sofferenza, dai quali chiediamo a Dio di liberarci, per una migliore conoscenza delle forze maligne dalle quali Dio ci difende, per il  possesso di un Mediatore divino Gesù Cristo, il Quale nello Spirito Santo, intercede per noi presso il Padre.


P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 19 marzo 2020


[1] Le Orazioni, a cura di G.Cavallini, Edizioni Cateriniane, Roma 1978, p.148.

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