Per una
preghiera cristiana matura
Non la mia, ma la tua volontà sia
fatta
Lc 22,42
Chiedete e otterrete
Gv 16,24
Nei
momenti di calamità pubblica è più che mai di conforto la preghiera
La Sacra
Scrittura è maestra eccellentissima di preghiera e, siccome la preghiera,
soprattutto quella cristiana, è sorgente di grande sollievo, pace, pazienza,
conforto e speranza nelle calamità, ecco l’utilità di ricordare brevemente il
senso e il valore della preghiera cristiana in questo momento di prova per tutti.
È certamente
confortante il fatto che si stiano moltiplicando o per intervento di privati o
per opera dei pastori diverse iniziative di preghiera collettiva o pubblica per
implorare da Dio Padre, per intercessione di Cristo e, subordinatamente, della
Madonna e dei Santi, la cessazione della calamità, chiedendo altresì serenità e
forza per la gente, e l’eterno riposo per i morti, nonché ogni genere di aiuto per
tutte le forze umane impegnate in questa lotta mortale contro un nemico
potente, invisibile, nascosto, proditorio ed implacabile, che colpisce senza
tregua chiunque, un nemico col quale è impossibile trattare e contro il quale
abbiamo molta difficoltà di difenderci.
La preghiera
che ci suggerisce la Bibbia e soprattutto il Vangelo, ha però una forma più complessa
di quella che spesso si vede girare tra la gente, preghiera, questa, la quale
si limita a chiedere pietà e guarigione, ma trascura un elemento essenziale, presente
nelle vere preghiere bibliche e cristiane,
comprese quelle liturgiche, ossia l’esordio, col quale l’orante, pentito
dei propri peccati, e pronto a far penitenza,
riconosce che i mali che lo affliggono sono la conseguenza dei suoi peccati
e quindi una manifestazione della giustizia divina, che chiede riscatto e riparazione.
Ma questo
riscatto lo ha già offerto Cristo al Padre. Per questo, per fare una preghiera
completa, che abbia speranza di essere esaudita, occorre appellarsi alla
Passione del Signore, con la promessa di pagare il debito del peccato con
l’offerta della presente sofferenza. Solo a questa condizione otteniamo misericordia
e abbiamo probabilità che Dio allontani il flagello, tanto più se la preghiera
è rivolta a Dio dall’intera Chiesa, come è apparso di recente nella preghiera
che il Papa, Capo della Chiesa, ha fatto per la liberazione dal morbo, certamente
a nome della Chiesa, alla Madonna in S.Maria Maggiore e al Crocifisso miracoloso
della chiesa romana di S.Marcello. Occorre però che tutta la Chiesa si stringa attorno
alla preghiera del Papa. Allora Dio potrà esaudire le nostre suppliche, così come
esaudì le preghiere della Chiesa, secondo quanto si narra nel c.12 degli Atti degli Apostoli, affinché Pietro fosse
liberato dal carcere.
Potremmo
chiederci che ne sarà di coloro che non vogliono pregare o perché sono atei o perché
sono panteisti. L’ateo infatti come fa a pregare un Dio che non esiste? Egli
infatti mette la natura o l’umanità al posto di Dio. E il panteista, che
s’identifica con Dio stesso (modestia a parte), chi dovrebbe pregare? Sé
stesso? Ma allora, come affrontano costoro la questione della sofferenza, del
male e della morte?
Nessun
problema: si tratta della manifestazione delle leggi del Tutto, del Deus sive natura, che è il Dio di
Spinoza. Siccome tutto è Dio e Dio non è altro che tutto della natura, come
dice un idealista di oggi, «tutto va bene così com’è», per cui il parlare di
sofferenza, di male e di morte, è, secondo costoro proprio di chi non sa
mettersi dal punto di vista universale e sublime del Tutto o della Natura o
dell’Umanità, punto di vista dal quale la sofferenza, il male e la morte
dell’effimero individuo empirico non sono altro che il normale ricambio dell’evoluzione
della Natura o dell’Umanità.
Questa
lugubre fantasia è bene espressa nella poesia diffusa questi giorni nei web, «9
marzo 2020» di Mariangela Gualtieri, per la quale
«È potente la terra. Viva per davvero. Io la sento pensante d’un
pensiero che noi non conosciamo. E quello che succede? Consideriamo se non sia
lei che muove. Se la legge che tiene ben guidato l’universo intero, se quanto
accade mi chiedo se non sia piena espressione di quella legge, che governa
anche noi – proprio come ogni stella – ogni particella di cosmo. Se la materia
oscura fosse questo tenersi insieme di tutto in un ardore di vita, con la
spazzina morte che viene a equilibrare ogni specie».
La terra, secondo la
materialista Gualtieri, sembra essere è la Dea Natura, che dà la vita e dà la
morte, come la Pachamama per gli Amazzonici o Sciva per gli Indù, una «materia
oscura che è un tenersi insieme di tutto in un ardore di vita, con la spazzina
morte che viene a equilibrare ogni specie». Oscura mostruosa materia pensante,
vita che genera la morte, morte che genera la vita. Questa è la bella
consolazione degli atei e dei panteisti.
E i modernisti che fanno in questo frangente? Pregano? Se pregano,
pregano male, perché hanno un concetto sbagliato della preghiera. Infatti essi
non la intendono come richiesta Dio di perdono, di salvezza o di grazia, ma
solo come «ringraziamento» perché essi si sentono già in grazia, anzi già salvi
ed anzi sentono Dio da sempre, sin dalla più tenera infanzia, già dolcemente presente
nel loro intimo, originariamente e direttamente da Lui illuminati mediante
un’esperienza atematica, ineffabile, preconcettuale e trascendentale.
Essi quindi non devono chiedere nulla perché hanno già tutto. Per
sentirsi a posto, a loro basta fare come dice Lutero, credere fermamente che
Dio ha loro promesso di salvarli. Essi sono convinti di essere salvati per la
loro semplice fede di essere salvati. Devono quindi solo ringraziare Dio che li
salverà. Potrà Dio mancare alle sue promesse?
E con l’epidemia, come la mettiamo? Un castigo per i loro peccati? Ma
quale castigo, se Dio ha promesso incondizionatamente di salvarli? L’epidemia è
un semplice fatto naturale, che va curato con la medicina e basta, senza tirare
fuori Dio o i peccati, che non c’entrano, perché sono già stati perdonati.
Chiedere a Dio che ci liberi dal male? Lo può fare chi ha una fede immatura, veterotestamentaria,
ma il fedele evangelico ha solo da ringraziare la misericordia divina, che gli
ha promesso di salvarlo.
Preghiera
condizionata e preghiera incondizionata
Passiamo
adesso a cose serie. La preghiera nelle relazioni umane è un gesto di grande
importanza: è un messaggio fiducioso, umile e insistente rivolto a qualche
persona buona, dalla quale ci attendiamo o speriamo un aiuto o qualche cosa di
cui abbiamo bisogno e che non riusciamo a procurarci da soli, mentre sappiamo
che quella persona ce lo può dare. La preghiera non è la rivendicazione di un
diritto, ma è la richiesta di una grazia. E per questo, ottenuta la grazia è
dovere ringraziare, ossia ricambiare il favore all’occasione opportuna.
Noi
preghiamo Dio sul modello di come preghiamo un altro uomo, Gli parliamo come se
dovessimo parlare ad un’altra persona. È chiaro che il pregare è
convenientissimo nei nostri rapporti con Dio, giacché, se è vero che possiamo
avere bisogni di cose nelle quali gli uomini possono soddisfarci benissimo, per
certi bisogni solo Dio ci può aiutare.
Nella
preghiera a Dio ci sono due generi di beni che Gli possiamo domandare: i beni sicuramente
ordinati alla salvezza e i beni da rimettere al beneplacito divino. Circa i
primi, essi sono certamente voluti da Dio, per cui se, nelle dovute disposizioni,
li chiediamo, Dio certamente ce li dà. Li possiamo chiamare beni assoluti, che
possiamo chiedere incondizionatamente.
I secondi,
invece, possiamo chiamarli beni relativi: relativi al fatto che Dio può volerli
o non volerli. Dobbiamo chiederli a condizione che piacciano a Dio, perché
potrebbe anche non volerli, proprio in ordine alla nostra salvezza, le cui vie
e i cui mezzi Egli conosce meglio di noi. Per cui, se non ce li dà, vuol dire
che era meglio così, anche se non sappiamo il perché. Ma lo sa Lui e questo ci
deve bastare.
I beni che
Dio certamente vuole sono quelli che sono certamente ordinati alla nostra
salvezza, e che quindi dobbiamo certamente chiedere, anche se essi a volta sono
ostici alla natura o richiedono sacrificio. Questi Dio non ce li fa attendere,
ma ce li dona immediatamente, in quanto tengono in vita il nostro organismo
soprannaturale. Quanto invece a quelli circa i quali non sappiamo se li vuole o
no, nessuno ci proibisce di chiederli. Occorre però che, in caso di mancato esaudimento,
siamo disposti ad accettare serenamente le decisioni divine.
Occorre
notare adesso che la sofferenza in questa vita è inevitabile. Certo dobbiamo
fare il possibile per alleviarla o per estinguerla. Ma, per quanto facciamo,
essa sempre si ripresenta. In ogni caso, per amore o per forza, siamo obbligati
a patire. La saggezza e la preghiera cristiane ci insegnano a patire per amore e
con amore. E siccome l’amore dà gioia, ecco la misteriosa gioia che il cristiano
prova nel patire con Cristo per fratelli e per la propria salvezza.
E ciò dà un
grande sollievo e una grande pace: sapere perché, per che cosa e per chi si soffre.
Noi cristiani soffriamo per amore di Cristo e dei fratelli e nel nostro stesso interesse,
perché unendoci alla croce di Cristo, sopportiamo ogni prova, siamo liberati dalle
pene, dai castighi, dai peccati e dalla morte. Invece, chi soffre per forza, perché
costretto e controvoglia, contro l’inclinazione stessa della nostra natura, soffre
sin da adesso le pene dell’inferno. Neppure li consola l’espediente di
Nietzsche, di sapore stoico, di far nostri volontariamente i colpi del destino,
quello che gli chiama «amor Fati», perché questa orrenda distorsione della
volontà può portare alla pazzia o se dà qualche tranquillità, è solo ostinata e
tragica alterigia dell’orgoglio.
Quando
dunque Cristo dice riguardo all’esaudimento della preghiera: «tutto quello che
domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato»
(Mc 11, 24), egli si riferisce ai beni necessari, che vengono conosciuti,
desiderati e sperati nella fede, ossia in quanto oggetto di fede, perché si
tratta di beni soprannaturali rivelati, che sono appunto oggetto della fede.
Ora la fede dice certezza. E per questo, chi prega sinceramente in questo modo,
non può non essere esaudito.
Fermiamoci
adesso un momento su quest’ordine del Signore:
«pregando, non sprecate parole come i pagani,
i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate come loro,
perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che Glie le
chiediate» (Mt 6, 7-8). Che intende dire?
Non intende
proibire una lunga ripetizione di formule nel pregare, sennò Gesù dovrebbe essere
contrario alla recita del S.Rosario, come credeva Lutero, cosa che invece è stata
raccomandata dalla Madonna nelle sue più accreditate apparizioni. Ma si sa che
per Lutero le apparizioni della Madonna sono superstizioni. Cristo, invece, con
l’espressione «venire ascoltati a forza di parole» si riferisce all’idea
superstiziosa che la parola magica possa avere una «forza» tale da obbligare
Dio a fare quello che vogliamo noi.
D’altra
parte Cristo stesso ci ordina di «pregare sempre» (Lc 18,1) e «in ogni momento»
(Lc 21,36). Sono a tal riguardo famose ed utilissime, soprattutto per cacciare
le tentazioni e nella lotta contro il demonio, le giaculatorie dei Padri del
deserto, anche se ovviamente non bisogna dare tempo eccessivo alla preghiera, soprattutto
quando urgono impegni della carità fraterna.
Anzi il
Concilio di Efeso del 451 ha condannato come eretici i cosiddetti Euchiti o
Messaliani, i quali, col pretesto del Dio «unico necessario», e il dovere del
«pregate sempre», erano dei fannulloni che esageravano nel tempo dedicato alla
preghiera, sottraendosi agli obblighi del lavoro, della vita sociale e della carità
fraterna.
Dei beni
appresi nella fede possiamo essere assolutamente sicuri che sono beni, per cui,
se li chiediamo, possiamo esser certi che ci verranno dati, perché sono voluti
da Dio stesso per la nostra salvezza. È solo questione della determinazione del
tempo e delle varie circostanze; ma una cosa è certa: che ci verranno dati e
più di quanto ci attendevamo, anche se non nelle stesse forme e modalità. Sommo
tra tutti questi beni è la salvezza, che chiediamo soprattutto nella Preghiera
Eucaristica della S.Messa.
Il segreto,
dunque, per essere esauditi, è poter sapere che cosa Dio vuole per noi. Una volta
che sappiamo questo, il più è fatto: non ci resta che chiedere a Dio ciò che Egli
stesso vuole. Possiamo immaginare che non lo faccia? Ecco allora che la prima preghiera
da fare è quella del Padre Nostro: sia
fatta la tua volontà. Il problema semmai sarà di sapere qual è questa volontà. Ma
allora è chiaro che questo è da chiedere primariamente ed insistentemente nella
preghiera.
Tanto i beni
assoluti o incondizionati, quanto quelli relativi o condizionati possono essere
fisici o spirituali. I primi sono soprattutto morali o spirituali ed anzi soprannaturali,
primo fra tutti la grazia santificante. I secondi invece sono soprattutto
fisici, sensibili, temporali o materiali. I beni assoluti o necessari, quelli
sicuramente salvifici e voluti da Dio, oggetto della preghiera incondizionata,
sono i beni celesti, eterni od ordinati al cielo. Ma anche beni spirituali come
i sacramenti hanno un aspetto materiale.
Invece i
beni relativi o contingenti, non sicuramente salvifici e che rimettiamo
fiduciosamente alle decisioni divine, beni che sono oggetto della preghiera
condizionata, sono beni esclusivamente terreni e caduchi, anche se preziosi.
Sono soprattutto fisici, ma possono essere anche spirituali, mai invece
soprannaturali o celesti.
Esempi di beni
assoluti, da chiedere incondizionatamente: il perdono e la misericordia divina,
i sacramenti, la conoscenza della Parola di Dio, il recupero della grazia se si
è perduta, la comunione ecclesiale, la fedeltà ai propri sacri impegni, l’aumento
delle virtù e della grazia, se già la si possiede, la fortezza contro le tentazioni,
il dominio dello spirito sulla carne, la presenza dello Spirito Santo, la
vittoria sul demonio.
Esempi di beni
relativi, da chiedere condizionatamente: il cibo, il vestito, l’alloggio, il
lavoro, la guarigione da malattie o proprie o di persone care, la conversione
di peccatori, la liberazione dalla compagnia di persone moleste, il successo
nell’apostolato, la rivendicazione di propri diritti, la liberazione da
calamità naturali, l’immunità dall’aggressione di malviventi, il riparo da
incidenti stradali, ecc.
Presupposti
per essere esauditi
Non presentarti a mani vuote davanti al Signore
Sir 35,4
Oggetto
precipuo della preghiera è l’ottenimento della grazia di Dio, il poter fruire
della sua misericordia, della sua benevolenza e della sua amicizia. Ma per
poter essere esauditi non ci sono solo condizioni oggettive, riguardanti, cioè,
ciò che si chiede, come abbiamo visto adesso; ma esistono anche condizioni
soggettive, ossia bisogna che il soggetto proceda in un certo modo.
Infatti,
quando ci presentiamo davanti a Dio per aver misericordia o per ottenere
qualche grazia e per avere o sentire la sua amicizia, bisogna che prima
regoliamo con Lui i conti secondo giustizia, se con Lui abbiamo qualche carico
pendente o qualche conto aperto, insomma qualche debito da pagare.
Questo la
Bibbia intende, quando ci ordina di non presentarci «a mani vuote». Le mani
vuote sono quelle di coloro che, col pretesto che tutto ci viene da Dio, e con
una falsa idea della loro indegnità, rifiutando di farsi meriti per la salvezza
o di pagare i debiti, fanno come il servo della parabola evangelica che
seppellisce il talento ricevuto (Mt 25, 14-30).
La parabola
del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14) è istruttiva per l’applicazione di
Sir 35,4, ossia su come bisogna presentarsi al Signore quando Lo si vuol
pregare. Entrambi hanno qualcosa da offrire al Signore: il fariseo presenta al
Signore le sue buone opere, ma non chiede perdono dei suoi peccati ed anzi ne commette
uno guardando con disprezzo il pubblicano, del quale non sa apprezzare
l’umiltà. Questi, invece, non ha opere buone da offrire, ma sente solo il bisogno
di chiedere pietà per i suoi peccati.
Gesù
chiarisce che cosa intende dire il passo del Siracide elogiando la preghiera
del pubblicano, che si è presentato al Signore con l’offerta del suo pentimento
e biasimando quella del fariseo, che si è presentato apparentemente a mani
piene, ma in realtà a mani vuote non tanto per la sua consapevolezza d’aver
fatto opere buone, quanto piuttosto per la superbia di non aver voluto
riconoscere e pentirsi dei suoi peccati.
Stupisce,
pertanto, l’antipatia che S.Teresa di Gesù Bambino provava per questo principio
etico della Bibbia. Parlando infatti di
sé dichiara di «presentarsi a Dio a mani vuote»; ma non sembra preoccupata più
di tanto; anzi, pare dichiararlo con una certa soddisfazione come cosa buona,
forse, nel suo pensiero, segno di umiltà e riconoscimento della sua povertà,
per significare probabilmente che ciò che era e che aveva le veniva da Dio.
In realtà,
come sappiamo, la vita di S.Teresa fu penitente, operosissima, culminando nel
voto di vittima della divina misericordia. Quindi essa in realtà trafficò
abbondantemente i talenti ricevuti. In realtà si presentò al Signore a mani
piene. È possibile che essa in buona fede abbia subìto l’influsso di qualche
direttore spirituale giansenista, che non ha saputo interpretare il passo
biblico nel senso giusto.
È vero che
nel Padre nostro Gli chiediamo di
rimetterci i nostri debiti, ma dobbiamo ricordare la condizione: che noi
rimettiamo i debiti che gli altri hanno con noi, anche se ciò non vuol dire
che, se possono pagare, non debbano pagare; per cui, se non vogliono pagare,
dobbiamo esigere che paghino, come del resto farà Dio stesso con noi, se, pur potendo
pagare, non vogliamo pagare e vogliamo farla franca viaggiando gratis sotto pretesto
della gratuità della grazia e che tanto ha pagato Cristo. Così ragionava Lutero.
Ma questo è voler
fare il furbo, è un discorso sleale da scansafatiche, che Dio non può
assolutamente accettare e che quindi non ci procura affatto la sua misericordia,
ma semmai aumenta il suo sdegno contro di noi, perché qui Dio Si sente preso in
giro e non c’è nulla che ci faccia sdegnare di più di quando ci accorgiamo di
essere beffati.
Dio conosce
benissimo la nostra debolezza, ed è dispostissimo ad aver pietà di noi e a venirci
incontro, e lo si vede da come ha trattato suo Figlio per amor nostro. Ma vuole,
e con ciò stesso ci fa onore, che ci mettiamo del nostro – ecco il senso delle
pene della vita presente – non certo per perfezionare l’opera della Redenzione,
ma per partecipare alla sua stessa efficacia, unendo le nostre opere e le nostre
sofferenze all’opera redentrice di Cristo. Così, grazie a Cristo, volgiamo o «ricicliamo»,
se mi è consentita l’espressione, a nostro vantaggio quella stessa sofferenza che
di per sé è perdita e disgrazia.
Dio, Che è
leale, ci chiede di essere persone leali e che la nostra sia una preghiera non
da scrocconi, ma da persone leali. Si può infatti pretendere l’amicizia da una
persona, se, avendo un debito nei suoi confronti prima non ci sdebitiamo con
lei? Come potremmo pretendere di ricevere ciò che suppone che da parte nostra
le abbiamo dato ciò che le spetta? L’amicizia suppone la giustizia. Non ci può
essere amicizia se manca la giustizia. Questo vale sia nei rapporti interumani
che nel nostro rapporto con Dio.
Caratteristiche
e modalità della preghiera
La preghiera
non va fatta in modo piagnucoloso o petulante, da accattoni, in modo pretenzioso
o furbesco, ma con dignità, cuore contrito e umiltà ad un tempo, con fiducia,
abbandono e sapendo che ciò che si chiede è gradito a Dio ed anzi da Lui
voluto, mentre, se si tratta di cose incerte o contingenti, va fatta sì con
fervore, ma con distacco, senza incaponirsi e pronti ad accettare con
rassegnazione quello che Dio vorrà.
La preghiera,
come ho detto, non è una formula magica, che costringa Dio ad esaudirci. Nella
preghiera non dobbiamo chiedere che si faccia la nostra volontà, ma quella di
Dio, quale che sia, anche il sopportare le conseguenze dei nostri peccati. Essa
non è uno sfogo emotivo o sentimentale, non è uno slancio romantico, ma è atto
sì di fede, ma nel contempo supremamente ragionevole e prudentemente calcolato;
infatti ha una precisa logica: bisogna saper prendere Dio, oserei dire, «per il
verso giusto», altrimenti, invece di esaudirci, si sdegna di più. Egli ci obbedisce,
se noi per primi Gli obbediamo.
Bisogna distinguere
quando si deve pregare e quando si deve far uso delle proprie forze, in quanto
sono sufficienti. Se infatti chiediamo a Dio di darci quello che possiamo ottenere
con le nostre forze, mostriamo disprezzo per queste forze e svalutiamo la forza
divina, e quindi pecchiamo doppiamente contro Dio sia svalutando la sua potenza
in sé stessa e sia in relazione alle forze che ci ha dato.
Dobbiamo
chiedere aiuto, invece, quando, dovendo compiere quel dato dovere o acquistare quella
data virtù od obbedire a quel dato comando divino o fuggire quella data tentazione,
ci accorgiamo che le nostre forze sono insufficienti. Occorre allora applicare
il detto di S.Agostino: «fa’ quello che puoi e chiedi quello che non puoi»;
tentare Dio, invece, e quindi peccato di presunzione sarebbe metterci in un
un’impresa o sottoporci a una tentazione superiore alle nostre forze e chiedere
a Dio che ci faccia riuscire.
Nella
preghiera chiediamo a qualche amico o persona di fiducia in grazia di qualcun
altro superiore di interporsi o di intercedere presto questi per ottenere un
aiuto o un favore da quel superiore. Gesù Cristo con i meriti della sua
Passione ha soddisfatto per noi presso il Padre, ci ha ottenuto la remissione
dei peccati, la figliolanza divina e la possibilità di espiare a nostra volta
con i nostri meriti i nostri peccati. Egli ha pregato il Padre come uomo per
poter compiere l’opera della Redenzione e come Figlio di Dio intercede presso il
Padre a nostro favore, affinché noi a nostra volta possiamo offrire noi stessi
al Padre in Cristo come vittime di soave odore (Cf Ef 5,2).
Prima di salire
sulla croce Gesù ha pregato il Padre che inviasse lo Spirito Santo (Gv 14,15)
ed ha pregato per i suoi (Gv 17, 9); dopo la resurrezione non prega più per loro
il Padre, ma li assicura che sarà sufficiente chiedere nel suo nome (Gv 16,26).
Egli poi ha voluto associare l’uomo alla sua opera redentrice, in modo tale che
se il Redentore era Lui, l’uomo, con le sue opere e le sue sofferenze, avesse
la possibilità di cooperare all’opera redentrice.
Così come il
cristiano si rivolge a Cristo nella preghiera per ottenere la salvezza, in grado
subordinato può rivolgersi anche a fratelli e sorelle, che, in modo eminente ed
esemplare hanno collaborato all’opera redentrice, cioè sono stati partecipi
della Passione del Signore, e quindi sono in qualche modo mediatori di Cristo
Mediatore del Padre. Somma Mediatrice di Cristo è tra tutte le creature umane
la Beata Vergine Maria e, al di sotto di Maria, tutti gli altri Santi del cielo
e della terra.
La
preghiera di Giobbe
L’insegnamento
che traiamo dalla preghiera di Giobbe è basato sulla consapevolezza che egli ha
che in quello che ci capita nella vita, sia il piacevole, sia lo spiacevole,
occorre ricondurre tutto a Dio. Da qui le sue famosissime espressioni: «Il
Signore ha dato, il Signore ha tolto: sia benedetto il nome del Signore!» (Gb
1, 21) e: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il
male?» (Gb 2,10).
Certamente la ragione naturale dimostra che
Dio è bontà infinita, per cui non è difficile ricondurre a Lui tutto il bene
che ci capita, benché gli stolti e gli atei non capiscano neanche questo. Più
difficile è capire come e perché o a qual fine Dio possa permettere o forse
volere le sventure. Non c’è ancora in Giobbe la consapevolezza del valore
soddisfattorio e redentivo della sofferenza, che apparirà col Vangelo.
La Scrittura
veterotestamentaria, che si limita all’elementare principio di giustizia che il
peccato merita il castigo, dice che i mali che capitano sono castighi divini. Sì,
possono essere causati dagli uomini o dalla natura. Ma dietro a tutto ciò c’è sempre
la permissione divina. Gli amici di Giobbe si fermano a dire questo. Ma Giobbe non
si accontenta di questa risposta, perché, sentendosi innocente, non ritiene di
meritare il male che gli capita. Giobbe sa che Dio non ci fa del male per il gusto
di farci del male, come il demonio, ma è come un buon medico che dà una cura dolorosa
al malato per farlo guarire.
Tuttavia il
bello di Giobbe è che non per questo dubita che Dio lo ami e che un giorno lo libererà
e potrà godere per sempre di Lui. Certo, qui non si parla delle conseguenze del
peccato originale, che, come spiegherà S.Paolo, sono la causa originaria e
remota di tutte le pene della vita, sia di quelle dei malvagi che di quelle degli
innocenti, perche nessuno è così innocente da non meritare nessun castigo.
Giobbe sa comunque
che Dio è buono, per cui, se permette la sventura, dev’esserci una ragione,
deve avere un motivo di giustizia e di bontà, che a noi può essere sconosciuto;
ma il sapere che tale motivo c’è deve bastare a farci rimanere sereni e ad
avere fiducia in Lui, che in un modo o nell’altro, quando e come vorrà, ci libererà
e ci premierà per la nostra pazienza e ci restituirà in abbondanza tutto ciò
che ci aveva tolto. In Giobbe non c’è ancora l’idea di un liberatore dal peccato,
cosa che comparirà solo con Cristo; ma tuttavia c’è l’idea che Dio stesso pensa
a rivendicare i giusti dei torti subìti, a liberarli dalle sofferenze e dalla stessa
morte.
Giobbe è
innocente e non accetta la sentenza dei suoi amici che le disgrazie che gli
capitano siano punizione per i suoi peccati. Cristo non è ancora venuto, per
cui Giobbe non pensa ad offrirsi, come Cristo per scontare i peccati degli
altri. Tuttavia la saggezza di Giobbe è fondamentale ed è il presupposto per
capire il senso della Redenzione di Cristo.
La
preghiera della regina Ester
Un metodo
esemplare della preghiera ben fatta, che tocca il cuore di Dio ed ottiene, lo
troviamo nelle parole della regina Ester (Est 4, 17k-17z). Essa infatti ci dà l’esempio
di come ci si deve regolare o quale via seguire per ottenere da Dio grazia in abbondanza.
Essa c’insegna che la buona preghiera va fatta in due tempi ben precisi, l’uno
successivo all’altro ed ordinato all’altro.
Così infatti
Ester si esprime:
«Abbiamo
peccato contro di Te e ci hai messo nelle mani dei nostri nemici, per aver noi dato
gloria ai loro dèi. Tu sei giusto, Signore! Ma ora non si sono accontentati
dell’amarezza della nostra schiavitù, ma hanno giurato di sterminare la tua eredità».
Questo è il primo
tempo. È l’atto della presa di coscienza delle proprie colpe con la richiesta
di perdono. Segue il secondo tempo, con la richiesta di aiuto:
«Non consegnare,
Signore, il tuo scettro a dèi che neppure esistono. Non abbiano a ridere della
nostra caduta, ma colpisci con un castigo esemplare il primo dei nostri
persecutori. Salvaci con la tua mano e vieni in mio aiuto, perché sono sola e
non ho altri che Te, o Signore!» (17n-17t).
La regina Ester c’insegna che per ottenere
misericordia presso Dio, la prima cosa da fare, il punto di partenza della
preghiera è il cominciare col riconoscere le proprie colpe, che il Signore è
giusto nel castigarle e che ci siamo meritati i suoi castighi, come è detto nell’Atto di Dolore: «Mio Dio mi pento e mi
dogo dei miei peccati perché peccando ho meritato i tuoi castighi e molto più
perché ho offeso Te infinitamente buono e degno di essere amato sopra ogni
cosa».
A questo
punto, riconosciuto il nostro debito col Signore, dichiaratici pronti a pagarlo
e calcolando la sventura che ci affligge come pagamento del debito, il Signore
è ben disposto verso di noi, a perdonarci e ad accordarci quella misericordia che
Gli chiediamo per essere liberati dai nostri mali. Per donarci la sua
misericordia Dio esige che siamo pentiti dei nostri peccati e pronti a
riparare. Però c’è da tener presente che lo stesso pentimento e l’atto di
soddisfazione o riparazione sono mossi dalla grazia e quindi effetti della
misericordia.
Dio quindi
non perdona incondizionatamente, ma soltanto a condizione che siamo pronti a
convertirci. Ci dona invece la prima grazia incondizionatamente, dalla quale
parte il processo della giustificazione. E in ciò Lutero è nel vero. Perdonare
incondizionatamente, infatti, e questo vale sia per l’uomo che per Dio, ossia senza
esigere la condizione previa che l’offensore si penta, non sarebbe un vero
perdonare, che tolga il peccato, ma al contrario sarebbe complicità o
connivenza dell’offeso col peccato di chi lo ha offeso.
La
preghiera di Geremia
Al c.14 di
Geremia troviamo una preghiera del profeta che costituisce un esempio del modo adeguato
di pregare in tempi di pubbliche calamità.
Il profeta piange la triste sorte di Gerusalemme devastata da un esercito
straniero. Come esordisce nella sua preghiera per la liberazione della città?
«Riconosciamo,
Signore, la nostra iniquità, l’iniquità dei nostri padri; abbiamo peccato
contro di Te» (14,20).
Solo a
questo punto Geremia sente di poter invocare il Signore con sicurezza e
fiducia:
«Ma per il
tuo nome non abbandonarci, non render spregevole il trono della tua gloria.
Ricordati! Non rompere la tua alleanza con noi. Non sei piuttosto Tu, Signore
nostro Dio? In Te abbiamo fiducia perché Tu hai fatto tutte queste cose»
(vv.21-22).
La
preghiera di S.Caterina da Siena
Tra le Orazioni della Santa Senese scelgo
questa, nella quale appare con particolare chiarezza come essa, al fine di
rendere accettabile al Padre la sua supplica, esordiva facendoGli presenti i
meriti della Passione di Suo Figlio, ai quali associava il riconoscimento dei
suoi peccati, la cui pena essa espiava stando unita alla Passione di Cristo.
Solo a questo punto essa si riteneva abilitata a chiedere al Padre grazie,
misericordia, pace, giustizia, benessere e salvezza per lei, per i suoi cari,
per i peccatori, per la sua città, per l’Italia, per il Papa e per la Chiesa. Dice
Caterina:
«O dolce ed
eterno Iddio, infinita sublimità! Poiché non potevamo elevare l’affetto, il
quale era infimo, né il lume dell’intelletto alla tua altezza per le tenebre
della colpa, però Tu, sommo medico, ci hai donato il Verbo con l’esca dell’umanità,
e hai attirato l’uomo e catturato il demonio non in virtù dell’umanità ma della
divinità. E così facendo Te piccolo hai fatto grande l’uomo, satollato di
obbrobrii, l’hai riempito di beatitudine, avendo Tu patito fame l’hai satollato
nell’affetto della tua carità, spogliatoti della vita, lo hai rivestito della
grazia, riempito Tu di vergogna hai reso a lui l’onore, essendo oscurato. Tu quanto
all’umanità hai reso a lui il lume, essendo disteso Tu sulla croce, lo hai abbracciato
e gli hai fatto una caverna nel tuo costato, nella quale avesse rifugio dalla faccia
dei nemici, nella quale caverna può conoscere la tua carità, perché per essa
mostri che gli hai voluto dare più che potesse con finita operazione. Ivi ha trovato
il bagno nel quale ha lavato la faccia dell’anima sua dalla lepra della colpa»[1].
Conclusione
La preghiera
cristiana conferma il pregare proprio della religione naturale, compresa quella
veterotestamentaria, ma nel contempo lo rende più efficace, lo supera per una
migliore conoscenza di quello che dobbiamo chiedere a Dio, per l’ampiezza e sublimità
di prospettive, per una più profonda conoscenza del peccato e della sofferenza,
dai quali chiediamo a Dio di liberarci, per una migliore conoscenza delle forze
maligne dalle quali Dio ci difende, per il
possesso di un Mediatore divino Gesù Cristo, il Quale nello Spirito Santo,
intercede per noi presso il Padre.
P.Giovanni
Cavalcoli
Fontanellato,
19 marzo 2020
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