Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 3 (2/2)

  Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 3 (Parte 2/2)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 13 (A-B)

Bologna, 27 gennaio 1987 - Fine Ultimo n. 13 (A-B)

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Poi c’è il finis operis, che è il fine. Non che con la sua attrattiva costituisca l’operante, ma è il fine immediato di ciò che si fa. E’ il bene immanente all’opera stessa. Dopodiché c’è la circostanza che consiste nel fatto che uno agisca secondo una determinata intenzione del fine, il quale non è più considerato nella sua bontà obbiettiva, il fine dell’operante, ma è considerato come presente precisamente nell’intenzione dell’agente, cioè l’agente esce con l’azione con l’intenzione del fine.

Quindi c’è un duplice modo di considerare il fine. C’è il fine in sé, prima che l’agente se ne lasci attirare, per così dire.  Esso costituisce appunto il fondamento di questo lasciarsi attrarre. E poi c’è il fine, in quanto ha già attratto l’agente e l’agente agisce sottoposto a questa attrattiva. Sembra una sfumatura, ma è molto importante, perché altrimenti non si capisce perché il fine possa aiutarci con questi tre titoli ben distinti.

Poi c’è la causa quasi materiale, secondo tipo di causa, che riguarda l’oggetto dell’azione, ossia il circa quid, circa quid, ciò attorno a cui si svolge l’azione. E’ colui che patisce una azione. Cioè, l’azione diventa passione riguardo all’oggetto. Per esempio, nel caso di un maltrattamento, è chiaro, la persona altrui diventa paziente. Si spera che lo sia sotto ogni aspetto. Diventa paziente, cioè subisce l’azione. Allora, si dice che il circa quid è appunto colui che subisce l’azione, il soggetto non dell’azione, perchè questo è chi compie l’azione. Il circa quid è colui che sottostà all’azione in quanto è subita.

Poi c’è l’agente, la causa agente, che è il quis, colui che pone l’azione, la qualifica di chi agisce. Per esempio, sarà un’aggravante il peccato in una persona più consapevole, il saggio pecca più dell’ignorante, eccetera. Poi l’agente strumentale, che ovviamente costituisce la circostanza quibus auxillis, con quali mezzi.

Infine il contatto, terzo tipo di circostanza. Là dove si arriva a contatto con l’effetto dell’atto. E questa è la circostanza del quid fecit, che cosa fece. Ovviamente, precisa S.Tommaso nell’ad tertium, non si tratta di ciò che è inseparabilmente legato all’azione stessa, quid fecit. Per esempio, se uno asperge un altro con l’acqua è evidente che lo bagna. Non c’è verso, l’acqua è umida, insomma, c’è poco da fare.

Ma, dice S.Tommaso, il quid fecit può dipendere dalla qualità dell’acqua. Per esempio, se lo aspergo con acqua caldissima, io faccio male al prossimo, perché appunto lo scotto, insomma, gli faccio del male. Quindi il quid fecit sono appunto, diciamo così, delle aggiunte a ciò che si fa, non l’essenza di ciò che si fa.

Ovviamente il quarto articolo poi riassume un po’ l’ordine delle circostanze, cioè fa vedere come, dato che l’atto umano è tutto causato dall’ordine al fine, è evidente che tra le circostanze, queste due saranno le più importanti, cioè quella che è affine alla causa stessa dell’atto umano, cioè la circostanza del cur, del perché, e poi la circostanza che è affine all’oggetto dell’atto, cioè del quid fecit, che cosa fece. Tutte le altre circostanze si raggruppano attorno a queste due.

Vedete quindi che le circostanze sono proprio accidenti dell’atto umano e, come gli accidenti si pongono in una specie di analogia di attribuzione alla sostanza, così le circostanze si rapportano alle fonti della moralità più grandi, più proprie, che sono appunto il fine e l’oggetto.

Avete dunque quest’ordine: fine, oggetto, circostanze: le tre fonti di moralità. E quindi nelle circostanze, quelle che sono più vicine al fine e all’oggetto, saranno le circostanze principali.

Questo per darvi un’idea, appunto, circa l’ordine tra le circostanze. Adesso abbiamo i cinque minuti della ben meritata pausa; dopo di che partiamo con l’oggetto della volontà. Vi propongo questo eventualmente, adesso: se noi non ci riusciremo senz’altro a svolgere tutto questo, io vi propongo di studiare poi senz’altro fino alla questione 10 compresa. Chè poi, la prossima volta, quando ci vediamo dopo il cambiamento di semestre, partiremo con l’atto di scelta. Anche lì dovremo considerare solo alcune questioni, perché vedete che il trattato è di una notevole mole. Riposatevi.

Seconda parte (B)

Il primo atto della volontà, potremmo chiamarlo simplex volitio. S.Tommaso qui parla dell’oggetto della volontà, del voluto, di ciò che la volontà vuole, ma non si tratta qui tanto della volontà come facoltà ….

… questione …

Quaestio otto. Adesso siamo passati dalle circostanze alla vera e propria questione. La questione ottava tratta dell’oggetto della volontà, dove per volontà, come presto vedremo, non si intende la facoltà volitiva, quanto piuttosto il suo primo e fondamentale atto, che si potrebbe anche chiamare la simplex volitio, il semplice volere.

Anzitutto la domanda è se la volontà abbia per oggetto sempre e solo un bene. La risposta non lascia dei dubbi. Ovviamente ogni atto di volizione, ogni atto di volere, si porta sempre e solo a un bene, mai al male. Si capisce, mai al male sotto l’aspetto formale del male, perché può succedere che uno voglia di fatto il male, ma non lo vuole come male. Pensate a un peccato, per esempio al furto.

Il rapinatore di banca non vuole tanto fare del male alla gente, eccetera. Non vuole fare ingiustizia direttamente al suo concittadino che, poverino, onesto lavoratore, ha depositato in banca i frutti del suo lavoro. Lui vuole però per sè il bene del denaro, calpestando anche i diritti dell’altro. Cioè non vuole direttamente il male. Vuole direttamente il bene, il suo bene. Poi ovviamente anche prende in considerazione che, per realizzare questo suo bene, molto egoisticamente dovrà fare del male agli altri.

Quindi, in sostanza, nella volizione, nell’atto del volere, c’è sempre la tendenza al bene. S.Tommaso lo spiega in due tappe. Poi lo approfondirete voi. Noi adesso purtroppo dobbiamo un pochino correre. Comunque sommariamente si può dire questo:  anzitutto quanto all’appetito in genere, ogni appetere è un tendere in un qualche cosa di conveniente.

Ora, ciò che è conveniente a un agente in atto è ancora un qualche cosa in atto, una entità, quindi un bene, perchè tutto ciò che è in quanto è, è un bene. E soprattutto poi in quanto è conveniente all’agente, cioè l’agente agisce in vista del conveniente, ciò che è conveniente all’agente è un bene per l’agente. Quindi ogni appetito è ordinato al bene. Notate che c’è un profondo ottimismo in questa affermazione, però solidamente fondato nella metafisica.

Il secondo argomento riguarda la volontà in quanto è volontà, cioè non più l’appetito in genere, ma proprio la volontà. Ebbene, ovviamente la volontà non segue una forma puramente naturale, ma la forma conosciuta, cioè la forma rappresentata nell’agente. Ora, ovviamene la rappresentazione, che muove la volontà all’atto, è sempre rappresentazione del bene. Però nel caso della conoscenza, che precede la volontà, il bene presentato dalla conoscenza alla volontà, a cui la volontà risponde volendo, questo bene può essere o reale o soltanto apparente.

Quindi vedete come in qualche modo la radice del male morale, è l’errore pratico, nel senso che l’intelletto pratico presenta alla volontà come bene un qualcosa che bene non è. Ma è una ignoranza voluta, a differenza di quello che pensava Socrate, che, insomma, ogni peccatore è un ignorante; ma ignorante nel senso speculativo della parola. Invece, no. Se lo fosse nel senso speculativo, non peccherebbe.

Come dice anche il Salvatore, “Se voi diceste ‘siamo ciechi’, il vostro peccato non ci sarebbe, ma siccome dite ‘ci vediamo’, il vostro peccato permane”. Lo dice ai Farisei, che appunto si vantavano della loro sapienza, eccetera. Chi sa, ovviamente pecca; chi è ignorante, se è ignorante in modo speculativo, non pecca, è ignoranza invincibile antecedente. Invece qui si tratta di un errore pratico, voluto.

Quindi ovviamente la volontà si muove solo là dove l’intelletto pratico presenta una realtà come buona. Però può essere presentata come buona anche una realtà, che non lo è. E’ la scorciatoia del sillogismo del peccatore. Lo incontriamo un’altra volta. Esemplifico, infatti, come voi sapete, sempre con un argomento che poi mi riguarda, cioè quello dei cibi.

Quando Il medico prescrive: non devi mangiare molti dolci, eccetera. Ma uno si ferma, qui a Bologna, dove ci sono di quei negozietti, che veramente fanno venire l’acquolina alla bocca. Ebbene, se uno poi si lascia travolgere dalla passio, allora succede che effettivamente in tal caso il suo intelletto pratico gli presenta come buono, ciò che obbiettivamente buono non è, quando il medico dice: figliolo, proprio non giova alla tua salute.

Però è necessario, affinchè la volontà si muova, che l’oggetto le sia presentato come buono. Quindi si può dire che in genere la volontà tende al bene. Non però la volontà come facoltà. Ovviamente la volontà come facoltà sceglie tra il bene e il male. E’ chiaro. Ma è la volontà come atto di volontà, cioè il volere è sempre del bene.

La volontà riguarda sia il fine, che i mezzi. Ovviamente nelle cose naturali, c’è una analogia anzitutto tra la volontà e le tendenze naturali. Come nelle cose naturali il soggetto per mezzo della stessa potenza operativa attraversa i mezzi per giungere al termine dell’azione, così anche nell’ordine volitivo, il volente per il tramite dei mezzi si dispone al conseguimento del fine.

 Quindi, possiamo dire questo, che per quanto riguarda la volontà, come potenza operativa, essa si estende sia al fine che ai mezzi; è la stessa facoltà volitiva che vuole ogni tipo di bene, sia il bene del fine che il bene dei mezzi. Ovviamente, il bene del fine è quello che determina il bene dei mezzi, cioè i mezzi sono dipendenti dal fine e sono ordinati al fine.

Invece la volontà intesa come atto del volere riguarda esclusivamente il fine. Cioè per simplex voluntas o simplex volitio, per l’atto di semplice volontà, si intende quell’atto che riguarda il principio dell’atto umano, ciò che si vuole naturalmente, per natura, non per scelta. Ora, ciò che si vuole per natura, non sono i mezzi in vista del fine, ma il fine stesso, che determina poi anche la scelta dei mezzi in un momento successivo.

Quindi la distinzione è questa. Come nell’ambito naturale la stessa facoltà motiva, muove il mobile ad attraversare tanti termini intermedi per giungere al termine ultimo, così anche la facoltà volitiva o volontà estende il suo agire a ogni bene, sia il bene del fine che il bene dei mezzi. Quindi la volontà, come facoltà, come potenza volitiva, riguarda sia il fine che i mezzi. Invece la volontà, come atto del volere, il semplice volere, nel semplice volere non ci sono ancora i mezzi, non si considerano ancora i mezzi, ma ci si porta a ciò che si vuole quasi per natura immediatamente, spontaneamente. Ci si porta insomma al fine.

Quindi, è qui che si differenzia appunto la simplex volitio da quella che si chiama appunto l’intentio. La simplex volitio è la quasi naturale, immediata, spontanea volontà del fine. L’intenzione è la volontà di conseguire sì il fine, ma di conseguirlo adoperando dei mezzi, non si sa ancora quali. Però la volontà si concretizza già, si estende alla considerazione dei mezzi. Non dice solo: voglio quella cosa. Dice: voglio quella cosa sapendo che per conseguirla dovrò, dovrò estendermi in qualche modo a adoperare dei mezzi.

Ora, appunto, nell’articolo seguente, cioè nel terzo, S.Tommaso precisa la distinzione tra l’atto della semplice volizione e l’atto dell’intenzione, cioè l’atto della semplice volizione, che si porta al fine in assoluto e l’atto dell’intenzione che si porta ai mezzi. Però mai ai soli mezzi, ma sempre ai mezzi per il fine, al quale i mezzi sono ordinati. Perchè questo? Perché il fine può essere voluto per se stesso, in assoluto; i mezzi invece non possono mai essere voluti senza il fine.

Quindi il fine può fare a meno dei mezzi, ma i mezzi non possono mai fare a meno del fine. Voi intuite il perché. Proprio perché il fine è buono in sé, i mezzi lo sono in vista del fine. Quindi, vedete che nell’atto della simplex volitio c’è la tendenza al solo fine, senza prendere ancora in considerazione i mezzi. Nell’atto dell’intentio, dell’intenzione, c’è il volere i mezzi, ma mai senza il fine, cioè i mezzi in vista di quel tale determinato fine.

Si può fare appunto l’analogia con l’intelletto umano. Quindi non c’è mai scienza delle conclusioni senza l’intelletto dei principi. In qualche modo è, diciamo così, molto, molto esemplificante, si potrebbe dire, questo paragone con l’intelletto.

          Come nell’intelletto c’è l’intellectus principiorum riguardo a ciò che per natura si conosce intellettivamente, così nella volontà c’è un qualcosa che per natura si vuole ed è il fine. Come l’intelletto conosce naturalmente i principi, così la volontà vuole naturalmente i fini. I fini sono nell’ordine pratico ciò che sono i principi nell’ordine conoscitivo.

Quindi praticamente come la volontà, la simplex volitio, vuole naturalmente i fini, così l’intelletto conosce naturalmente i principi. Ora, può succedere che uno abbia l’atto di conoscenza dei principi senza applicarli a una dimostrazione. Però non è possibile che uno abbia la conclusione di un sillogismo, senza riallacciarla ai principi. Similmente non è possibile adoperare o volere dei mezzi senza volere il fine, è però possibile volere il fine senza volere i mezzi.

Ora, nell’ad tertium c’è una significativa precisazione. Cioè, dice S.Tommaso, che diverso è l’ordine della esecuzione dell’opera, dell’executio operis, dall’ordo intentionis, l’ordine dell’intenzione. Ora, nell’esecuzione dell’opera, ciò che è ordinato al fine, cioè il mezzo, è intermedio, mentre il fine è il termine del moto. E’ molto facile.

Pensate alla costruzione di una casa. Prima bisogna scavare le fondamenta, poi porre la prima pietra, poi le altre pietre e poi si costruisce la casa. Quindi i mezzi sono intermedi in vista della realizzazione del fine, che appare alla fine dell’opera, al termine dell’opera. Il fine coincide con la fine.

Ora, così come il moto naturale può fermarsi in un luogo intermedio senza arrivare al fine, al termine, per esempio nella costruzione di una casa, ci si può fermare e non più costruire, così anche nell’eseguire l’atto umano è possibile fermarsi a una realizzazione parziale, senza arrivare fino in fondo nell’esecuzione.

 Mentre nell’intenzione, il fine precede i mezzi, nell’esecuzione i mezzi precedono il fine e dispongono ad esso. Nell’intenzione il fine precede i mezzi e fa dipendere da sè i mezzi. Sicché, non è possibile dire: io mi fermo ai mezzi e non voglio il fine. No, per volere i mezzi prima bisogna volere il fine, i mezzi si vogliono dipendentemente dal fine.

Vedete come vale questo assioma tomistico, secondo cui ciò che è primo nell’intenzione è ultimo nell’esecuzione. Quindi il fine, che è ultimo nell’esecuzione, è anche primo nell’intenzione dell’agente. Lì c’è questa struttura dell’atto umano, c’è un discendere, notate, dal fine ai mezzi nell’ordine intenzionale. Quasi dal fine ultimo, che poi è il primo fine voluto, si discende fino all’ultimo mezzo, su cui si opera. Questo ultimo mezzo nell’intenzione diventa il primo mezzo nell’esecuzione e partendo da quel primo mezzo si adoperano gli altri fino ad arrivare alla fine.

Pensate appunto all’architetto, che è l’esempio prediletto di S.Tommaso. L’architetto deve prima sapere quale casa vuole costruire. Per esempio, uno gli dà un incarico di progettare una casa e allora gli dice un po’ la sua idea: io vorrei una casa in campagna, eccetera. L’architetto deve anzitutto pensare a quello che vuole realizzare, alla casa in campagna ideale per quella tale persona, che gli ha dato l’incarico. Quindi pensa a ciò che poi si realizzerà solo alla fine, cioè proprio la casa che il proprietario ha desiderato (?).

Allora, all’inizio parte da questa concezione finalistica. Proprio il fine si pone all’inizio dell’intenzione, e poi comincia a pensarci: e allora, con quali mezzi posso raggiungere questo fine? E comincia a deliberare sui mezzi, fino a discendere sui mezzi più particolari possibili, sul materiale che adopererà concretamente. Dopo, ecco il primo passo dell’esecuzione, incarica una ditta di fornirgli quel preciso materiale e comincia a costruire. E alla fine, nell’esecuzione torna ciò che c’era all’inizio nell’intenzione.

Nella quaestio nona si tratta del motivo della volontà, cioè che cosa muove la volontà, da che cosa la volontà può essere mossa. Anzitutto la volontà è mossa dall’intelletto. Qui S.Tommaso manifesta la sua anima intellettualistica. Ci sono alcuni tomisti, che si sforzano di farne un volontarista, perché è più di moda. Ma S.Tommaso da quel lato non ha dei dubbi. Quindi, la volontà è mossa dall’intelletto. Però è mossa in una maniera del tutto particolare.

Questo articolo, poi lo approfondirete poi per conto vostro. Esso presenta una fondamentale distinzione che, nell’antropologia soggiacente alla morale, ricorre continuamente, cioè la distinzione tra l’esercizio dell’atto e la sua specificazione. L’esercizio è dalla parte del soggetto, che si muove all’agire, mentre la specificazione dell’atto determina o definisce quasi ciò che si fa. Una cosa è il fare e non fare, un’altra cosa è fare questo o questo altro. La prima cosa riguarda l’esercizio; quell’altra la specificazione.

Ora, quanto all’esercizio, non c’è dubbio che la volontà non dipende dall’intelletto, ma anzi, quanto all’esercizio, è la volontà che muove l’intelletto. Perché? Perchè la facoltà del fine più alto e più universale muove tutte le facoltà dei fini particolari. Quindi, la volontà è la facoltà delle facoltà. Se volete, la volontà è quasi paragonabile alla mano. Ciò che è la mano, come strumento degli strumenti, nell’ordine dell’eseguire, la volontà lo è nell’ordine di muovere le facoltà dell’anima. La volontà è da quel lato facoltà delle facoltà. Essa non è una facoltà tra le altre, ma è la facoltà che muove tutte le altre.

S.Tommaso fa un esempio significativo, ma un po’ obsoleto al giorno di oggi, benché anche tuttora si possa dire che sia così. Ed è questo: l’arte della navigazione determina l’arte della costruzione navale. E’ evidente. E’ l’esperienza del navigatore che determina come debba essere costruita una nave. Quindi, l’arte del fine più ampio, cioè della navigazione in genere, determina poi in particolare come la nave deve essere costruita.

Quindi la facoltà del fine più astratto, più universale, determina e muove sempre la facoltà del fine più particolare. Ora la volontà è la facoltà del fine in genere, in astratto, mentre l’intelletto non è la facoltà del fine, è la facoltà di quel particolare fine, che è il conoscere.

Quindi, quanto all’esercizio non c’è dubbio che la volontà muove l’intelletto e non viceversa. Da quel lato S.Tommaso,  se volete, è secundum quid, volontarista.  Però, per quanto riguarda la specificazione della stessa azione volitiva, per quanto riguarda ciò che si vuole, la volontà, essendo un appetito intellettivo, presuppone la conoscenza del suo oggetto. Nihil volitum nisi precognitum, nulla può essere voluto se non è preconosciuto.

Quindi la volontà suppone la presentazione da parte dell’intelletto, la presentazione del bene. L’intelletto pratico conosce il bene e presenta come vero quel determinato bene. Cioè dice quasi alla volontà: guarda che è vero che questo bene è veramente tale. Una volta che l’intelletto pratico fa questa operazione, la volontà si muove al bene presentato. Quindi vedete come l’intelletto muove la volontà, ma non la muove soggettivamente, la muove ex parte obiecti, dalla parte dell’oggetto proposto, che specifica ciò che si fa, che determina ciò che si vuole e che si fa.

Quindi, mentre la volontà è quasi il primo motore, vedremo poi che non lo è in assoluto. Ma comunque riguardo all’anima è effettivamente la prima forza motrice; la volontà è la prima forza motrice dell’anima quanto all’applicazione all’atto, all’esercizio dell’atto. Tuttavia la volontà dipende dall’intelletto per quanto riguarda la presentazione dell’oggetto.

Ora, la questione poi rimane questa. Notate questo. S.Tommaso non lo dice, ma si può andare molto in là in queste disquisizioni. Si potrebbe dire: ma, allora, se la volontà muove all’esercizio anche l’intelletto, vuol dire che lo stesso atto intellettivo, con cui l’intelletto presenta il bene alla volontà, è a sua volta mosso dalla volontà, la quale volontà ha bisogno della presentazione, e così via, ad infinitum. Standum in primo idest in intellectu. Adesso l’ho detta grossa. Padre Fabro non sarebbe contento di me. Ad ogni modo, penso però che il celeste Patrono mi benedica in questo momento.

Il fatto è che veramente S.Tommaso è stato un intellettualista, in questo senso, che è vero che la volontà può muovere l’intelletto, ma non è necessario che lo muova. Cioè può succedere che l’intelletto semplicemente conosca, senza essere applicato dalla volontà all’atto di conoscere.

Quindi, se volete, c’è un esercizio dell’atto intellettivo non mosso dalla volontà. Poi c’è la presentazione da parte dell’intelletto, non mosso dalla volontà, del bene alla volontà, la quale si muove all’esercizio dell’atto e da quel momento in poi può muovere anche le altre facoltà, compreso l’intelletto. E così via, il movimento ormai è avviato.

 Ma se non ammettete questa indipendenza dell’intelletto dalla stessa volontà, quanto all’esercizio dell’atto, effettivamente si apre una via senza uscita.

Quindi, la volontà è talmente universale che può muovere ogni facoltà, compresa quella intellettiva. Però, l’intelletto ha una certa sua autotomia operativa, anche quanto all’esercizio, indipendente dalla volontà. Lo potete vedere per esempio nella conoscenza sensitiva. Lì non c’è bisogno che vi applichiate a conoscere quel determinato colore, a guardarlo. Basta aprire gli occhi e lo vedete, in sostanza. Cioè, non c’è bisogno neanche di aprirli, semplicemente li avete aperti e vedete il colore che vi trovate innanzi.

Qui la conoscenza ha un esercizio immediato, da cui poi dipende la presentazione dell’oggetto alle facoltà appetitive, le quali poi risultano motrici. E’ ovvio che in alcuni atti di intelletto speculativo la volontà è veramente motrice. Per esempio, se la volontà di ogni bravo studioso, ci dice: ecco, figliolo, adesso applicati a studiare, allora c’è veramente una mozione quanto all’esercizio da parte della volontà, che applica l’intelletto speculativo.

Ora, questa distinzione mi pare molto importante. Anche l’intelletto muove la volontà comunque dalla parte dalla presentazione dell’oggetto. Quanto all’applicazione all’atto. è la volontà che muove se stessa. Infatti, nei seguenti due articoli, S.Tommaso analizza la parte appetitiva, cioè la questione se la volontà possa essere mossa dall’appetito sensitivo e poi se la volontà muova se stessa. Entrambe questioni sono  molto importanti.

Ora, per quanto riguarda la mozione o l’influsso dell’appetito sensitivo sulla volontà, è indubbio che tale influsso ci sia, ma in che modo? Non immediatamente ex parte subiecti. Abbiamo visto che la volontà soggettivamente è indipendente, cioè applica se stessa all’esercizio dell’atto. Quindi la passione, se volete, ossia l’appetito sensitivo, può intervenire, ma interviene esclusivamente a livello della proposta del soggetto. Ciò è ancora una volta una mozione ex parte obiecti, per la proposta dell’oggetto.

Quindi l’appetito sensitivo non influisce soggettivamente, ma influisce proponendo l’oggetto. In che modo, però? Questo è molto sottile. Ci si potrebbe abbastanza facilmente sbagliare in questo, perché non lo fa come l’intelletto pratico, che serenamente propone l’oggetto, ma l’appetito sensitivo piuttosto influisce sul soggetto, non però in quanto volente, ma alterandolo passionalmente. In questa circostanza il soggetto, non più sereno, non riesce a mantenere appunto l’indifferenza del giudizio pratico-pratico, o per lo meno non la mantiene del tutto.

E quindi, se volete, c’è l’influsso della passione sul giudizio della ragion pratica e tramite la ragion pratica, proponente l’oggetto, c’è l’influsso sulla volontà. Mi avete capito, miei cari? Sul serio? Ripeto. Fra Gianni mi ha guardato con un po’ di scetticismo. E’ fondato, perché è un articolo non facile, questo. Quindi giustamente ve lo ripeto. Va bene? Vi ripeto, se avete qualche, qualche difficoltà fatemelo presente.

Allora, guardate, il fatto è questo. Faccio un esempio. Qui si può fare, una volta tanto, cosicchè siamo avvantaggiati. Dunque, un uomo che si trova in un impeto d’ira. Ovviamente non ragiona come un uomo calmo e sereno. E’ evidente, questo, no? Quindi la passione, l’appetito sensitivo, influisce sul soggetto umano, alterandone appunto la disposizione, e alterandone non solo la disposizione passionale, come è ovvio, ma tramite essa anche la disposizione al conoscere.

Quello che appare una cosa da poco a uno che si trova sereno e tranquillo, appare una grave offesa a uno che si trova in uno stato di irascibilità un po’ stimolata, diciamo. Allora, in tal senso, l’appetito sensitivo influisce sul giudizio dell’intelletto pratico, il quale intelletto pratico allora presenta, se volete, il bene sotto un aspetto un tantino deformato. E la volontà si muove a seconda di questa proposizione dell’oggetto.

Poi c’è ovviamente la questione: fino a che punto la volontà rimane libera, eccetera. Ma importante è sapere che effettivamente l’appetito sensitivo può influire sulla volontà, non direttamente sulla volontà stessa, ma tramite la proposizione dell’oggetto. Non però immediatamente, perchè questo spetta solo all’intelletto pratico, bensì influendo sulla disposizione conoscitiva del soggetto e alterandone in qualche misura lo stesso giudizio pratico, tramite il quale poi influisce sulla volontà.

C’è infatti la citazione che non poteva mancare, dell’Etica a Nicomaco, nel III Libro, e cioè qualis unusquisque est, talis finis ei videtur, a secnda di come ciascuno di noi è, tale  a lui appare il fine. Noi valutiamo i fini a seconda delle nostre disposizioni. Però, per fortuna rimaniamo liberi. Perché è una frase un po’ insidiosa. Infatti, uno potrebbe dire: quale ciascuno è, tale è la sua valutazione. Quindi il giudizio sarebbe proprio determinato. C’è un influsso della appetitività sul giudizio, ma il giudizio rimane libero. Cioè la volontà, di per sé, potrebbe resistere appunto a questa alterazione dell’appetito sensitivo.

Spesso succede che in qualche modo il povero giudizio pratico-pratico è conteso da queste due appetiti: uno razionale e l’altro sensitivo. Soprattutto in materia di temperanza, vi feci l’esempio della gola, no? L’acquolina in bocca, eccetera, no? In genere, in tutto l’ambito della temperanza spesso succede che c’è questo conflitto tra la passionalità da una parte e la volontà dall’altra. Per fortuna, la volontà può in qualche modo rettificare il giudizio pratico-pratico, anche se l’appetito sensitivo influisce su di esso. E quindi la libertà ut in pluribus rimane.

Lì, nell’ad tertium, ovviamente non poteva mancare la constatazione che l’appetito sensitivo è dominato non in maniera dispotica, ma politica. Questo è molto importante per l’antropologia realistica dell’uomo. E questo, notate bene, non solo, diciamo così, nello stato di concupiscenza. Essendo in teologia possiamo parlare in questi termini. Infatti, si tratta dello stato della corruzione della natura a causa del peccato originale, quella che S.Agostino chiama concupiscenza come tendenza e inclinazione al male.

No, anche nello stato proprio di natura pura, diciamo così, così come Dio ha voluto l’uomo, Dio ci ha creati in maniera tale che la nostra ragione potesse comandare agli appetiti inferiori, ma mai in maniera tale da schiacciarli. Vedete come non ha luogo contro la morale tomistica il rimprovero, secondo il quale essa creerebbe delle nevrosi. Assolutamente no. L’antropologia tomista non è repressiva, nemmeno degli istinti, è educativa degli istinti, a differenza del freudismo. Questo sì. Ma non è repressiva degli istinti. Questo, per quanto riguarda  questo aspetto antropologico.

La volontà muove se stessa. Questo è un argomento effettivamente non facile da capire, ma essenziale, proprio di primo ordine. Anche qui S.Tommaso fa un paragone con l’altra facoltà spirituale, che è quella intellettiva. E forse partendo da lì risulterà più chiaro. Cioè, l’intelligenza, essendo in atto rispetto ai principi, riduce se stessa dalla potenza rispetto alla conoscenza delle conclusioni, in atto rispetto a quella stessa conoscenza.

Quindi, notate bene, come l’atto dell’intelligenza è un atto eminentemente vitale. Atto vitale nel senso di una entità che muove se stessa, non però come causa sui, nel senso che essa è un’ entità, che, nella sua identità di facoltà intellettiva, è  motrice sotto un aspetto e mossa sotto un altro. E’ mossa in quanto non ha ancora la scienza delle conclusioni, è motrice in quanto ha già la scienza dei principi.

Quindi l’intelletto, riguardo alle conclusioni, riduce se stesso dalla potenza all’atto, partendo da quell’atto che è la conoscenza dei principi. Similmente la volontà, dalla volizione del fine, che è il principio nell’ordine pratico, si riduce dall’atto del volere il fine, che è accompagnato dalla potenza di volere i mezzi, all’atto di volere anche i mezzi. Notate bene. La volontà si trova in partenza in atto di volere il fine, in potenza di volere i mezzi e dall’atto di volere il fine si riduce all’atto di volere anche i mezzi.

Qui il discorso si fa un po’ difficile, però è tanto bello, è molto importante. Qui di nuovo proprio arriviamo al cuore della antropologia. Ebbene, guardate, ciò è possibile solo in quanto i principi dell’intelletto contengono in sè attualmente, notate, virtualmente, ma attualmente, le stesse conclusioni, mentre i fini[1] contengono in sé, ancora attualmente, virtualmente, i mezzi al fine.

Se volete, potete fare un collegamento con i trascendentali. Come l’essere, essendo un analogo, contiene in sé attualmente le sue differenze, tutte le sue differenze, così il bene contiene in sè tutte le sue differenze e il vero contiene in sè tutte le sue differenze.

Vedete insomma come la spiritualità umana è grande. Cioè veramente, in quanto allo spirito, lo si tocca con mano, noi siamo veramente portatori del divino. Lì non c’è distinzione[2], il Signore mi perdoni, perché poi c’è una grande distinzione per quanto riguarda l’entità dell’uomo. Capitemi bene. Perchè Dio Creatore è infinito Essere. Noi siamo finiti esseri, molto finiti, è bene che lo sappiamo. Eppure siamo infiniti quanto all’intenzionalità. E’ terribile questo.

Riguardo alla apertura al bene e al vero, siamo veramente infiniti, sotto quell’aspetto, e siamo quindi portatori di una infinita attualità intenzionale. Però, questa infinita attualità intenzionale non è infinita quanto all’essere fisico[3]. Ecco perchè c’è il passaggio dalla potenza all’atto quanto all’essere. Pensate a questo, miei cari.

Poi, appunto, questo si collega con l’ultimo articolo. Cioè S.Tommaso si chiede se la volontà sia mossa da un principio esterno; poi se dai corpi celesti, questo lo lasciamo stare, l’astrologia, e via dicendo; e poi se da Dio. Ovviamente il principio esterno, che muove la volontà, è Dio. Cioè la volontà è mossa da se stessa e nel contempo da Dio. Solo due cause muovono la volontà dal di dentro: la volontà stessa, che muove se stessa; e Dio, che la muove dal di fuori. Entrambe le cause sono necessarie. 

Vedete come ciò si collega con il discorso del glorioso confratello Domingo Bañez, che Dio lo benedica. Adesso mi schiero a favore dei nostri cari confratelli nella lite con i molinisti e suareziani. L’affermazione della premozione fisica, anche e soprattutto per gli atti liberi, non è bañezianismo, ma è tomismo, e della più pura e limpida specie.

Quindi, la volontà presenta questo duplice aspetto: in quanto è intenzionalmente infinita, contiene già in sè quell’atto, che le permette di ridursi dalla potenza all’atto. In quanto il fine contiene già i mezzi, la volontà è in grado di ridurre se stessa dalla potenza circa i mezzi, in atto circa i mezzi, supponendo però che sia in atto circa la volizione del fine.

E questo vuol dire che la volontà, in qualche modo, è partecipe di una infinita intenzionalità nei riguardi del bene, quel bene che contiene in sè tutte le sue sfumature. E quindi la volontà è in grado di attuarsi circa ogni bene particolare, intenzionalmente.

 Quanto all’essere, l’atto di volizione è una entità finita. E quindi ha bisogno di una premozione, di un qualcuno che dia l’essere a quell’essere partecipato, che è appunto la volizione nuova, che si verifica in noi.

Quindi, la volontà è una causa, che muove se stessa, ma non è la causa prima, nel senso di entità fisica. Ha bisogno quindi di essere premossa e non può essere premossa, ovviamente, se non appunto da Dio, per il fatto che, lo studierete in particolare nel sesto articolo, come l’atto naturale delle facoltà, diciamo, di agenti naturali non può essere dato se non da Chi ha istituito la natura delle cose, così l’atto volitivo non può essere causato se non da Chi ha istituito la volontà stessa, ha creato la volontà stessa.

Altrimenti si tratta di un influsso esterno a cui la volontà può in qualche modo anche acconsentire, però sempre comunque esterno. Invece, per muovere una realtà dal di dentro è necessario che la realtà o muova se stessa oppure che sia mossa, sì, da qualcosa di distinto da essa, ma in tal caso quel qualcosa distinto da essa deve essere l’origine stessa della natura o, in questo caso, della natura dotata di volontà.

Per la volontà ciò vale ancora di più, proprio perché la volontà è ordinata al fine ultimo. E all’ordine dei fini corrisponde l’ordine degli agenti. Quindi, solo il primo agente, il Creatore, può ordinare la volontà al fine ultimo, che è ancora Lui stesso. Per di più, la volontà è una facoltà spirituale. Quindi, ancora una volta un argomento a fortiori. Solo da Dio la volontà può essere creata, e quindi solo da Dio la volontà può essere premossa. Però notate che ciò vale per ogni agente naturale. L’azione naturale, la premozione all’azione naturale, deriva sempre e solo dal Creatore della natura. Va bene questo discorso, miei cari? Meditatelo bene.

Riguardo alla premozione, mi è stata fatta anche una domanda interessante riguardo al male, che ci può essere nelle azioni umane. Notate bene. In questa premozione Dio ovviamente determina tutto ciò che c’è di buono e di essere nell’atto umano, mentre le particolari applicazioni in qualche modo sono tutte dovute alla causalità seconda dell’uomo, che determina se stesso tramite la sua volontà.

Quindi, in qualche modo, Dio dà l’essere all’atto umano, ma la particolarità dell’essere, la determinazione all’essere tale o tal altro, spetta effettivamente alla volontà, seppure, dirà poi S.Tommaso, talvolta Dio muova efficacemente o effettivamente anche alla particolarità dell’atto. Per esempio, a un atto chiaramente buono, come fa quando influisce tramite la grazia attuale.

Ma queste sono circostanze molto particolari, Ut in pluribus, nel cosiddetto concorso divino generale, Dio semplicemente premuove all’entità dell’atto. Invece la taleità dell’atto dipende all’uomo. Quindi, se è buona è tutto merito dell’uomo, ma se è cattiva è tutto demerito dell’uomo.

Vi ringrazio del vostro benevolo ascolto, che il Signore vi benedica e vi faccia fare tanto begli esami adesso in questo periodo di transizione da un semestre all’altro. E noi ci vediamo poi appunto in febbraio.

Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

Amen.

Agimus Tibi …

Amen.

In nomine Patris et …

Amen.

Di nuovo arrivederci e buon lavoro.

Padre Tomas Tyn, OP

 Registrazione a cura di Amelia Monesi - Bologna, 27 gennaio 1987

Trascrizione di Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 28 febbraio 2014

Testo rivisto con note da P. Giovanni  Cavalcoli, OP - Varazze, 31 luglio 2015

P. Tomas Tyn, OP

Immagine da Internet

Ovviamente la volontà si muove solo là dove l’intelletto pratico presenta una realtà come buona. Però può essere presentata come buona anche una realtà, che non lo è. È la scorciatoia del sillogismo del peccatore. Esemplifico con un argomento che riguarda i cibi.

Quando il medico prescrive: non devi mangiare molti dolci, eccetera. Ma uno si ferma, qui a Bologna, dove ci sono di quei negozietti, che veramente fanno venire l’acquolina alla bocca. 

 

 

Ebbene, se uno poi si lascia travolgere dalla passio, allora succede che effettivamente in tal caso il suo intelletto pratico gli presenta come buono, ciò che obbiettivamente buono non è, quando il medico dice: figliolo, proprio non giova alla tua salute.

Però è necessario, affinchè la volontà si muova, che l’oggetto le sia presentato come buono. Quindi si può dire che in genere la volontà tende al bene. Non però la volontà come facoltà. Ovviamente la volontà come facoltà sceglie tra il bene e il male. È chiaro. Ma è la volontà come atto di volontà, cioè il volere è sempre del bene. 

 


[1] Della volontà.

[2] I trascendentali ci avvicinano a Dio. Noi e Lui apparteniamo al  campo dello spirito.

[3] Reale, ontologico. Non siamo Dio, però abbiamo l’idea di Dio.

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