La concezione buonista del peccato - Seconda Parte (2/3)

  La concezione buonista del peccato

Seconda Parte (2/3) 
 

Il buonismo fraintende il rapporto fra il peccato e la grazia

Il buonismo è la soluzione soporifera e pseudoconsolante del famoso dramma del giovane monaco Lutero, angosciato dal terrore di non sapersi liberare dal peccato, neppure con la confessione e con le più aspre penitenze.  Egli prese troppo sul serio certi passi della Scrittura, che sembrano alludere al fatto che a causa dell’orgoglio nascosto l’uomo non può sapere se è approvato o disapprovato da Dio. Fraintende inoltre il concetto paolino della predestinazione, come se noi fossimo giudicati da Dio non secondo giustizia e verità, ma secondo una volontà senza motivo e senza ragione.

Il buono non può attendersi il premio e il malvagio non ha da temere il castigo, perché Dio, che fa quello che vuole, si riserva di agire così da castigare il buono e da premiare il malvagio. Dunque un concetto errato della libertà divina, separato dalla verità e dalla giustizia.

Dio è libero di contraddirsi e di smentirsi perché la sua libertà lo renderebbe superiore al principio di non-contraddizione[1], «al di là del bene e del male», come dice Nietzsche. Lutero, con Ockham, non capiva che l’identità o determinazione dell’ente è proprietà dell’ente, per cui Dio, sommo ente, è somma identità. Egli quindi non è soggetto come noi al principio di non-contraddizione, ma ne è il fondatore.

Inoltre Lutero aveva ereditato da Ockham il concetto di un Dio come pura volontà estranea alla ragione, quindi un Dio che giudica, premia e condanna non in base alla verità, ma soltanto alla volontà, una volontà non fondata sulla verità, ma solo su stessa. Da qui l’impossibilità di una comunicazione e comunione dell’uomo con Dio sulla base della verità. L’uomo si sente giudicato da un Dio tirannico che non dà alcun motivo ragionevole di quello che fa, ma che agisce crudelmente senza alcun motivo.

Tale concezione di Dio si basa su di una idea dell’essere, per la quale non esiste alcuna somiglianza fra l’uomo e Dio. L’uomo non è affatto un’immagine di Dio, ma Dio è del tutto estraneo all’uomo e l’uomo non è soggetto a Dio come a un Padre, ma ad un despota nemico dell’uomo, voglioso solo di dominare sull’uomo, un Dio che ha il gusto di colpevolizzare l’uomo, un Dio non salvatore, ma invidioso distruttore e accusatore, un Dio il cui essere non è analogo al nostro, ma equivoco, per cui la sua condotta nei nostri confronti è irrazionale ed inaffidabile. Così Lutero confondeva l’insondabilità dei decreti divini con un inesorabile terrorizzante destino schiettamente pagano, che ci sovrasta e schiaccia, senza che abbiamo alcuna via di scampo.

Ma che Dio è mai questo? Come Lutero non si accorse che questo falso dio in realtà è il demonio? È vero che Dio può apparirci sotto l’aspetto del demonio, sub contraria specie, come dice Lutero, e viceversa. Il che suppone, grazie a Dio, che anch’egli sapeva distinguere, perché se mi accorgo di confondere, è perché so distinguere.

Lutero, per trovare la pace dell’anima avrebbe potuto e dovuto accontentarsi dei tre segni per mezzo dei quali, come insegna San Tommaso[2], possiamo congetturare di essere in grazia: il dilettarsi delle cose divine, il disprezzo delle mondanità e il non avvertire la presenza di colpe nella propria coscienza. Infatti Lutero amava molto la Parola di Dio, era mosso da una profonda ansia riformatrice, e praticava un’ascesi severa. Come mai non sentiva la grazia nella sua anima? Perché aveva così terrore di non essere in grazia?

È chiaro che, dato che al cristiano nulla interessa maggiormente che essere in grazia, nulla desidera più ardentemente che sentire la dolcezza della grazia, come dice il Salmista: «al mattino fammi sentire la tua grazia» (Sal 143,8; cf anche 90,14 e 119,76), nulla teme maggiormente che il non essere in grazia, è supremamente interessato a sapere quando è in grazia e quando non è in grazia, come a dire quando è in stato di giustizia davanti a Dio e quando è in stato di peccato, onde recuperare quanto prima la grazia nel caso l’avesse perduta col peccato.  

La grazia gli assicura una vita soprannaturale di partecipazione alla vita divina nell’esercizio delle tre virtù teologali della fede, della speranza e della carità, nonché di essere guidato e mosso dallo Spirito Santo, orientato ad un fine ultimo soprannaturale, la visione celeste del Dio Trinitario, fine ben superiore a quello delle virtù naturali, che è Dio amato dalla semplice volontà naturale. Egli pertanto tiene supremamente all’esercizio delle virtù teologali, che egli preferisce alle semplici virtù umane o naturali, per quanto esse siano presupposte all’esercizio delle tre virtù teologali.

Per questo San Bonaventura insegna che la grazia, presente nell’anima, è sentita con un senso spirituale, che egli paragona al toccare, mentre Tommaso parla di un gustare, riferendosi al Salmo: «gustate e vedete quanto è buono il Signore» (Sal 33,9). Per questo San Tommaso insiste sul dono della sapienza, che viene da sapere, aver sapore.

Il sapiente, l’esperto nella grazia, il mistico, per Tommaso, è una persona saporita, che ha sapore, ma che nel contempo discerne i sapori e dà sapore agli altri.  Non è un sale insipido, ma un sale che dà sapore, che offre pranzi gustosi. È una persona che sa gustare, se ne intende, un buongustaio nelle cose dello spirito. Rende saporose e appetibili le cose dello spirito, e noiose, mostra come sono insignificanti e disgustose le vanità terrene e mondane. In questo senso comunica la grazia, trasmette la grazia, fa sentire la grazia, ottiene la grazia per sé e per gli altri.

Un inno di compieta, rivolgendosi a Dio, dice: «Te per soporem sentiant». S.Agostino, ricordando l’esperienza della sua conversione, si rivolge a Dio dicendogli: «mi hai toccato». L’esperienza mistica, come spiega il Padre Ambroise Gardeil, è l’esperienza di questo essere toccati da Dio o dalla grazia[3]. Per questo Agostino afferma: «est sensus et animae».

C’è tuttavia chi, come Rahner, prendendo a pretesto l’ineffabilità e la misteriosità della grazia,  sostiene che nel fare l’esame di coscienza, è impossibile sapere con certezza se l’anima si trova in stato di peccato mortale, salvo poi ad affermare un’«esperienza della grazia».

Per uscire da questa incertezza, Rahner consiglia di credersi senz’altro in grazia, come faceva Lutero, anche se la coscienza ci dovesse rimproverare per una colpa mortale, egli che pure assolutizza la coscienza quando gli fa comodo o per ribellarsi al Magistero della Chiesa. Ma questo non è altro che un vergognoso approfittamento della bontà divina e della Chiesa; questa non è altro che ipocrisia. Come posso ritenermi innocente, se la coscienza mi rimprovera?

Infatti Rahner da una parte si mostra troppo scettico nel sapere se siamo o no in grazia, e questo può far comodo per essere esentati dalle nostre responsabilità; ma dall’altra parte assicura che noi possiamo sempre sperimentare l’essenza della grazia in noi, cosa che torna comoda alla nostra ambizione ad essere infallibili e sempre santi con poca spesa.

D’altra parte, si può parlare di un’esperienza della grazia con riferimento ai suoi meravigliosi effetti nella nostra vita. Il primo effetto della grazia, la cosiddetta grazia preveniente, che pure Lutero conosceva, è quello di illuminare la nostra mente con la verità di fede[4]; illuminata la mente, Dio volge la nostra volontà da cattiva perché schiava dell’errore, a buona, perché avendo scoperto il vero bene, Dio, Lo ama. È questo il processo della giustificazione.

Da questo momento l’anima comincia a desiderare Dio non più come semplice sommo bene desiderato dalla ragione e dalla volontà naturale, ma Dio in quanto Trinitario, rivelato dalla fede e amato dalla carità. Dio non è più solo il fine ultimo naturale: conoscere l’essenza della causa prima, ma diventa un fine ultimo soprannaturale: «vederlo faccia a faccia».

Certo l’uomo continua ad essere un debole peccatore, ma, nei momenti di bisogno, di angoscia, di tristezza, negli insuccessi, nelle delusioni, nelle amarezze, nel dubbio, nell’esperienza della propria impotenza, nella paura della morte, nel fallimento, nelle sventure, nelle pene della vita, nello smarrimento, nell’abbattimento, nello sconforto, nella confusione per la coscienza del proprio peccato, quando è vinto dalla passione, quando è abbandonato da tutti, sa a chi rivolgersi e che cosa chiedere con ferma fiducia di ottenere: il soccorso della grazia.

Ed essa viene immediatamente, ed anche in sovrabbondanza, più di quello che avevamo chiesto, immaginato e sperato, almeno se chiediamo beni utili al nostro cammino di salvezza. Questa è l’esperienza cristiana. La grazia, come dice Papa Francesco, è anche una sorpresa, perché arriva improvvisamente e inaspettatamente, non richiesta.

Certo anche la sventura arriva così. Ma ecco che, se noi chiediamo subito l’aiuto del Signore, esso arriva immediatamente, almeno per alleviare la sofferenza, far accettare  e sopportare la prova, in unione a Gesù crocifisso.

Il Concilio di Trento precisa comunque che il punto da tener presente per non cadere nella presunzione e nell’illusione, è che non si tratta di sapere per fede di essere in grazia, ma occorre accontentarsi dei segni o indizi elencati da Tommaso[5], segni che peraltro si riferiscono ad un contatto immediato affettivo con Dio, senza l’aggiunta di concetti a quelli di fede, come spiega il Gardeil[6], in forza del dono della sapienza.

È interessante la distinzione tra l’essere in grazia e l’avere la grazia. Essere in grazia è una qualifica del nostro essere, è un innalzamento del nostro essere; è l’essere figli di Dio, simili a Cristo; vuol dire essere divinizzati, partecipando all’essere divino del Figlio; è quella che gli Orientali chiamano theosis: assomigliare a Cristo.

Avere la grazia evidenzia invece la differenza tra la nostra natura creaturale e la grazia, un bene in nostro possesso, bene che si aggiunge come accidente alla nostra natura, ma che è di essenza divina. È tuttavia bene creato, tanto è vero che col peccato abbiamo la possibilità di distruggerla.

Se la grazia fosse Dio, come crede Rahner, noi non potremmo distruggerla e perderla, come non si può distruggere Dio. E per questo Rahner è formalmente coerente quando dice che non perdiamo mai la grazia, benchè sia oggettivamente cosa falso.

Lutero aveva ragione quando diceva che la grazia è extra nos[7], perché è divina e noi non siamo Dio, ma sbagliava nel negare che essa perfezioni la nostra natura, sicchè il peccato è realmente tolto[8], resta certo la concupiscenza. Ma essa, come spiega il Concilio di Trento, non è peccato, bensì solo tendenza al peccato, tendenza che noi possiamo frenare non peccando appunto con l’aiuto della grazia. 

Nel possesso e nell’esperienza della grazia non si tratta dunque, come sostengono gli ontologisti, sotto pretesto di un’intuizione dell’essere, di una visione immediata del divino e tuttavia si tratta di una dolcissima pregustazione terrena di questa beatitudine celeste.

Come mai Lutero non ne parla? Non ha mai fatto questa esperienza? Se si era fatto monaco, sarà ben stato per aver avuto con Cristo un incontro di grazia! E come certo capita di allontanarci da Lui col peccato, piena è la nostra libertà di tornare a Lui, solo che lo vogliamo, mentre Egli ci attende sempre a braccia aperte come il padre del figliol prodigo.

 Se dunque Lutero curava tanto la pratica del confessionale, come mai quella convinzione terrorizzata di restare in peccato? Esigeva troppo da Cristo? O troppo da se stesso? Esigeva una conoscenza troppo sicura del suo stato davanti a Dio. E Cristo, da parte sua, ci si fa sentire, ma noi dobbiamo avere l’umiltà di accettare una certa lontananza, una certa incertezza, perché siamo qui ancora peccatori e non siamo ancora in paradiso; non siamo ancora salvi. C’è dunque probabilmente in Lutero una reale mancanza di umiltà, sotto l’apparente umiltà di riconoscersi peccatore.

Senonchè la detta esperienza della grazia è accessibile a qualunque anima in grazia. D’altra parte, liberarsi dallo stato di peccato mortale è del tutto in nostro potere mediante la Confessione. E come mai dopo la confessione Lutero si sentiva ancora in colpa?

Non sopportando ulteriormente questo stato d’animo, Lutero credette a un certo punto di ricevere la famosa rivelazione da Cristo che si sarebbe salvato, purchè avesse creduto per fede di salvarsi. Ora il Concilio di Trento non esclude che Dio conceda ad alcune anime privilegiate di sapere non congetturalmente ma con totale certezza di essere in grazia. Ma Lutero pretese di più, ossia una certezza di fede, cosa che il Concilio di Trento escluse, perchè le verità di fede sono solo quelle contenute nel Simbolo.

 Lutero crede di poter uscire dalla sua angoscia adottando, come gli contesterà il Concilio di Trento, una falsa e presuntuosa confidenza in Dio, priva del timore di Dio. È vero che San Giovanni dice che l’amore scaccia il timore, ma Giovanni non intende assolutamente scacciare il timore di Dio, che, come dice più volte la Scrittura, è l’inizio e il culmine della sapienza, perché il detto santo timore ci dà il senso del nostro rapporto con Dio e ci mantiene nel giusto posto davanti a Lui, infondendo per Lui quel sacro rispetto che ci consente di obbedire religiosamente ai suoi comandi, di fare attenzione a non peccare e di temere di offenderlo con la conseguenza di meritare i suoi castighi.

Per la Bibbia il paradigma del peccatore, candidato alla dannazione, è precisamente la figura dell’uomo spavaldo che non teme Dio, ma semmai teme gli uomini. Il buonista è il paradigma del voltagabbana e dell’opportunista che non teme di offendere Dio, ma quegli uomini potenti e influenti, dai quali si attende una felicità puramente terrena e mondana.

Per i buonisti tutti si salvano

Il buonismo è nato da questa convinzione luterana di salvarsi senza meriti, legata al rispetto umano, sotto l’appoggio di un Dio connivente e compiacente, falsamente misericordioso, convinzione estesa poi da Origene, Schleiermacher, Von Balthasar e Rahner a tutta l’umanità.

Se il Deus absconditus luterano resta il Dio arbitrario e volontarista di Ockham, il Dio che vuole tanto il bene come il male, il Deus revelatus, che sarebbe Cristo, il «Dio-per-me», lascia che io faccia tutto quello che mi pare, tanto Gli va sempre bene.

Per questo, ogni azione dell’uomo, per il buonista, è buona e santa, è compiuta in grazia di Dio. E la grazia di Dio non è una qualità o un accidente contingente dell’anima, che si acquista e si può perdere, ma è un esistenziale permanente e necessario dell’uomo concreto. Non è un dono di Dio distruggibile col peccato; ma è Dio stesso. Per questo, per il buonista, l’uomo in grazia è Dio. Sopprimere la grazia, vorrebbe dire sopprimere l’uomo e Dio.

Ma nel contempo ogni azione dell’uomo è peccato mortale, come già sosteneva Lutero. Questo, certo il buonista non lo dice apertamente, per non apparire in contraddizione. Lutero non aveva paura di questa contraddizione, perché per lui la giustificazione non è reale, ma è una semplice dichiarazione di giustificazione. Dio vede che l’uomo è peccatore, ma fa finta di non vedere, non ne tiene conto. Volge lo sguardo altrove, guarda alla giustizia di Cristo.

È chiaro che se tutti sono in grazia, il peccato, se i buonisti ne vogliono ancora parlare, resta solo un nome vuoto di senso, giacchè il peccato si oppone alla grazia come la morte si oppone alla vita. Ma ecco che qui abbiamo il paradosso del buonismo, che da una parte il male è identificato con la sofferenza, per cui per liberarsi dalla sofferenza, non ci si ritrae dal peccato, fino a giustificare l’eutanasia o l’aborto o il suicidio, mentre d’altra parte si pone un limite alla bontà divina col farla convivere col peccato, con la sofferenza e con la morte. E se anche il ladro o l’assassino o lo stupratore o il tiranno sono in grazia e perdonati, possono continuare tranquillante nella loro condotta perversa, sicuri dell’impunità.

I buonisti guastano il dogma della Redenzione

I buonisti interpretano l’opera salvifica di Cristo prescindendo dal sacrificio redentivo e sostituendolo con la passione del profeta e del martire della giustizia, che non retrocede neppure davanti alla prospettiva della morte. Un simile rifiuto del sacrificio cultuale ha le sue radici nella concezione kantiana della religione[9], per la quale Dio non è un ente reale in sé esterno alla ragione, creatore della ragione, ubi ipsum lumen rationis accenditur, per dirla con San Agostino. Per questo, per Kant la religione non è basata sull’obbedienza a comandi divini e in particolare non comporta l’esecuzione di doveri verso Dio, culminanti nell’offerta di sacrifici cultuali espiatori[10].

Dal che si comprende come per Kant il sacrificio di Cristo non va inteso come sacrificio espiatorio e redentivo teso a soddisfare a Dio per i nostri peccati, ma secondo lui la morte di Cristo non ha avuto altro significato per noi che darci l’esempio di esecuzione del proprio dovere morale anche a costo della vita.

Infatti, per Kant, dato che per lui Dio non è altro che l’idea unificante suprema della ragione, con la quale e nella quale la ragione unifica tutto il molteplice dell’esperienza e delle categorie, la religione non comporta un rapporto con un Dio personale realmente esistente fuori del soggetto razionale, ma non è altro che la religiosità, ossia la coscienziosità, rettitudine, fermezza ed onestà con le quali la ragione rappresenta antropomorficamente i suoi doveri raffigurandoli per comodità immaginativa come comandi ricevuti da Dio, inteso come entità personale.

Il Padre celeste, secondo Lutero ripreso dai buonisti, ha chiesto conto solo a Gesù Cristo, il quale ha pagato col suo sangue, per cui il debito del peccato ci è rimesso gratuitamente. Noi non abbiamo nessun’opera riparatrice da fare e possiamo, fragili come siamo continuare tranquillamente a peccare sapendo che comunque il peccato è inevitabile, che Dio non ne tiene conto e che il Padre ci ha promesso di salvarci purchè crediamo che ci salverà. Vogliamo non credere alle promesse divine?

Per i buonisti, eredi liberali di Lutero, Dio non esige da noi nessuna espiazione, nessuna riparazione, nessun sacrificio, ma con tutto ciò ci garantisce che saremo salvi. Oggi i rahneriani hanno peggiorato l’eresia di Lutero con l’aggiungere che anche Cristo non ha compiuto alcuna espiazione, non ha dato al Padre nessuna soddisfazione al nostro posto, non si è affatto sacrificato per la remissione dei peccati. Il suo sangue non è prezzo del nostro riscatto, ma semplicemente sangue di un martire. La sua morte non è stata affatto voluta dal Padre per la nostra redenzione, ma soltanto dai suoi uccisori. Semplicemente Cristo è l’esempio del buon cristiano.

Il buonista, nell’opera della redenzione rintraccia giustamente un aspetto di amore e di misericordia, che è fondamentale, ma non è il solo. Egli infatti sbaglia quando esclude che sia stata anche, seppur secondariamente, un’opera di giustizia per compensare il Padre per l’offesa ricevuta dal peccato.

Rahner pensa che l’uomo si riconcili con Dio solo perchè Dio incondizionatamente ama l’uomo senza esigere alcuna riparazione. Ma secondo il dogma della redenzione, le cose non stanno così, e del resto c’è una logica nel processo della giustificazione: se io ho fatto un torto ad un amico, non posso pretendere di riavere il suo affetto e che egli torni in pace con me senza riparare al danno che gli ho fatto, cosa che appunto dimostra il mio dispiacere e il mio pentimento. Allora e solo allora egli mi perdonerà e tornerà ad essermi amico. Similmente Dio, secondo quanto dice la Scrittura, si comporta con noi.

Se poi badiamo a come le cose vanno in senso proprio, metafisico, occorrerà dire che non è Dio, ma siamo noi che dobbiamo riconciliarci con Lui, non è Dio che deve placare la sua ira, ma siamo noi che dobbiamo placare la nostra; giacchè Dio, anche se offeso, non smette di amarci, ma siamo noi che, pagando il nostro debito in Cristo, recuperiamo la sua grazia e possiamo e dobbiamo riprendere ad amarlo.

Del resto, anche il concetto di «offesa a Dio» ha un significato solo metaforico, se è vero che chi offende toglie qualcosa all’offeso. Ora, a pensarci bene, cosa mai il peccato può togliere effettivamente a Dio, che debba essergli restituito o così che debba essere risarcito? Egli che ontologicamente nulla può perdere o di cui possa essere privato?

Del resto, dicono i buonisti, Dio non è un esattore delle tasse, ma un donatore munifico. Non è il professore che dà il bel voto al bravo studente, ma è la Verità che tutti illumina. Non impone doveri, ma solo chiede amore. Non è il padrone che paga l’operaio, ma il buon samaritano che si piega con compassione sul viandante ferito. Non minaccia castighi, ma solo promette salvezza.

Per il buonista tutti dunque sono peccatori perdonati e quindi in grazia. Tutti quindi sono fondamentalmente buoni, tendono a Dio e si salvano, perché Dio vuole che si salvino tutti. Non bisogna quindi condannare nessuno, ma lasciare ognuno la libertà di regolarsi come vuole, secondo coscienza, perchè Dio e la Chiesa accolgono tutti.

Il peccatore dev’essere accompagnato, non corretto; compassionato, non rimproverato. Cristo è venuto per salvare, non per condannare. Dio è tenerezza, non severità. Il mondo dev’essere amato e non odiato, perché Cristo ha dato la sua vita per salvarlo. Non dev’essere fuggito, ma salvato.

Ora, se il peccato è semplicemente un atto ispirato da una morale diversa dalla mia, per quale motivo dovrei oppormi alla diversità? Non è forse una ricchezza? La vita è bella perchè è varia. E se ho diritto io a seguire la mia morale, perchè l’altro non dovrebbe avere diritto a seguire la sua? Questa è la teoria buonista dei diritti umani.

Ciò che per me è peccato, per lui è bene. E così pure ciò che per me è bene, per lui è peccato. Facciamo allora una cosa: basta con questo discorso sul peccato, che ci porta a condannarci stoltamente a vicenda e a negare l’uno all’altro la libertà di comportarsi come vuole. Evitiamo di fare ciò che per noi è peccato, ma non giudichiamo peccato ciò che fanno gli altri in contrasto con la nostra morale.

Come noi siamo in buona fede e liberi di seguire la nostra morale, così dobbiamo supporre che siano in buona fede gli altri nel seguire la loro morale e pertanto lasciamoli liberi di farlo, come loro lasciano liberi noi. Il buonista, oltre ad essere un relativista, è un liberale: l’importante per lui non è fare questo o quello o evitare questo o quello. L’importante è esercitare il libero arbitrio. Per lui la libertà non è libertà dal male, perchè egli non fa mai niente di male; non è il giusto esercizio del libero arbitrio nell’obbedienza a una legge universale, ma è il semplice esercizio del libero arbitrio conformemente alla propria concezione del bene e del male.

Alla fine il buonista non solo non lotta contro il peccato in lui e negli altri, ma diventa promotore del peccato, in quanto crede che tutti siano buoni, sicchè promuove ed approva che ognuno si comporti come gli pare, anche se per lui peccano. Ma in realtà – così egli ragiona o meglio sragiona - quello che fanno è peccato solo per lui. E quindi lasciamoli in pace, abbiamone rispetto. Dal loro punto di vista essi fanno sempre bene. Se si comportano così è segno che per loro va bene così. Lasciamoli liberi e abbiamo fiducia.

In tal modo il buonista eventualmente rifiuta nella sua condotta l’aborto o il divorzio o la sodomia o il furto o l’assassinio, ma se vede compiere queste cose negli altri, le approva mettendosi dal punto di vista degli altri, e ciò dando prova di una mentalità aperta al pluralismo e alla diversità, dando spazio per tutti. Il suo è un pensiero, come si dice oggi, «inclusivo» e in tal senso il buonista dice che la Chiesa accoglie tutti.

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli 

Fontanellato, 27 settembre 2022

I buonisti interpretano l’opera salvifica di Cristo prescindendo dal sacrificio redentivo e sostituendolo con la passione del profeta e del martire della giustizia, che non retrocede neppure davanti alla prospettiva della morte.

Per i buonisti, eredi liberali di Lutero, Dio non esige da noi nessuna espiazione, nessuna riparazione, nessun sacrificio, ma con tutto ciò ci garantisce che saremo salvi. Oggi i rahneriani hanno peggiorato l’eresia di Lutero con l’aggiungere che anche Cristo non ha compiuto alcuna espiazione, non ha dato al Padre nessuna soddisfazione al nostro posto, non si è affatto sacrificato per la remissione dei peccati. Il suo sangue non è prezzo del nostro riscatto, ma semplicemente sangue di un martire. La sua morte non è stata affatto voluta dal Padre per la nostra redenzione, ma soltanto dai suoi uccisori. Semplicemente Cristo è l’esempio del buon cristiano.

 

Il buonista, nell’opera della redenzione rintraccia giustamente un aspetto di amore e di misericordia, che è fondamentale, ma non è il solo. 

Egli infatti sbaglia quando esclude che sia stata anche, seppur secondariamente, un’opera di giustizia per compensare il Padre per l’offesa ricevuta dal peccato.


 

Immagini da Internet:
- Il Polittico di Gand, Adorazione dell’Agnello Mistico
- Il Polittico di Gand, Vergine Maria





[1] Questo è il senso della dialettica hegeliana della contraddizione. Come già aveva detto il Cusano, il principio di non-contraddizione vale per noi, non per Dio, il quale è libero di fare quello che vuole senza dover render conto a noi, che dobbiamo dargli sempre ragione, confidare di Lui e fidarci di Lui. Se Dio dice che 2+2=3, dobbiamo dire che è vero. E la bontà e sapienza divine dove vanno a finire? Dio vuole delle creature intelligenti, non vuole menarci per il naso e non vuole dei leccapiedi o collitorti.

[2] Sum. Theol., I-II, q.112, a.5.

[3] La structure de l’âme et l’expérience mystique, Librairie Victor Lecoffre – J.Gabalda Éditeur, Paris 1927, vol.II, pp.240. 251, 255, 262.

[4] Questo avviene col Battesimo.

[5] Sum. Theol., I-II, q.112, a.5.

[6] La cosiddetta Turmerlebnis, l’esperienza della torre, luogo di un castello della Wartburg in cui egli si trovava attorno al 1513, nel quale appunto egli credette di ricevere da Cristo quella rivelazione. Da notare fra l’altro la confusione che Lutero fa tra rivelazione pubblica e rivelazione privata, elevando questa al livello di quella. Sarà questo un principio fondamentale del soggettivismo protestante: «quello che penso io deve valere è per tutti, perchè Dio è in me e me l’ha rivelato». Su cosa basa Cartesio la verità relativa alla realtà esterna? Sul fatto che glie l’ha rivelata Dio. Hegel non identifica la ragione con la rivelazione? Ed Heidegger non fa lo stesso? Che cosa è la rivelazione dell’essere in Severino?

[7] Ma con questa famosa espressione Lutero intendeva non solo dire che la grazia è al difuori di noi, il che va benissimo, ma anche che la giustizia divina coincidente qui con la misericordia (Rm 3,21) ovvero la grazia è solo la giustizia di Cristo redentore, per cui non diventiamo realmente giusti, non diventa la nostra giustizia, sia pur per partecipazione, ma Dio ci dichiara giusti guardando Cristo, senza che noi lo siamo veramente, come denuncia il Concilio di Trento. Si è parlato di «giustificazione forense», ma non è esatto. Per Lutero Dio non fa una dichiarazione legalmente fittizia (fictio iuris), come sarebbe per esempio il dichiarare per accordo sindacale che un operaio merita lo stipendio anche se è in ferie, per cui si finge legalmente che sia al lavoro, ma fa una dichiarazione falsa. Per Lutero Dio copre i nostri peccati così come un superiore disonesto copre qualcuno perché non sia scoperto e punito. Dio condanna il peccato, ma è complice del peccato. Parliamoci con schiettezza e senza giri di parole.

[8] Salvo poi a tornare dopo un certo lasso di tempo. Ma ciò è inevitabile e non dobbiamo farne una tragedia. Fosse anche un peccato mortale, basta ricorrere alla Confessione con fiducia e serenità per esserne liberati, senza i dannosi arrovellamenti emotivi di Lutero e soprattutto non dobbiamo dire con Lutero che la confessione è inutile. Sarebbe come dire che non serve lavarsi la faccia al mattino, dato che il giorno dopo è di nuovo sporca. Dobbiamo certo dolerci di peccare, ma dobbiamo ancor più credere che la grazia della Confessione ci purifica. È questa la vera fede salutare, non quella che si è inventato Lutero per poter peccare liberamente senza perdere il paradiso. Sapere quali peccati abbiamo fatto non è impossibile; basta guardarci dentro. Pentirsi non è impossibile: basta volerlo.

[9] Fernando Fiorentino, Filosofia e religione in San Tommaso e Kant, Editrice Domenicana Italiana, Napoli-Bari1997.

[10] La religione entro i limiti della sola ragione, op.cit., pp.80. 81,110, 126-128,131, 158. 187, 191, 199.

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