La questione della teologia negativa - Non si tratta di abdicare all’intelligenza, ma di evitare la presunzione - Terza Parte (3/3)

 La questione della teologia negativa

Non si tratta di abdicare all’intelligenza, ma di evitare la presunzione

Terza Parte (3/3)

È possibile definire l’essenza di Dio?

Considerando gli enti di questo mondo, ci accorgiamo che hanno l’essere per partecipazione. Dunque essi dipendono da un ente che è l’essere per essenza. È lo stesso essere per sé sussistente. Essi non hanno l’essere da sé, ma da altro, da un ente che ha l’essere da sé. Sono tratti da Dio dal non-essere all’essere. Sono creati.

Una volta scoperta l’esistenza di questo ente, che tutti chiamiamo «Dio», ci chiediamo qual è la sua essenza, chi è Dio. Quali sono i caratteri, le proprietà e le prerogative della sua essenza, che la rendono irripetibile, distinguibile dal mondo e da tutti gli altri enti, riconoscibile ed inconfondibile.

In base a tutti questi dati possiamo dire di poter conoscere Dio, di poter farci un concetto di Lui, che rappresenta assai imperfettamente l’essenza divina, perché questa è misteriosa ed infinita, mentre la nostra capacità di comprensione è finita.

Una volta scoperta la causa prima, occorre darne una definizione, il che è come dire dare una definizione dell’essenza o natura di Dio. Se Dio è, come dice il Concilio Vaticano I, «una singola sostanza spirituale» (Denz.3001), irripetibile, individuale, inconfondibile, discernibile e distinguibile da tutte le altre sostanze spirituali e personali, deve ben avere un’essenza propria e un nome proprio, come appunto dichiara Dio a Mosè (Es 3,14): «Io Sono Colui Che É», ovvero «Io Sono», ossia, secondo la famosa definizione di San Tommaso, l’ipsum Esse per se subsistens. Dio è l’Essere assoluto, infinito, sommo ed eterno. È, come dice il Catechismo di San Pio X, l’Essere perfettissimo.

Definire una cosa vuol dire stabilire mediante un concetto qual è il confine di quella cosa, determinarne l’essenza, stabilirne mediante una proposizione i contorni, precisare la forma di quell’essenza, di quella cosa nella sua identità, delineare in un giudizio il volto intellegibile di una cosa.

La nostra definizione di una cosa può stabilire i confini di quella cosa in due modi: o circoscrivendola ed includendola nella nostra ragione o semplicemente attingendola e lasciandola superare i confini della nostra ragione, perché il volto o la forma di questa cosa sono infiniti e oltrepassano all’infinito la capacità di comprensione della nostra ragione. Così la cosa viene intesa, viene capita, viene saputa, ma non compresa, non abbracciata, non circoscritta, non inclusa o racchiusa dentro alla nostra ragione. Ebbene, questa essenza debordante, sovrabbondante e trascendente è l’essenza divina.

Diciamo che l’essenza divina è senza confini non in se stessa, ma rispetto alla limitatezza della nostra ragione. Se in se stessa non avesse confini o contorni intellegibili o essenziali, sarebbe informe, nebulosa, indeterminata, vaga, caotica e indistinta. Ora l’essenza divina è distintissima, formalissima, intellegibilissima, precisissima. In tal senso essa non è finita, ma è determinata, ha un confine che è il confine della sua essenza. È però un confine non dove essa finisce, così da poter essere superato, perché non è finita, ma è determinata.

Per questo, tale essenza infinita è per la nostra mente finita, incomprensibile. Se la dovessimo comprendere, non sarebbe l’essenza di Dio, ma una realtà finita di questo mondo. Oppure noi dovremmo essere Dio, cosa assurda. Per questo chi è Dio in se stesso non possiamo saperlo esaustivamente, ma solo parzialmente ed analogicamente confrontandolo con le creature. Vedere l’essenza divina svelatamente e faccia a faccia è possibile solo nella visione beatifica.

Dio è conoscibile, ma incomprensibile. 

Dio dev’essere affermato ma senza presunzione di sapere quello che non possiamo sapere: ma deve essere anche negato, senza tuttavia rifiutare di sapere quanto possiamo sapere. San Tommaso accorda le polarità di questa tensione distinguendo fra il «comprendere» (comprehendere) e il «conoscere» (cognoscere) o «attingere» (attingere).

La teologia positiva ci fa conoscere Dio: quella negativa esclude ciò che a Dio non si confà. Essa nega che noi possiamo comprendere l’essenza divina tanto quanto essa è comprensibile; essa infatti contiene, al di là di quanto di essa possiamo comprendere un infinito surplus, che non ci è dato conoscere a causa della nostra finitezza. Dice Tommaso: 

 

«comprendere a volte lo si intende come sinonimo di “includere”, per cui avviene che il comprendente contenga in se stesso totalmente il compreso. A volte invece è sinonimo di “apprendere” (apprehendere) e allora dice rimozione della distanza e suggerisce l’idea della vicinanza. Nel primo modo Dio non può essere compreso da alcun intelletto creato. ... Quando l’Apostolo dice: “perché possiate comprendere”, intende dire: “aver Dio presente e conoscerlo nella sua presenza”» (Comm. In Ef 3,18, lect. V, n.176).

Tommaso riprende la stessa distinzione altrove, sempre commentando San Paolo:

 

«Il nostro intelletto può giungere alla conoscenza di qualcosa in un duplice modo e cioè o conoscendo o comprendendo. Alla comprensione di Dio il nostro intelletto non può pervenire, perché così conoscerebbe Dio come Egli è conoscibile. … Ma esiste un altro modo di conoscere Dio, ossia attingendo (attingendo) a Lui» (Comm. In I Tm 6,16, lect. III, n.269). 

 

Ancora: «comprendere significa in certo modo “includere”, così come la casa “include” chi sta dentro. In un altro senso significa “attingere” e “tenere”» – potremmo tradurre anche con “cogliere” o capire” in senso debole -. «Nel primo modo Dio è incomprensibile, perché non può essere incluso» - potremmo dire anche “contenuto” - «nell’intelletto creato, perché tu non lo vedi ed ami perfettamente, quanto egli è visibile ed amabile, in modo simile a colui che non conosce la dimostrazione: egli non conosce dimostrativamente, ma opinativamente. Nel secondo modo, ossia attingendo, Dio è comprensibile» (Comm. In Fil 3,12, lect.II, n.127). 

Nel commento al Vangelo di Giovanni, Tommaso si rifà ad Agostino:

 

«“Le tenebre non lo hanno compreso” (non comprehenderunt, Gv 1,5) significa che non poterono includerlo (includere). Si dice infatti che è compreso ciò di cui i termini sono inclusi (concluduntur) e visti (conspiciuntur); poiché, come dice Agostino (De Verbo Dom. Serm., 38), “attingere a Dio con la mente è una grande beatitudine; comprenderlo, invece, è impossibile”».

Il metodo della teologia negativa

In più occasioni San Tommaso, ispirandosi all’insegnamento di Dionigi l’Areopagita, indica tre modalità o vie per le quali il nostro intelletto può ascendere a Dio: la mente inizia con l’affermazione dell’esistenza di Dio applicando il principio di causalità. Scoperta l’esistenza di Dio, si occupa di due cose: rimuovere da Lui tutto ciò che non conviene alla sua dignità; e questa è la teologia negativa o apofatica.

In secondo luogo si devono enfatizzare al massimo le proprietà o attributi dell’essenza divina. È questa la teologia positiva o affermativa, la quale, dopo aver individuato tutte le perfezioni spirituali che possono essere attribuite a Dio, le innalza alla massima eminenza con aggettivi superlativi assoluti, come si conviene all’infinita eccellenza o trascendenza della causa prima rispetto al mondo, per cui si designa Dio come ente perfettissimo, altissimo, santissimo, sapientissimo, clementissimo, bontà, giustizia e misericordia infinite e via discorrendo. Ecco una sintesi tomistica delle tre modalità di predicazione teologica:

 

«Poiché ascendiamo a Dio partendo dalle creature rimuovendo tutte le cose (in omnium ablatione), oltrepassando (in excessu) e come causa di tutte le cose (in omnium causa), per questo Dio è conosciuto in tutte le cose, così come è separato da tutte le cose e tutte le supera, poiché tutto ciò che cade nella nostra conoscenza, lo riceviamo come provenuto da Lui; ed ancora è conosciuto per mezzo della nostra ignoranza, in quanto questo stesso è conoscere Dio, che noi sappiamo di ignorare di Dio chi Egli sia» (Comm. Al De div. Nominibus, c. VII, lect. IV, n.731). 

Tommaso propone questa triplice via parlando della conoscenza angelica:

 

«La sostanza separata. per mezzo della sua sostanza, conosce di Dio che Egli esiste, che è la causa di tutte le cose; che trascende tutte le cose; e che è separato da tutte le cose, non soltanto quelle esistenti, ma anche quelle che possono essere concepite da una mente creata. A questa conoscenza di Dio anche noi in ogni modo possiamo giungere. Tramite gli effetti possiamo infatti sapere che Egli esiste e che è causa delle altre cose, sovrastando alle altre, e separato da tutte.

 

E questo è il vertice e la massima perfezione della nostra conoscenza in questa vita, come dice Dionigi nella sua Teologia mistica, che noi ci congiungiamo a Dio come ad ignoto (quasi ignoto): il che avviene conoscendo di Lui ciò che Egli non è, mentre ciò che è ci rimane del tutto ignoto (penitus ignotum). Per cui per dimostrare tale sublimissima conoscenza per ignoranza, di Mosè è detto che entrò nella caligine nella quale era Dio (Es 20, 21)» (Contra Gentes, l.III, c.49). 

La preoccupazione di rimuovere da Dio i predicati o gli attributi che non gli si confanno è in linea di principio del tutto doverosa e legittima, perché serve a parlare di Dio il meno indegnamente possibile, a distinguere Dio da ciò che non è Dio, e quindi tiene lontano dall’idolatria e dal panteismo.

Seguendo Dionigi, Tommaso sostiene che mentre le negazioni riguardo all’essenza di Dio sono senz’altro vere, le affermazioni non sono false e tuttavia sono «incompactae», incompatte, non compatte, ossia tali per cui il soggetto non è saldamente unito al predicato della proposizione. Dice l’Aquinate:

 

«Dionigi dice che le negazioni di questi nomi sono vere quando sono riferite a Dio; tuttavia non dice che le affermazioni sono false, ma che sono incompatte (incompactas): per quanto riguarda infatti la realtà significata, si attribuiscono con verità a Dio, perché in qualche modo sono in Lui; … ma quanto al modo che esse significano, rapportate a Dio, si possono negare. Infatti, uno qualunque di questi nomi significa una forma definita, e così a Dio non vengono attribuiti.

 

E così da un punto di vista assoluto si possono negare di Dio, perché non convengono a Dio nel modo significato. Infatti il modo significato si riferisce al modo col quale quei contenuti sono nel nostro intelletto. … Ma a Dio convengono in un modo più sublime, per cui l’affermazione si dice incompatta a causa del diverso modo di significazione» (De pot., q.7, a.5, 2m). 

Quando attribuiamo a Dio qualche qualità o proprietà, dobbiamo negare che essa gli convenga nel modo col quale noi affermiamo quella qualità o proprietà nelle creature. Riprendendo il pensiero di Proclo, Tommaso afferma:

 

«“La causa prima è al di sopra della narrazione”. Per “narrazione” bisogna intendere l’affermazione, perché tutto ciò che noi affermiamo di Dio non Gli conviene secondo ciò che è da noi significato. Infatti i nomi da noi imposti significano secondo il modo col quale noi intendiamo, modo che l’essere divino trascende» (Comm. al De causis di Proclo, Prop. VI, lect.VI, n.161).

Sempre seguendo Dionigi, Tommaso presenta una serie di valori che appartengono a Dio in modo sommo, ma che nel contempo possono essere negati nel significato che noi ad essi diamo in rapporto alle creature:

 

«Come i nomi da noi imposti si possono dire di Dio secondo una qualche somiglianza che le creature hanno con Dio, così in quanto le creature sono inadeguate a rappresentare Dio, si possono negare e si può predicare il loro contrario. Per cui Dionigi dice che Dio si può chiamare Ragione come pure Irrazionalità; si dice Intelletto, ma si può dire anche Inintellegibilità; si può chiamare Parola, ma anche Innominabile; non certo nel senso che Egli sia privo di queste cose, ma per il fatto che Egli è Esistente secondo nulla di ciò che sono gli esistenti, ossia non esiste secondo il modo di nessuno degli esistenti; ed Egli certamente è Causa dell’esistenza di tutte le cose, trasfondendo in qualche modo la sua somiglianza in tutte le cose, così da poter essere nominato a partire dai nomi di tutte le cose; Egli stesso è non-esistente, non nel senso che difetti di esistenza, ma in quanto esiste al di sopra di ogni sostanza; ed è innominabile, così che Egli stesso propriamente e scientemente nomina Se stesso, ossia secondo la proprietà del suo essere e secondo la perfetta scienza di Se stesso, nel qual modo nessuno lo può nominare» (Comm. al De div. Nominibus, c. I, lect. I, n.30). 

La teologia negativa suppone tuttavia quella positiva o affermativa, la quale ci fa conoscere chi è Dio e quali sono gli attributi che gli convengono, in modo tale da conoscere qual è il soggetto dal quale escludiamo certi predicati, altrimenti, se non conoscessimo di chi stiamo parlando, il negare non avrebbe alcun significato, perché non capiremmo a che cosa esso si riferisce. Se nego una cosa di tal cosa, devo conoscere positivamente quella cosa dalla quale rimuovo quella cosa, altrimenti non sapremmo di che cosa stiamo parlando.

La teologia negativa fa quindi seguito all’elaborazione della teologia affermativa, che si basa sull’applicazione del principio di causalità, partendo dalla constatazione delle cose visibili, come è detto in Rm 1,20. Ecco allora apparire il concetto della causa prima e di tutti quegli attributi che troviamo nelle famose cinque vie di San Tommaso: il motore primo, il fondamento del mondo e la causa efficiente prima, creatore del cielo e della terra, l’ente eterno assolutamente necessario, il sommo e primo ente, l’ente altissimo, infinito e perfettissimo, il sommo bene, fine ultimo, reggitore ed ordinatore sapientissimo, onnipotente e provvidentissimo del mondo, giusto e misericordioso.

Dice San Tommaso:

 

«Il metodo della negazione si fonda sempre su qualche affermazione: il che appare evidente dal fatto che ogni proposizione negativa è dimostrata da una affermativa; per cui, se l’intelletto umano non conoscesse di Dio qualcosa affermativamente, non potrebbe di Lui nulla negare. Infatti, non potrebbe avere alcuna conoscenza, se nulla di ciò che predica di Dio si verificasse in modo affermativo» (De potentia, q.7, a.5).

Così l’Aquinate descrive la via negativa:

 

«Quando procediamo verso Dio per via di rimozione, innanzitutto neghiamo di Lui le realtà corporali, e in secondo luogo anche le realtà intellettuali così come si trovano nelle creature, come la bontà e la sapienza; e resta nel nostro intelletto soltanto che Egli è e nulla più; per questo si trova in una certa confusione.

 

Ma alla fine rimuoviamo da Lui anche lo stesso essere, così come si trova nelle creature, e allora l’intelletto rimane in una certa tenebra di ignoranza, secondo la quale ignoranza, per quanto riguarda lo stato presente, ottimamente ci congiungiamo a Dio, come dice Dionigi nel De divinis Nominibus, c.VII: questa è una certa quale caligine, nella quale si dice che Dio abita» (Comm. a I Sent., D.8, q.1, a.1, 4m). 

Da notare due cose: prima, non si tratta di negare l’essere sic et simpliciter, se no cadremmo nell’ateismo, ma l’essere limitato delle creature, per affermare quindi l’essere illimitato. Seconda: la tenebra divina non è il buio assoluto del «mistero assoluto», del quale parla Rahner, tenebra assoluta priva di qualunque rappresentazione concettuale razionale o di fede, tenebra nella quale non si capisce assolutamente niente, perché questa non è la tenebra mistica, ma quella della falsità e della perdizione[1].

La tenebra divina vuol dire che il mistero divino è luce fulgidissima per i nostri concetti, per quanto ne possiamo capire, ma nel contempo è per noi tenebra nel senso che il contenuto intellegibile infinito del mistero possiede per la nostra mente limitata, un’ulteriorità, della quale non possiamo conoscere assolutamente nulla né possiamo vederne i confini. Essere consapevoli di questa ulteriorità o trascendenza è umiltà e saggezza teologica. Ancora sulla negazione:

 

«Di negazione in negazione l’anima si solleva più in alto delle più eccellenti creature e si unisce a Dio in proporzione a quanto essa può quaggiù, perché durante la vita presente la nostra intelligenza non arriva mai a vedere la divina Essenza, ma solo a conoscere quello che non è. L’unione del nostro spirito a Dio, come è possibile quaggiù, si compie dunque quando conosciamo che Dio supera le più eccellenti creature» (Comm. al De div.Nominibus, c.XIII, lect.III).

 

«L’infinito di Dio non si predica secondo l’estensione come nella quantità continua, ma secondo la negazione, nel senso che non è finito né determinato da qualcosa; … non è determinato dal nostro intelletto: infatti è ineffabile e ignoto e tale da non poter essere pensata la virtù divina, essa che tutto comprende» (Comm. al De div. Nominibus, c. VIII, lect., n.750). 

Allorché siamo in cima alla scala di questo spogliamento e di questo saggio negare, non è che - come alcuni credono - la concettualizzazione venga superata o cessi di funzionare o diventi inutile o insufficiente a rappresentare quello che vediamo, tutt’altro! È più che mai utile e necessaria, anzi è al vertice della sua utilità per il nostro intelletto, che non può fare a meno dei sensi e dell’immaginazione, anche quando li trascende.

Infatti l’intelletto, al vertice dell’ascesa metafisica, inaugura certo il puro pensiero, che però nella vita presente, è metaconcettuale solo in Dio e non nell’uomo.  Se invece a questo punto la mente abolisce la concettualizzazione, essa non è pervasa dalla calma e pacificante luce dell’assoluto, ma avviene  un corto circuito psichico per il fatto che tutta l’energia psichica impiegata nello sforzo ascetico e che doveva essere incanalata e moderata dalla concettualizzazione, priva di questo guard-rail, si volge e si scarica violentemente su se stessa, sicchè la mente, per questa improvvisa vampata di bruniano eroico furore, prende fuoco e resta totalmente bruciata ed esausta.

Si tratta di una parodia dell’esaltazione mistica, che in realtà è un’eccitazione irrazionale psicoemotiva, uno stato alterato della mente assimilabile all’entusiasmo derviscico o al trance sciamanistico, che sembra lasciare aperto nella mente l’ingresso a forze istrionesche preternaturali.

Pretendere di comprendere esaustivamente e totalmente, di togliere o ignorare o disprezzare tale trascendenza in nome del potere del pensiero o dell’immanenza in noi del mistero divino o della nostra autocoscienza. pareggiando il nostro pensiero al pensiero divino, è superbia diabolica, è gnosticismo, è somma stoltezza e causa di perdizione eterna.

La teologia negativa è il modo filosofico migliore di parlare di Dio. Dice San Tommaso:

 

«Questo è l’ultimo termine al quale possiamo giungere circa la cognizione di Dio in questa vita: che Dio è al di sopra di tutto ciò che possiamo pensare e quindi il nominarLo per rimozione è il parlare di Lui nel modo più proprio; infatti, coloro che lodano Dio in tal modo per rimozione, per mezzo di un’illuminazione divina sono veramente e soprannaturalmente edotti di ciò grazie a una beatissima unione con Dio» (Comm. al De div.Nominibus, c.I, lect.III, n.83).

 

Esiste però un parlare superiore, che è quello della teologia rivelata, basata sulla divina Rivelazione, grazie alla quale il teologo parla facendo uso di parole non tratte dalla metafisica, ma dalla stessa Parola di Dio, come avviene anche nel Simbolo della Fede, nella Liturgia e nell’Ufficio divino. Infatti i predicati della teologia rivelata, che si riassumono nel Simbolo della Fede, sono soprattutto di carattere positivo. Essi si riassumono nella predicazione della Sacra Triade: di Dio come Padre, come Figlio e come Spirito Santo.


L’esigenza del silenzio si ripresenta tuttavia anche nella teologia rivelata e allora abbiamo la mistica cristiana o teologia mistica. Qui però, mentre l’apofatismo soggiace, come rivelazione privata, alla Parola di Dio, oggetto della rivelazione divina e della predicazione pubblica della Chiesa, l’apofatismo della mistica naturale ha maggior valore della teologia naturale, perché, come dice S.Tommaso, meglio esprime la condizione della nostra ragione nei confronti del mistero di Dio.

Ciò che di Dio sappiamo e ciò che di Lui ignoriamo 

Occorre tenersi in un punto di equilibrio fra il dire che di Dio non sappiamo nulla e il dire che il nostro pensiero autocosciente atematico coincide con l’essere assoluto. In realtà noi possiamo conoscere quaggiù nel concetto e anche vedere senza concetto in cielo l’essenza di Dio

Non si tratta peraltro solo di negare ciò che a Dio non conviene, ma anche di confessare la nostra ignoranza. Dice Tommaso:

 

«Dio ci è noto per mezzo della nostra conoscenza, perché tutto ciò che cade sotto la nostra conoscenza, lo accogliamo come proveniente da Lui» (per cui a Lui ci conduce e di Lui ci parla); «ed ancora ci è noto per mezzo della nostra ignoranza, in quanto cioè conoscere Dio è il fatto stesso di rendersi conto che noi ignoriamo di Lui chi Egli sia» (Comm. al De divinis Nominibus di Dionigi l’Areopagita, c. VII, lect. IV, n.371). Ignoriamo nel senso già visto di «non comprendere esaustivamente».

Dio si sottrae alla piena comprensione dei nostri concetti, senza tuttavia che ci sia impossibile rappresentare in qualche modo, molto imperfettamente ma veracemente la sua essenza. Dice San Tommaso:

 

«Qualunque forma il nostro intelletto concepisca, Dio sfugge (subterfugit) alla forma del nostro intelletto; non tuttavia così che il nostro intelletto non si assimili a Lui secondo alcuna forma» (De Potentia, q.7, a.5, 1m).

 

L’essenza divina è una forma, come il nostro concetto è una forma. Solo che la forma divina è come un cerchio dal raggio infinito, all’interno del quale è incluso il cerchio ovvero la forma del nostro concetto. In tal modo il raggio del nostro cerchio è superato all’infinito dal raggio del cerchio divino. In tal senso, per quanto ampliamo il raggio del nostro concetto, restiamo sempre ignoranti di ciò che sta oltre il raggio del nostro concetto. Dice San Tommaso:

 

«Dio supera sempre la nostra intelligenza e sempre resta ignorato da noi. Perciò il più alto punto a cui si solleva la cognizione umana a suo riguardo è di sapere che noi non lo conosciamo, è di capire che la sua Essenza supera tutto quello che noi possiamo pensare» (De Pot., q.7, a.5, 14m).

 

«Al termine della nostra conoscenza noi conosciamo Dio come un Ignoto, perché la mente si trova perfettissimamente nella conoscenza di Dio, allorquando sa che l’essenza di Lui è al di sopra di tutto ciò che può apprendere nello stato della vita presente; e così, sebbene rimanga ignoto chi Egli sia, resta tuttavia noto che Egli É» (Comm. a De Trinitate di Boezio, q.1, a.2, 1m).

 

«Partendo da tutti gli enti Dio è conosciuto e lodato in quanto essi hanno una proporzione con Lui, il Quale è la loro causa. Ma esiste ancora un’altra conoscenza perfettissima di Dio, cioè quella per rimozione, con la quale conosciamo Dio per mezzo dell’ignoranza, per mezzo di una certa unione con le cose divine al di sopra della mente, quando cioè la mente nostra, allontanandosi da tutte le altre cose e abbandonando persino se stessa, si unisce ai raggi soprasplendenti della Deità, in quanto cioè sa che Dio è al di sopra non solo di tutto ciò che è al di sotto di lei, ma anche al di sopra di lei e al di sopra di tutto ciò che può essere da lei compreso. E così, conoscendo Dio in questa forma di conoscenza, è illuminata dalla stessa profondità della divina sapienza, che non possiamo perscrutare» (Comm. al De div. Nominibus, c. VII, lect. IV, n.732).

 

«Nella vita presente noi conosciamo Dio per mezzo di una visione intellettuale non così da sapere chi Egli sia, ma che cosa non sia; e quanto a ciò noi conosciamo la sua essenza, intendendola posta al di sopra di tutte le cose, sebbene tale conoscenza avvenga per mezzo di alcune similitudini» (De veritate, q.10. a.11, 4m).

 

La teologia rivelata

Dio si fa riconoscere. Ha un volto inconfondibile. È una Persona che ci sta di fronte, che si rivela e ci parla, e con la quale possiamo interloquire, alla quale possiamo aprire con fiducia il nostro animo, certi di essere capiti, compresi ed esauditi.

È impossibile parlare con una persona senza riconoscerla e senza sapere chi è. Dunque in realtà di Dio sappiamo benissimo chi è e come riconoscerlo, come non scambiarlo per una creatura o per noi stessi. Ecco la teologia negativa. Sappiamo bene quando parliamo da noi stessi o quando parliamo col prossimo o con Dio. Distinguiamo bene ciò che emerge da noi stessi, dal nostro inconscio, ciò che ci viene dal prossimo, uomo o angelo e ciò che ci viene da Dio. La voce di Dio è ben differente dalla voce del prossimo.

Quando San Tommaso dice di Dio che non sappiamo chi è e che la sua essenza ci resta del tutto ignota; quando dice che il sapere supremo su Dio è sapere che non lo conosciamo e che lo troviamo solo nelle tenebre della ignoranza e della teologia negativa, quando dice che non possiamo farci un concetto o una rappresentazione dell’essenza di Dio, intende riferirsi alla comprensione esaustiva dell’essenza divina, la quale, essendo infinita, evidentemente non può essere inclusa nel nostro intelletto finito.

Ma Tommaso non esclude affatto la possibilità di vedere immediatamente e svelatamente questa essenza in paradiso, benché anche lassù essa continuerà a trascendere la finitezza del nostro intelletto. Adesso noi possiamo conoscere Dio solo partendo dai sensi e quindi in relazione a ciò che per loro mezzo possiamo conoscere, ossia le realtà materiali, benché già adesso possiamo raggiungere la conoscenza analogica dell’ente e quindi farci un concetto della realtà spirituale.

Gregorio Palamas ha ritenuto impossibile la visione immediata dell’essenza divina, perché secondo lui ciò comporterebbe l’identificazione dell’intelletto umano con l’intelletto divino. Ma Palamas confonde il piano dell’essere con quello del conoscere. La visione beatifica comporta un’identità non ontologica ma intenzionale con l’essenza divina.

La partecipazione della vita divina riguarda il piano ontologico della grazia, non l’ordine del conoscere. Non ha senso distinguere nell’essenza divina essenza ed energie, come se Dio fosse un sole che manda raggi e noi cogliessimo i raggi e non il sole. La divina essenza è semplicissima: o la si vede o non la si vede. Non si dà un manifestarsi a noi dell’essenza nel fenomeno delle energie, che lasciano a noi nascosta l’essenza, come se l’essenza divina fosse una specie di «cosa in sè» di kantiana memoria.

Semmai è la grazia che comporta una grazia sostanziale, che è Dio stesso, e una grazia partecipata a noi. Certo la nostra mente che vede l’essenza divina la coglie in modo finito, ma la coglie. Non c’è nessun rischio di panteismo, perché l’essenza divina è infinitamente distinta dal nostro intelletto che la coglie. Nel cogliere l’essenza divina la nostra mente non si infinitizza ontologicamente, ma solo intenzionalmente grazie al lumen gloriae.

Le energie divine hanno un loro senso sul piano della grazia, non su quello della conoscenza. Non c’è nessuna preclusione a che un intelletto finito possa vedere immediatamente l’essenza divina. Se ciò non è possibile su questa terra è solo perchè a causa del peccato non abbiamo ancora lo sguardo sufficientemente puro.

Riflettiamo inoltre sul fatto che Tommaso ha speso tutta la sua vita a parlare di Dio, come Frate Predicatore e come teologo. Di che cosa parla il Domenicano se non di Dio? E di che cosa s’interessa il teologo se non di Dio? Dunque, quando Tommaso fa quelle affermazioni che hanno un sapore agnostico, occorre fare molta attenzione a intenderle bene, come avverte saggiamente il Maritain in un prezioso studio in appendice ai Degrés du savoir[2]. Altrimenti, a forza di negazioni non si arriva alla mistica, ma si finisce nell’ateismo.

Infatti Dio, benché in misura per noi incomprensibile e molto al di sopra di quanto possiamo comprendere, è il nostro maestro, il nostro padre, il nostro consigliere, la nostra guida. È il nostro protettore e difensore, è colui che ci guarisce, ci purifica, ci perdona e ci fortifica. È colui che ci santifica, ci salva e ci dona la vita eterna.

Dalla Parola di Dio nascono per il cristiano la Scrittura, la preghiera, il culto divino, i sacramenti, l’adorazione, la contemplazione, la Chiesa, l’osservanza dei comandamenti. La Parola di Dio è luce beatissima, dolce ospite dell’anima, dolce refrigerio, nel pianto conforto, ottima consolatrice.

Dio ci parla di Sé e ci rivela su di Lui cose che con la nostra semplice ragione non avremmo mai potuto sapere o sperare. Dio si rivela come Dio Trinitario autore di un progetto di salvezza e di glorificazione celeste dell’uomo chiamato in Cristo e nella Chiesa ad essere figlio di Dio destinato alla vita eterna, alla resurrezione del corpo e alla visione beatifica dell’essenza del Dio Trinitario.

Nel cristianesimo è possibile una mistica che, oltre a nutrirsi dei concetti della religione naturale, si nutre della Parola di Dio, della Scrittura e del dogma. Acceso da questa legna di miglior qualità il fuoco sacro dell’esperienza mistica arde, illumina e scalda silenziosamente fino a raggiungere il cielo e le più vaste e lontane plaghe dell’universo.

L’aumento del sapere teologico e la disciplina del silenzio 

È interessante confrontare il modo di far teologia nei luterani e nei palamiti. Discende dal loro diverso modo di concepire la teologia. Per i luterani la teologia si risolve in profetismo e soteriologia: ottenere la propria salvezza con l’annuncio rivoluzionario della Parola di Dio. Per i palamiti, invece, ossia gli ortodossi, si tratta di aspirare alla contemplazione delle energie divine riducendo progressivamente il parlare teologico in base all’esperienza del mistero ineffabile fino ad arrivare al totale silenzio.

Sono due posizioni unilaterali ed estremistiche, confliggenti fra di loro, nessuna della quali riflette in pienezza la concezione del teologare che si ricava dall’insegnamento e dall’esempio di Cristo, il quale ci parla di Dio e ci rivela il suo mistero affinchè annunciamo il Vangelo a tutto il mondo, tacendolo a chi non ne è degno, progredendo nella sua conoscenza fino alla fine del mondo, nel conservare le sue parole con assoluta fedeltà, nel desiderio costante ed ardente di contemplare un giorno in cielo svelatamente il volto del Padre.

In Gregorio Palamas lo Spirito Santo procede solo dal Padre, ma non dal Figlio, sicchè succede che, sebbene la Chiesa sia apostolica, manca tuttavia della guida di Pietro, assistito dallo Spirito di Cristo, il quale fà progredire nei secoli la conoscenza del dato rivelato.

Per Lutero, lo Spirito Santo procede dal Figlio, ma senza la mediazione di Pietro illumina direttamente la coscienza di ogni cristiano ispirandolo a un continuo rinnovamento del pensiero teologico, che emerge alla lettura personale della Scrittura nella comunità, il cui pastore è eletto sinodalmente dal fedele.

La posizione pienamente evangelica, benèfica ed equilibrata, che concilia quanto di buono c’è nelle due suddette posizioni è quella cattolica di San Tommaso d’Aquino, il quale, come abbiamo visto, congiunge la teologia della causalità, della trascendenza e dell’eminenza positiva, affermativa, scientifica e progressista, che promuove un continuo aumento ed approfondimento del sapere teologico, con la teologia negativa, che conclude con la contemplazione, l’adorazione e il silenzio mistico e liturgico, pregustazione della visione immediata beatifica celeste dell’essenza del Dio Trinitario.

Nel parlare di Dio, il predicatore deve saper congiungere la parresia alla riservatezza. Parresia nello sfidare i prepotenti, nello smascherare gli ipocriti e nel difendere i deboli e gli oppressi, anche a costo della vita; riservatezza, per «non dare le cose sante ai cani» (Mt 7,6) e non rivelare certi misteri a chi non è preparato o non può o non vuol capire

Non bisogna peraltro confondere la riservatezza o segretezza con la reticenza, dettata dalla paura o dall’opportunismo o dal rispetto umano. Bisogna sapere in ogni circostanza quando si deve parlare e quando si deve tacere, che cosa e come si deve dirlo e che cosa si deve tacere. Non si devono scandalizzare i piccoli, ma si possono scandalizzare gli ipocriti.

La Grecia ha fornito a Tommaso, per commentare la divina rivelazione, due geni in profondo contrasto fra loro, eppure anche reciprocamente complementari: Aristotele e Dionigi l’Areopagita: entrambi grandi teologi, il primo, il teologo della causalità e dell’analogia, il secondo il teologo della negazione e del silenzio. Entrambi aspirano alla contemplazione divina. Aristotele sembra accontentarsi della teologia della ragione, la teologia affermativa o catafatica.

Dionigi pare concludere con un apofatismo esagerato e sfiduciato con le ultime parole della sua Teologia mistica, che ricorda il buddismo ed apre l’ombra sinistra dell’ateismo. Che ne è della ragione? E della fede? Ecco le sue parole:

 

«Circa la causa di tutte le realtà non v’è né erramento né verità; di essa universalmente non si dà né affermazione né negazione, bensì affermando e negando le realtà posteriori ad essa, né la affermiamo né la neghiamo, perché la causa totale e unica di tutte le realtà è anche al di sopra di ogni affermazione e al di sopra di ogni negazione»[3].

Così, per andar d’accordo con Cusano ed Hegel, con i teisti e gli atei, e con le persone doppie, si finisce col dire che Dio esiste e non esiste, che Egli è al di sopra del bene e del male, che in Lui coincidono i contradditori e si casca nello scetticismo totale o nell’indifferentismo teologico e religioso, e nella vana astuzia del mondo. Il vero Dio non è il Dio del sì e del no, ma è il Dio del solo sì (cf II Cor 1,19).

Ma Tommaso supera sia Aristotele che Dionigi, pur prendendo il buono da entrambi: la forza e i diritti della ragione da Aristotele; la modestia nel parlare di Dio da Dionigi. Ma evidentemente per il cattolico Tommaso, Frate Predicatore, principe della teologia scolastica e santo del silenzio mistico, la luce prima, somma e decisiva gli viene da Cristo, Parola divina, il Quale, alla fine della sua vita gli apparve dicendogli: «hai scritto bene di Me, Tommaso: che cosa vuoi in cambio? E Tommaso: solo Te, Signore».

Ed è noto quanto l’Angelico, poco prima della morte, dopo aver avuto un’esperienza estatica, disse in risposta alla domanda che gli facevano sul perché avesse interrotto di scrivere la Somma Teologica: «dopo quello che ho visto, quello che ho scritto mi sembra paglia», non per dire: «dunque gettatela nell’immondezzaio», dato che aveva ricevuto l’approvazione di Gesù Cristo, ma per esprimere la sua consapevolezza che questo suo immortale capolavoro di sapienza teologica, che avrebbe fatto scuola nei secoli futuri, tanto che la Chiesa avrebbe fatta sua la dottrina ivi contenuta, non può considerarsi una sufficiente espressione in parole di quanto l’anima assetata di Dio sperimenta nella sua unione mistica con Dio.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 5 giugno 2021

Invito a consultare:

3-4 Giugno 2021, Roma - Conferenza sulla teologia negativa per il XXI secolo

http://www.theologia.va/content/cultura/it/collegamenti/accademie-pontificie/teologia/archivioeventi.html 


Una volta scoperta la causa prima, occorre darne una definizione, il che è come dire dare una definizione dell’essenza o natura di Dio. 

Se Dio è, come dice il Concilio Vaticano I, «una singola sostanza spirituale» (Denz.3001), irripetibile, individuale, inconfondibile, discernibile e distinguibile da tutte le altre sostanze spirituali e personali, deve ben avere un’essenza propria e un nome proprio, come appunto dichiara Dio a Mosè (Es 3,14): «Io Sono Colui Che É», ovvero «Io Sono», ossia, secondo la famosa definizione di San Tommaso, l’ipsum Esse per se subsistens. Dio è l’Essere assoluto, infinito, sommo ed eterno. È, come dice il Catechismo di San Pio X, l’Essere perfettissimo.

 
Così l’Aquinate descrive la via negativa:

 

«Quando procediamo verso Dio per via di rimozione, innanzitutto neghiamo di Lui le realtà corporali, e in secondo luogo anche le realtà intellettuali così come si trovano nelle creature, come la bontà e la sapienza; e resta nel nostro intelletto soltanto che Egli è e nulla più; per questo si trova in una certa confusione.

 

Ma alla fine rimuoviamo da Lui anche lo stesso essere, così come si trova nelle creature, e allora l’intelletto rimane in una certa tenebra di ignoranza, secondo la quale ignoranza, per quanto riguarda lo stato presente, ottimamente ci congiungiamo a Dio, come dice Dionigi nel De divinis Nominibus, c.VII: questa è una certa quale caligine, nella quale si dice che Dio abita» (Comm. a I Sent., D.8, q.1, a.1, 4m).


 

Tommaso non esclude affatto la possibilità di vedere immediatamente e svelatamente questa essenza in paradiso, benché anche lassù essa continuerà a trascendere la finitezza del nostro intelletto.

Gregorio Palamas ha ritenuto impossibile la visione immediata dell’essenza divina

 



Immagini da internet:
- Mosè e il Roveto ardente
- Dionigi l'Areopagita
- Gregorio Palamas
 
 
 

[1] Cf II Cor 6,14; I Gv 1,5; 2,9.11; Sal 82,5; 88,7.19; Is 42,7; 50,10; Gv 8,12; 12,46; I Sam 2,9; Tb 14,10; Gb 15,30; Pr 20,20; Sap 17,2; 18,4; Sir 11,16; Ger 23,12; Ef 6,12; Ap 16,10.

[2]Ce que Dieu est’, Edizione del 1959, pp.827-843.

[3] Mistica teologia, Edizioni ESD, Bologna 2011, p.263.

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