La
metafisica materialista di Guglielmo di Ockham
Dalla grandezza e bellezza della
creature
per analogia si conosce l’Autore
Sap 13,5
To on pollachòs legòmenon
Aristotele
Disce elevare ingenium,
aliumque rerum ordinem ingredi
aliumque rerum ordinem ingredi
Card.Gaetano
Una
metafisica paradossale
L’espressione «metafisica materialista» può sembrare una
contraddizione in termini, giacchè è difficile capire come possa esistere una
metafisica, che etimologicamente significa «oltre la fisica», la quale si
riduca alla fisica, ossia alla scienza delle cose materiali. Eppure, se
consideriamo la concezione occamista della metafisica, ci accorgiamo che le
cose stanno proprio così.
Naturalmente qui dobbiamo
prendere la parola metafisica nel
senso ampio di «visione complessiva del reale», cosa della quale nessuno di noi
può fare a meno, perché tutto quello che pensa, lo pensa all’interno della
concezione che si è fatto della realtà, non importa se di tipo materialista o
spiritualista.
In questo senso possiamo dire che tutti hanno una metafisica. Così
Ockham ha, per sua stessa dichiarazione, una metafisica, e quindi una filosofia
dell’ente; solo che qui non si tratta dell’ente un quanto ente, dell’ente in
senso universale, ma di questo particolare
ente, dell’ente singolo materiale, determinato e concreto, esistente qui ed
ora, oggetto della mia esperienza sensibile, uno di tutti gli enti di tal
fatta.
Oggetto della metafisica, dunque, per Ockham, è l’ente singolo
attualmente esistente. Degna di apprezzamento certamente è questa considerazione,
che suppone implicitamente la percezione dell’atto d’essere. Ma tale attenzione
riguarda più l’incontro interpersonale, la narrativa, la storia o la cronaca
che la metafisica.
Questa certo presta attenzione somma all’atto d’essere o
all’esistenza singolare; ma il suo oggetto, l’ente, non si risolve nell’esistenza
singolare. È molto più ampio. Esso infatti è principalmente la sostanza, ossia
il soggetto sussistente (suppositum)
di un’essenza in atto d’essere possibile o reale. Essere, inoltre, non è solo
il sussistere, o essere in sé, proprio della sostanza, il cui culmine è la
persona; ma è anche l’inerire nella sostanza, l’essere-in, proprio
dell’accidente.
Inoltre, il singolo concreto è un agente in atto o in potenza. Ma
il metafisico non s’accontenta di cogliere l’agente in atto o in movimento; ma
va all’origine, al principio, alla causa del divenire, del passaggio dalla
potenza all’atto, dal possibile all’attuale. Non solo l’agire, ma anche il
soggetto agente entra nell’orizzonte dell’essere. Non solo il mutabile, ma
anche l’immutabile, che ne è il presupposto e fondamento, entra nell’orizzonte
dell’essere.
La metafisica inoltre deve saper cogliere il nulla, dal quale è tratto
o creato l’essere ad opera del creatore; deve cogliere l’essere alla base del
divenire, il motore al dà del mosso, la causa al di là dell’effetto, il fine al
di là del mezzo, la realtà al di là dell’apparenza, il reale al di là dell’ideale;
la cosa al di là del fenomeno, il fondamento al di là del fondato, il
partecipato (per essentiam) al di là
del partecipante (per participationem),
il principio al di là del principiato, il tutto al di là della parte, l’eterno
al di là del temporale. La metafisica cerca il puro essere, al di là delle sue
partecipazioni, imitazioni, derivazioni, creazioni.
La
sua concezione della metafisica[1]
Chiamato a guardare in alto,
nessuno sa sollevare lo sguardo
Os11,7
Per capire come Ockham intende il sapere metafisico, dobbiamo
vedere come concepisce la conoscenza. Egli la intende platonicamente come un
vedere. Questo si trova anche in S.Tommaso e in Scoto, ma essi avevano presente
che Platone fa un’analogia tra il vedere fisico e il vedere intellettuale. Mentre
l’occhio sano vede immediatamente la casa che gli sta davanti senza bisogno di
rappresentazioni, l’occhio dello spirito ha bisogno di formare un concetto (eikòn in Platone, nòema in Aristotele) della casa, perché la mente non è sempre
proporzionata all’oggetto oppure l’oggetto è assente, per cui l’idea della casa
non è la casa extramentale, ma è la casa nell’anima.
In base a questa concezione del conoscere, la metafisica per
Ockham è la intuizione dell’ente singolo sperimentato dal senso (cognitio intuitiva). Il che fa capire
che egli apprezzava l’atto d’essere dell’ente. Questo apprezzamento per l’actus essendi si avvicina alla
concezione tomista, solo che Ockham si ferma a questo actus essendi del
singolo e non considera l’actus essendi
come tale nella sua universalità, per cui la metafisica per lui è la semplice
considerazione globale e approssimata dell’insieme degli enti singoli indicati
col nome comune di «ente».
In tal modo Ockham rifiuta
come inutile la mediazione concettuale, dimostrando di essersi fatto della
conoscenza un concetto troppo semplice e, vorremmo dire, materialistico, con
l’omologare tout court ogni forma o
piano del conoscere a quello del senso esterno, che appunto non si serve di
rappresentazioni o immagini, bastando, secondo lui, per l’atto del conoscere,
l’intelletto e la cosa.
Non che egli ignori il lavoro
astrattivo dell’intelletto (cognitio
abstractiva) e quindi l’ente ideale o di ragione (ens ideale vel rationis), tutt’altro. Solo che per lui serve solo
per la logica e la matematica, che non attingono alla realtà, che per lui è
solo singolare, ma riguardano forme prodotte dal pensiero o metodi per
organizzare razionalmente il dato dell’esperienza ed operare su di esso
tecnicamente.
Ne segue che Ockham trascura la funzione esemplare dell’idea,
tanto cara a Bonaventura e a Scoto, e questo si ripercuote dannosamente in
teologia a proposito delle idee divine e quindi del rapporto in Dio fra scienza
e volontà. Per Ockham Dio crea senza basarsi sull’idea della creatura da
creare. Dio non crea ciò che ha ideato, ciò che sa o pensa, ma ciò che vuole;
sicchè non vuole ciò che è da Lui visto come bene, ma è bene ciò che vuole, e
così lo vede come bene, fosse pure contrario alla ragione umana.
Infatti Ockham, benché verbalmente dichiari di rispettare il
principio di non-contraddizione, nella pratica del suo pensiero mostra di non curarsi
delle esigenze della necessità logica, per cui, a causa del suo empirismo, non è capace di dimostrare con certezza
verità fondamentali come l’immortalità dell’anima, l’assolutezza della legge
morale e l’esistenza e gli attributi di Dio.
Sulla base di questa gnoseologia empirista logicizzata e
matematizzata, realista sì, ma chiusa alla sostanza spirituale, Ockham chiama
«ente» il nome che designa l’insieme degli enti singoli sensibili. Così egli
non ottiene per astrazione un concetto universale dell’ente, aperto allo
spirito, che sarebbe l’oggetto della metafisica, perché l’ente, per lui,
assolutamente molteplice, non ha un’universalità reale, ma di universale nella
metafisica c’è solo il nome «ente», col quale designiamo l’insieme degli enti.
I molti enti per lui non hanno niente in comune fra di loro, sono
semplicemente diversi gli uni dagli altri e non sono unificati da un’unica ragione
di ente, ma solo dal nome «ente», col quale li designiamo. La molteplicità, per
Ockham, non è unificata dall’uno, ma è una di per sè. Non esiste un’unità
immanente ai molti, perché essi, pur diversi fra di loro, sono già uniti da sé.
È chiaro come un principio del genere porta in teologia ad un pluralismo
caotico, alla negazione del monoteismo, all’affermazione del politeismo ed alla
sostituzione delle religioni alla religione, col pretesto che l’una è diversa
dall’altra.
Infatti per Ockham, come è noto, l’universale non esiste nella
realtà, non esiste nei singoli enti, ma solo come nome, per cui il concetto non
è la rappresentazione mentale e astratta, ricavata dall’esperienza, di un reale
unum in multis, ossia l’essenza della
cosa, immanente sempre identica a se stessa negli individui di uno stesso
genere o di una stessa specie, ma è solo un ente mentale attorno al quale noi
raccogliamo gli individui di una stessa specie, così come in un armadio
raccogliamo tutti i soprabiti, dei quali facciamo uso. La predicazione dell’universale
(unum de multis) non è la predicazione
di un’unica essenza di molti, ma di un solo nome di molti.
Con tutto ciò Ockham non nega
la predicazione trascendentale dell’ente al di sopra dei generi e delle specie,
solo che il trascendentale occamista – siamo sempre lì – non è altro che la
predicazione del nome verum, res, unum,
aliquid, bonum e pulchrum riferito
non all’ente in quanto ente, che è una vuotaggine, ma all’insieme concreto
degli enti collettivamente e confusamente presi in un unico colpo d’occhio.
Così l’incomprensione del vero senso universale dell’ente metafisico
provoca per conseguenza in Ockham il dissesto o scompaginamento dei
trascendentali. Il vero non è fondato sull’essere ma sul buono, che prevale
sull’essere; l’ente è il questo ente (aliquid);
l’ente reale (res) è ridotto a logica
e a linguaggio; l’uno trascendentale è ridotto all’uno numerico; la relazione è
un semplice ente di ragione. La metafisica quindi è fagocitata in parte dalla fisica
e in parte dalla logica. L’essere o è materializzato nella fisica o è
volatilizzato nella logica e ripensato secondo l’ente di ragione logico
formalizzato nel linguaggio.
Ockham, inoltre, dice che l’ente non si può definire, perché
occorrerebbe ricorrere a un genere più vasto, del quale l’ente dovrebbe essere
la differenza. Ora però – lo riconosce - non esiste un genere più vasto, perché
l’ente è il più vasto di tutti. Ma Ockham non si accorge che l’ente non ha bisogno di essere
definito, perché tutti sanno spontaneamente di che si tratta, dato che la nozione
dell’ente è la prima, nella quale tutte le altre si risolvono e che è
presupposta in tutte; per cui tutto quello che pensiamo e diciamo, lo pensiamo e
diciamo in riferimento all’ente. Tommaso definisce bensì l’ente come id quod est o id quod habet esse. Ma cosa possono voler dire queste espressioni
per uno che non sa andare oltre l’esperienza del senso?
La
vera nozione dell’ente
Inoltre, dobbiamo rilevare che il concetto dell’ente, unico fra tutti
i concetti, contiene in sé implicitamente
le sue differenze, a differenza del genere, al quale le differenze sono estrinseche.
Per questo l’ente non è un genere, ma sta al di sopra di tutti i generi ed è un
trascendentale. Il che vuol dire che non è un concetto univoco, ma analogo.
Dire che la nozione dell’ente è analogica, vuol dire che l’ente è
polisemantico o plurisignificante come nessun altro concetto. Come dice Aristotele,
esso «si dice in molti modi» (pollachòs
legòmenon). Occorre distinguere l’essere dal modo d’essere e quindi il
significare dal modo di significare. Ogni singolo ente ha un suo modo d’essere e
di essere significato diverso da quello dell’altro. Fin qui Ockham ci arriva.
Dove fallisce, invece, è nel capire che esistono modi d’essere trascendentali,
generici e specifici, che inducono a superare il ristretto punto di vista del
singolo per ad aprire la mente allo sconfinato campo dell’essere.
Ad Ockham sfugge l’ente come tale, chiuso com’è nel questo ente e
tende a ridurre l’ente a questo ente. È il segno di un’intelligenza troppo
legata al senso e incapace di astrarre. Ciò gli crea una notevole difficoltà
nel comprendere i valori spirituali, metafisici,
morali e religiosi. Eppure, egli era teologo e religioso; per questo stupisce
questa scarsa sensibilità per un mondo di valori, nel quale avrebbe dovuto
sentirsi perfettamente a suo agio, e che avrebbe dovuto costituire il centro
dei suoi interessi e della sua vita. Che senso ha fare teologia in quelle condizioni?
Con tutto ciò bisogna notare che Ockham non è così materialista da
ignorare la nozione e il primato dello spirito, che per lui il singolo soggetto
libero e supremamente è Dio. Difficile capire come in un clima metafisico così
sfavorevole resti intatta la nozione del Dio libero ed onnipotente e per
conseguenza la libertà dell’uomo. Sembra trattasi di un residuo della
formazione francescana ricevuta, che sopravvive, seppur stentatamente, nel
mondo intellettuale scettico e paganeggiante, che Guglielmo ha lasciato imprudentemente
entrare nel suo spirito a contatto col fascinoso e pericoloso clima
dell’università oxoniense: quel gonfiarsi della scienza, che S.Francesco avrebbe
fuggito come le peste.
La vera apertura allo spirito infatti nasce da una mente non
ristretta alla semplice scienza sperimentale, ma attenta ai segni e ai richiami della
trascendenza, che intende l’essere nel suo valore analogico. Osserviamo, infatti, che gli enti più diversi
o differenti fra di loro cadono sotto la medesima nozione dell’ente, per cui
essa come spazia nel mondo della materia, così consente di elevarsi al mondo
dello spirito e del divino.
Essa certamente ha una sua unità o identità, è riconoscibile, ma
non è l’unità assolutamente precisa dell’univoco, genere o specie che sia. È
invece l’unità relativa di una reale varietà o pluralità che tende all’uno o
che deriva dall’uno. È una pluralità di significati simili o dissimili fra di
loro, ordinati tutti con proporzionalità ed armonia ad un sommo analogato, che
costituisce il riferimento semantico per l’unità di significato del concetto.
Così abbiamo i gradi dell’essere, del sapere, della vita, dell’agire, della
perfezione, della virtù e così via.
L’analogia soddisfa all’esigenza di unità ed identità di
significato, propria dell’univocità, finalizzata a far sì che il sillogismo
funzioni e non abbia quattro termini. Ma per tale unità non è sempre necessaria
l’univocità, come crede Scoto, ma può bastare la relazione di molti significati
diversi all’uno (pros en, dice
Aristotele), come avviene nell’analogia.
L’universalità della nozione analogica, inoltre, astrae, come ogni
universale, dagli inferiori, ma non completamente, come fa il genere, ma li contiene
implicitamente in se stessa. L’astrazione metafisica, quindi, prescinde dalla
materia, ma nel contempo non la esclude. Non rifiuta la materia, ma non sta
neppure adagiata sulla materia. Sta in alto senza dimenticare il basso. Abita
in cielo senza dimenticare la terra.
L’analogo è plurisignificante come l’equivoco, ma c’è una bella
differenza! Nell’analogo gli analogati sono ben distinti ed in armonia fra di
loro, per esempio: vita vegetativa, vita sensitiva, vita razionale, vita angelica,
vita sopranaturale, vita beata, vita divina. È sempre vita, ma con quali
abissali differenze!
L’analogo è polisemantico senza essere confusionario come
l’equivoco. Unisce distinguendo, mentre l’equivoco assembla caoticamente,
casualmente, senza ordine ed unità e confondendo. L’equivoco, infatti, è un nome
che cela in sè significati tra loro disordinati e contradditori. La parola
«cane» può indicare l’animale che abbaia, come la costellazione del cane e il
cane della pistola: tutte cose che non hanno nulla a che vedere tra di loro, se
non per lontani paragoni.
I
difetti della metafisica di Ockham
Purtroppo, invece, Ockham,
che su ciò avrebbe fatto bene ad ascoltare Tommaso D’Aquino, ed esaspera l’univocismo
scotista, rifiuta la nozione analogica dell’ente, per cui, come abbiamo detto,
l’ente per lui si riduce ad essere niente più che l’insieme degli enti singoli
sensibili, indicati col nome comune ma equivoco di «ente», che non contengono
nulla di universale, ma solo semmai di comune, così come di una sala comune non
diciamo che è universale, ma solo che è capace di raccogliere molte persone.
Il concetto dell’ente in Ockham è univoco non nel senso scotista del
concetto semplice, ma proprio nel senso di astrarre da tutto, sicchè alla fine non resta più nulla. Per questo, non ha
un contenuto oggettivo, ma è un puro nome per designare l’insieme degli enti
determinati e concreti. È lo stesso processo che seguirà Hegel, con la
differenza che mentre Ockham è realista, non nega il concreto, ed ha almeno l’onestà di fermarsi al vuoto riempito dal
nome, Hegel oltre a ridurre l’essere al pensiero, ha la pretesa di aver
scoperto il divenire come opposizione dell’essere col nulla.
Ockham ammette così un concetto di ente universale univoco
assolutamente vuoto, perché qualunque contenuto per lui è singolare o comunque determinato,
e quindi annullerebbe l’universale; mentre intende come equivoco il nome
«ente», perché lo intende come segno degli enti, ognuno dei quali, per la sua
singolarità, non ha con gli altri nulla in comune[2].
Così per Ockham l’ente è come un contenitore di per sè vuoto, ma
che può e deve essere riempito dagli enti determinati, ossia dalle varie scienze
particolari. In tal modo l’ente non è che il nome che designa il contenitore
«ente»; è come l’etichetta «bicchieri», che mettiamo in un cassetto che
contiene bicchieri.
Essendo tuttavia teologo, Ockham non dimentica la questione di
come predicare l’essere di Dio e delle creature. Egli, però, rifiuta la nozione
analogica dell’ente, che è quella che consente alla mente umana di salire a Dio
a partire dalle cose terrene, gettando un ponte fra la mente e Dio. È un
sostenitore della teologia negativa senza il supporto di quella positiva, cosa
che, come nota S.Tommaso, vanifica la stessa teologia negativa, perché è come uno
che dicesse che un elefante non è un limone, senza dire che cosa è l’elefante o
come uno che togliesse la buccia alla banana e gettasse via la banana.
Ockham evidentemente, oltre a non conoscere l’operazione fondativa
che pone la nozione dell’ente con i suoi primi princìpi, non conosce neanche
l’operazione astrattivo-ascensiva, che astrae imperfettamente la forma dalla materia
(abstractio formalis)[3]
immaginabile (matematica) e sensibile (fisica) e conduce alla nozione
analogica dell’ente, propria della metafisica, e crede che sia sufficiente un’astrazione
orizzontale dell’universale dal particolare (abstractio totalis).
Così in lui la conoscenza metafisica non trascende quella
matematica e quella fisica, ma sta al loro livello, sicchè non può raggiungere il
piano della pura spiritualità. Il chimico, il carpentiere, il pizzicagnolo, il
fisico, il logico, il matematico e il grammatico sono allo stesso piano di
conoscenza del metafisico. Col pretesto che la nozione dell’ente è alla portata
di tutti, trascura il fatto che purtroppo la nostra intelligenza, a seguito del
peccato originale, per poter progredire nella verità, deve entrare per la porta
stretta della disciplina e della purificazione, insegnate dalla metafisica.
Infatti per Ockham il paradigma della scienza è la scienza
sperimentale. E per questo la metafisica e la teologia non assurgono al livello
della scienza e non raggiungono la sua certezza, perché le loro conclusioni non
possono essere empiricamente verificate e non sono necessarie. Lo stesso
principio di causalità non assicura la necessità delle conclusioni, perchè
causa ed effetto sono enti singoli senza un nesso necessario.
Stessa cosa capita al principio di finalità. Sappiamo di un certo
fenomeno che è ripetitivo, ma non sappiamo se sarà sempre così (quia), perché non possiamo sapere con
certezza perchè le cose vadano così e perchè non possano non andare sempre così
(propter quid). Qui Hume è già
precorso di secoli. La dimostrazione propter
quid è solo condizionale: se… allora…
È probabile che Dio esista, ma non è certo. Ockham considera certe
solo le verità di fede. Certo è una gran cosa. Ma esse sono prive del loro
supporto razionale e di fondamento apologetico, sicchè fragile è la loro
certezza e facilmente possono piegare nell’eresia o dissolversi nell’apostasia.
Ockham non conosce pertanto i gradi dell’essere che fondano i
gradi del sapere. Manca il passaggio gnoseologico dalla semplice apprensione dell’essenza
all’affermazione dell’essere nel giudizio. Non compare quindi l’atto d’essere
come attuazione dell’essenza, potenza di essere. Da qui, per conseguenza,
Ockham non sale a Dio Atto puro. Predica una «teologia negativa»; ma senza il presupposto
di quella positiva, fondata sull’analogia essere, non si capisce che cosa neghi.
Tommaso, col suo buon senso, al termine dell’ascensus ad Deum, nega bensì anche lui che possiamo predicare
l’essere di Dio, ma precisando che si tratta dell’essere nei limiti nei quali
lo concepiamo noi. Altrimenti, a negare l’essere tout court, si finisce col confondere la teologia negativa con
l’ateismo.
La mente, quindi, purtroppo, in Ockham non riesce a salire dalla
sostanza materiale, composta di materia e forma alla sostanza spirituale, pura
forma sussistente. Non vede la
distinzione reale di sostanza e accidenti, sicchè non può salire a Dio come
pura Sostanza.
In Ockham Dio non motiva quello che fa non perchè il motivo supera
la comprensione della nostra ragione, ma semplicemente perchè non ha motivo. Dio crea senza idee. Non
è irriverente una trovata del genere? Del resto é in coerenza con la famosa
tesi di Ockham che, se Dio volesse, potrebbe legittimare l’adulterio.
Ci si può chiedere che ne è della funzione esemplare del Verbo divino
crocifisso, devozione tanto cara alla spiritualità francescana, Cristo Verità fatta
persona, per quem omnia facta sunt
(Gv 1,10), Cristo Pensiero ed Immagine del Padre, nel Quale e per mezzo del
Quale il Padre progetta e crea tutte le cose, così che hanno la loro verità e
per conseguenza la loro bontà.
Che cosa resta di Cristo in Ockham? Cristo in Ockham rischia di
non apparire più il Logos crocifisso per la nostra redenzione, ma si riduce in
modo quasi ariano a un popolano anarchico e rivoluzionario in lotta per la liberazione
terrena dell’uomo dal giogo dei potenti, non escluso il Papa.
Un
bilancio
In Ockham il designare sostituisce
il concepire, la parola sostituisce il pensiero, il concetto sostituisce il
reale, come nell’idealismo, perchè il concepire non è più un conoscere, cioè
non è più una rappresentazione del reale, ma è una semplice entità mentale che
significa un singolo ente immediatamente intuìto dal senso. Quindi anche il
realismo di Ockham è infido e fa l’occhiolino all’idealismo. In fondo egli precorre
già Hegel nel ridurre la realtà alla logica ed anzi, come Heidegger, al linguaggio.
Ne viene la conseguenza che la metafisica si risolve in una
organizzazione e formalizzazione logico-grammaticale-sintattica del linguaggio e
una visione sintetica o interdisciplinare dei metodi delle singole scienze. L’ente
di ragione logico sostituisce l’ente reale e la semantica diventa una
metafisica. Come dice Orlando Todisco, si tratta del passaggio «dall’ontologia
alla filosofia del linguaggio»[4]:
non più l’attenzione all’essere reale, ma alla correttezza sintattica e logica
del linguaggio, inteso non più come espressione dell’essere, ma come segno
nominale e linguistico, dell’insieme degli enti.
Il pensiero di Ockham ci dà una grande lezione: ci fa comprendere
come materialismo ed idealismo si corrispondono, si implicano e si richiamano a
vicenda. Essi interagiscono, uno reagisce all’altro, senza uscire dal cerchio
magico all’interno del quale sono condannati come nemici-amici a respingersi e
a confondersi l’uno con l’altro.
Da questo punto di vista la storia della filosofia inglese è
estremamente istruttiva. Questo circolo perverso comincia con Ockham e da qui è
tutto un susseguirsi ed un alternarsi ed accavallarsi agitato di grossolano empirismo
e di etereo spiritualismo: dal volgare materialismo di Hobbes all’idealismo
empirista di Locke, all’immaterialismo teologico di Berkeley, caso, questo,
estremamente interessante di questo richiamarsi vicendevole di idealismo e
materialismo. Infatti per Berkeley la materia non esiste semplicemente perché
egli ha materializzato il pensiero riducendo l’intellezione alla percezione (esse est percipi), come poi farà Hume.
Da qui partirà il successivo empirismo inglese, che influenzerà lo
stesso Lutero («sum occamicae factionis»), l’edonismo rinascimentale, il sensismo francese e libertini del
sec.XVIII, il positivismo di Comte, fino a Bertrand Russell e Wittgenstein, con
i suoi agganci al Circolo di Vienna degli anni ’20 del secolo scorso, senza
escludere lo stesso esistenzialismo fino ad Heidegger, giacchè che cosa è
questa «esistenza» e questo «esserci» (Dasein),
se non sempre di nuovo il singolo incomunicabile ed empirico di Ockham? E che
cosa c’è alla base della libido
freudiana, che oggi fa l’apologia della lussuria, con immensa strage di anime e
gravissimi scandali, se non ancora una volta il singolo assolutizzato di
Ockham?
L’occamismo comporta l’incapacità di distinguere la sostanza
materiale da quella spirituale perchè riduce l’intelletto al senso e non vuol
accogliere nulla che non sia oggetto dell’esperienza sensibile o quanto meno
immaginabile. Se si accoglie un mondo di enti astratti, come la logica e la
matematica, non è per nulla al fine di elevarsi alla conoscenza dell’ente
metafisico, che per l’occamismo è un
vagare nel vuoto, una manna insipida, ma solo per metter ordine razionale ai
dati dell’esperienza, per stabilire le regole del linguaggio e per stimolare gli
affari economici e il progresso della scienza e della tecnica.
Nell’occamismo dall’esperienza sensibile non si sale affatto al
mondo dello spirito. E se si ammette il mondo dello spirito e persino della
fede cristiana, lo si concepisce come una meteora piovuta dal cielo non si sa
come e perché, un dato apriori dell’intuizione o un dato immediato della
coscienza o un fatto immediatamente sperimentabile, riducendolo così alla
stregua del dato sensibile.
Ockham riduce il sapere al potere, la teoria alla prassi,
precorrendo così in qualche modo di secoli il prassismo marxista e quello della
teologia della liberazione di Leonardo Boff. Ne verrà la conseguenza in morale
che il criterio del bene e del male non sarà un valore oggettivo spirituale, universale,
trascendente ed eterno, la considerazione di un modello ideale, ricavato argomentativamente
dai dati dei sensi e dalle inclinazioni naturali della persona umana, ma
l’attrattiva o la repulsione contingente, che l’appetito sensibile del singolo
soggetto sperimenta a contatto con i
vari oggetti dell’esperienza.
Col pretesto che Dio è libero di fare od ordinare quello che
vuole, e che la creatura è contingente, ne verrà la conseguenza che tutte le leggi
della natura e dell’uomo non avranno più nulla di certo e di necessario, ma diventeranno
contingenti, mutevoli ed incerte.
Ockham riduce l’esistenza della creatura alla sua essenza singola.
Ha ragione nel considerare contingente l’esistenza del creato. Ma dobbiamo
ricordare che le essenze possiedono caratteri necessari, senza i quali esse sono
distrutte; ed in base all’essenza umana l’uomo è soggetto a leggi di condotta,
trasgredendo alle quali, fallisce al suo fine. Invece per Ockham anche
l’essenza muta e finisce per perdere i suoi caratteri necessari, mettendo a
repentaglio la sua stessa esistenza.
Occorre quindi ricordare che neanche Dio, sommo custode di queste
leggi, che Egli ha stabilito, potrebbe trasgredirle o comandare di
trasgredirle, senza venir meno alla sua sapienza e bontà, cosa empia al solo pensarla.
Da qui l’empietà dell’idea di Ockham, secondo la quale, se Dio volesse, potrebbe
comandare l’adulterio.
Ockham ha ragione di
distinguere una potenza di Dio assoluta da una potenza di Dio ordinata, la
prima essendo ciò che, salvo il principio di non-contraddizione, Dio potrebbe
fare se volesse; e la seconda, ciò che Dio ha effettivamente e storicamente
disposto secondo il piano attuale della creazione e della salvezza. Ma occorre
tener presente che anche de potentia Dei
absoluta Dio non può comandare il peccato.
Né vale l’argomento di Ockham che, se Dio comandasse l’adulterio, non sarebbe
peccato, perché è impensabile che Dio comandi una cosa contraria alla sua sapienza
e quindi alla sua volontà.
Una
deviazione dalla spiritualità
francescana
Pax et bonum
Il caso Ockham fa comprendere chiaramente a che cosa può portare
la deviazione da una grande spiritualità come quella francescana. Corruptio optimi pessima. Niente di più
malvagio dell’angelo decaduto. Del resto, disavventure come quella capitata ad
Ockham possono accadere e di fatto accadono, mutatis mutandis, anche in altre grandi spiritualità, come per esempio
quella domenicana.
Si pensi ad esempio al caso Eckhart, o al caso Giordano Bruno o al
caso Schillebeeckx, tre grandi personalità non senza genio, ma che, a
somiglianza di Ockham per il suo Ordine, hanno deformato taluni aspetti stupendi
delle loro rispettive spiritualità: in Eckhart, la teologia mistica giovannea del
Logos è diventata panteismo cristologico; in Giordano Bruno, l’«eroico furore»
della forza invincibile dell’intelletto
è diventato tracotante aspirazione al potere magico; in Schillebeeckx, la base storica
ed umana della fede e del cristianesimo è diventata arianesimo empirista e relativista.
In Ockham appare evidente il gioco di una serie di valori travisati:
la percezione della singolarità della
persona concreta si è materializzata nell’idolatria del singolare materiale. La
Parola fatta carne diventa parola carnale. La semplicità nel pensare diventa
semplicismo della quotidianità. La fraternità diventa appiattimento e
giacobinismo. L’umiltà diventa sorniona ritrosia ad elevare l’intelletto. La povertà diventa il rasoio che taglia le sublimità
dei trascendentali. La mitezza diventa servilismo. La libertà diventa
disobbedienza al Papa. L’ascetica è sostituita dalla cavillosa polemica
scolastica. La mistica diventa torbido sentimento. La fede diventa fideismo. La carità diventa
volontarismo.
Con Ockham decade e si affievolisce pericolosamente lo slancio
speculativo e spirituale, che caratterizza la prima scuola teologica francescana
parigina di S.Bonaventura e del Beato Duns Scoto. Come mai? Nell’ambiente
parigino, divenuto prestigioso, affluiscono numerose correnti di pensiero non
tutte conformi al cattolicesimo, anzi si fanno sentire fascinosi influssi pagani
e musulmani. L’interpretazione e l’utilizzo di Aristotele, benché ormai
permessi dalla Chiesa, non è facile.
Ockham, a differenza di Tommaso, Bonaventura e Scoto, attenti ad
evitare le carenze della metafisica e della teologia di Aristotele e ad utilizzare gli aspetti più elevati del suo pensiero,
interpreta Aristotele con occhio materialistico perdendo di vista la nobiltà
della sua metafisica, sicchè egli viene a togliere alla fede cristiana il suo
necessario supporto razionale.
Il
grande progetto di S.Bonaventura
Bonaventura aveva voluto introdurre nell’Ordine lo studio e
l’insegnamento della teologia, un’idea che S.Francesco non aveva avuto, a
differenza di S.Domenico, che invece mandò i suoi frati a Parigi a studiare
teologia in vista dell’insegnamento o quanto meno perchè fossero adeguatamente
preparati alla predicazione. Francesco non disprezzava la teologia, ma
raccomandava che essa fosse basata più sull’umiltà che sulla scienza, più
ordinata al bene del prossimo che alla
speculazione, più originata dal fervore della carità che dallo studio.
Fu così che alla Facoltà teologica del’Università di Parigi i
Francescani vennero ad affiancarsi ai Domenicani. Bonaventura cercò di definire
al differenza tra l’amore francescano alla sapienza e quello domenicano. Come
riferisce il Gilson[5],
secondo Bonaventura, «i frati predicatori hanno per oggetto principale la speculazione,
da cui il loro nome di predicatori, che suppone anzitutto la scienza di ciò che
essi insegnano ed essi si danno come oggetto secondario l’unzione o fruizione del
bene divino. I frati minori, al contrario, si danno come oggetto principale
l’unzione e come oggetto secondario la speculazione». E Bonaventura paragona i
Domenicani ai Cherubini e i Francescani ai Serafini. Lo stesso concetto sarà
ripreso da Dante nella Divina Commedia.
Bonaventura comprese così l’importanza della filosofia per dare
una base razionale alla fede e costruire la teologia. Ma davanti all’ingresso
di Aristotele nell’Università di Parigi, egli provò un senso di ripugnanza e di
diffidenza, parendogli troppo naturalista e incapace di capire la spiritualità
del cristianesimo, per cui, imbevuto della spiritualità agostiniana, preferì
seguire il metodo agostiniano di far teologia, ispirato a Platone, e di fondare
le basi razionali della fede. Vedeva in Agostino una speculazione tutta animata
dall’affettività e dalla carità, con un’accentuazione pastorale, che gli
sembrava più adatta alla spiritualità francescana.
Bonaventura certo non disprezzava la metafisica e l’interesse
ontologico, poiché sapeva bene che Dio è «Colui Che È», creatore dal nulla di
tutti gli enti, però, dal concetto che egli si fa della metafisica, non come scienza
dell’ente in quanto ente, ma come «conoscenza di tutti gli enti, che essa riconduce
all’unico primo principio, dal quale sono usciti secondo le loro ragioni
ideali»[6],
si vede che egli non accoglie il concetto aristotelico, ma quello agostiniano
della metafisica. E addirittura par di presagire nel riferimento agli enti e
non all’ente un accento occamista e nelle ragioni ideali un precorrimento di
Duns Scoto.
La metafisica del Serafico è molto semplice, ma profonda e di
indirizzo mistico. Si riconduce a due nozioni, che egli giudica intuitive e
note a tutti: quella dell’ente (ens),
che è la creatura, e quella dell’essere (esse)
che è un nome sacro, è il sigillo di Dio nell’ente, perché testimonia che è
stato creato da Dio.
Tutto noi conosciamo e giudichiamo nella luce e nell’orizzonte
dell’essere, che proviene da Dio e conduce a Dio. Tema agostiniano. L’idea
dell’essere, infatti, cela il Nome
divino, l’ipsum Esse. In ciò Bonaventura
è perfettamente d’accordo con Tommaso. Invece non troviamo in lui la composizione
tomista di essenza-potenza ed essere-atto.
Il concetto dell’ente è un concetto semplicissimo, come sarà poi anche per
Scoto. L’ente è creato dall’Essere.
Il problema che si poneva era quello di elaborare una filosofia
che potesse servire alla teologia e alla giustificazione del dato di fede. Lo
strumento più adeguato appariva Aristotele, per cui la discussione verteva
soprattutto attorno ad Aristotele: come egli doveva essere interpretato e
quanto di lui si poteva utilizzare per interpretare e fondare in ragione il
dato rivelato.
Di particolare importanza, in questa discussione, appariva la
questione della metafisica, essendo il problema dell’essere evidentemente
connesso con il Nome divino «Colui Che È», che Tommaso traduce con
l’espressione ipsum Esse. Bonaventura
ha ben presente che Dio è questo ipsum
Esse, per cui egli in metafisica tralascia l’ente (on) aristotelico, temendo probabilmente che esso blocchi la mente
nel creato, e punta direttamente all’essere, del quale, come essere spirituale,
pensa, in base all’illuminismo agostiniano, di poter avere un’intuizione
immediata, che sia dispensata dal dover partire dall’esperienza sensibile.
Per questo Bonaventura pensa che per dimostrare l’esistenza di Dio
basti condurre all’estremo limite ciò che è implicito nell’idea dell’essere ed
apparirà l’essere nella sua assoluta purezza ed infinita perfezione[7].
Ebbene, questo è Dio. Ma – gli avrebbe obiettato Tommaso – chi ti dice che
questo ampliamento dell’idea dell’essere non sia un semplice lavoro della tua
mente, al quale nulla corrisponde di reale? Per questo Tommaso, partendo dal reale, ossia dall’on
contingente aristotelico, può mantenersi sul piano del reale, ed arrivare per
analogia al sommo Reale, anche se poi anch’egli superando Aristotele, però
sempre per via di causalità[8],
arriva all’ipsum Esse come
Bonaventura, Esse che Aristotele non
ha conosciuto, nè poteva conoscere, mancandogli l’idea della creazione, la
quale implica che Dio produce l’essere dal nulla e per poter far ciò, non può
non essere l’ipsum Esse.
Sorprende peraltro nella metafisica di S.Bonaventura la dottrina
secondo la quale ogni creatura, compreso l’angelo, sarebbe composta di materia
e forma[9].
Il Santo Dottore è ben consapevole che gli angeli sono creature spirituali; e
tuttavia non riesce a concepire come una creatura possa essere costituita da una
pura forma sussistente senza materia, nel che S.Tommaso non aveva difficoltà.
In Tommaso la forma mantiene la forza ontologica dell’eidos platonico: «forma – come egli dice – dat esse». L’essere è
forma.
Infatti per Tommaso la composizione ontologica della creatura,
spirituale o materiale, è data dalla composizione di essenza-potenza ed
essere-atto. Sia l’essenza che l’essere sono «forma»: questa superiore a
quella. L’essenza dell’angelo è pura forma senza materia. L’anima umana è forma
che ha l’essere per conto proprio. La creaturalità dell’angelo e dell’anima
sono dunque dati dal semplice fatto che
il loro essere è ricevuto da Dio. In Bonaventura, che non coglie la distinzione
reale tomista di essenza ed essere, la coppia materia-forma sembra essere un
sostituto della coppia tomista essenza-essere.
Il
Beato Duns Scoto
Duns Scoto è certamente il massimo frutto della promozione della
metafisica voluta dal Serafico nell’Ordine Francescano. Dispiace la successiva
disavventura di Ockham; ma mentre questi è all’origine di una serie di
disgrazie intellettuali, che arriveranno fino ai nostri giorni, per la sfortuna
della metafisica e l’infelicità della Chiesa, Scoto, invece, per grazia di Dio,
ed anche grazie alla sua santità, perfetta realizzazione della sapienza
francescana, lascerà una scuola illustre di teologia, gloria dei Francescani, la
quale si affianca a quella di S.Tommaso, gloria dei Domenicani, fiorenti
entrambe a tutt’oggi per il bene della Chiesa e della cultura cattolica. La
famose «sottigliezze» di Duns Scoto, certo comprensibili solo ai sapienti, non
sono assolutamente vano sfoggio di raffinata
intelligenza, ma sono premurosa carità di essere a servizio
dell’intelligenza cristiana.
La metafisica di Scoto ha per oggetto l’ente in quanto ente,
inteso secondo la famosa dottrina dell’univocità dell’ente, la quale non è
tanto da intendersi in opposizione alla dottrina tomistica dell’analogia,
quanto piuttosto dettata dalla preoccupazione di evitare l’equivocità. Anche
per Scoto, come per Tommaso, il concetto dell’ente è il primo, spontaneamente
concepito, il più comune e il più astratto, al di sopra di tutti i generi.
Esso, tuttavia, a differenza di quanto ne pensa S.Tommaso, che lo
vede – come abbiamo detto – polisemantico e dal significato internamente diversificato,
è inteso da Scoto come semplicissimo, identico a se stesso, ed indeterminato,
dall’unità ed identità perfetta, indifferente al finito e all’infinito. Le
determinazioni del concetto avvengono mediante la predicazione dei modi
trascendentali, dei generi e delle specie, per cui la nozione, che però resta sempre
univoca, si determina, si precisa, si particolarizza, si distingue, si
differenzia e si complessifica, fino alla specie specialissima. L’analogia e la
somiglianza, per Scoto, riguarda solo la diversificata e molteplice realtà
degli enti[10].
Inoltre, mentre Scoto intende il concetto dell’ente come il più
semplice di tutti, per Tommaso si tratta di un concetto composto, in quanto
egli definisce l’ente come id quod est,
«ciò che esiste». Abbiamo dunque due componenti: l’id quod, l’essenza ed est,
l’essere o esiste, esse. Per Tommaso
il concetto più semplice, allora, non è quello dell’ente, ma quello
dell’essere. Mentre però egli definisce l’essenza come id quo ens est, «ciò per cui l’ente è ciò che è», egli non tenta di
definire l’essenza dell’essere sia perché è una nozione intuitiva nota a tutti
mediante il verbo «essere», sia perchè non è l’essere che ha un’essenza, ma è
l’essenza che ha l’essere, così come la potenza ha il suo atto[11].
Non bisogna inoltre confondere l’univocismo scotista con quello
parmenideo. Scoto stesso, citando Aristotele, ce lo fa presente. Infatti lo
Stagirita, col suo famoso to on pollachòs
legòmenon, non intende escludere l’unità del concetto di ente, ma
l’univocismo parmenideo, per il quale tutti gli enti sono un solo ente. Scoto
ha un principio che può apparire verbalmente simile, ma il cui significato è abissalmente
differente. Per il Sottile «ogni ente è un ente», s’intende diverso dall’altro.
Così, mentre Parmenide cade nel panteismo dell’Uno-Tutto, Scoto semplicemente
afferma la molteplicità e diversità delle cose e la comunione fra di loro nell’unica
luce dell’essere[12].
Nella metafisica di Scoto l’ente coincide con l’essenza esistente.
L’ente non è, come in Tommaso, ciò che ha l’essere come atto dell’essenza (esse ut actus), ma semplicemente un’entità
in atto d’essere (esse in actu). L’esistere
o essere, infatti, non attua l’essenza, come in Tommaso, ma significa semplicemente
che l’essenza, prima solo possibile o progettata da Dio e in Dio, ossia nella sua
causa, adesso, una volta creata, è «fuori della sua causa»[13]
(ex-sistere), è attuata nella realtà.
Per Scoto l’essenza, nel venire all’esistenza, non è perfezionata
dall’essere, ma resta sempre quella; cambia solo il suo stato: prima era in Dio,
adesso è fuori di Dio. Per Scoto ogni essenza reale, anche solo pensata, ha la sua esistenza, in Dio come fuori di Dio.
Egli quindi non comprende che bisogno ci sia, per porre nella realtà
l’essenza, di aggiungere, come fa Tommaso, un esse a un’essenza che lo ha già da sé. Basta dire che l’essenza
acquista il modo d’essere extra causas,
certamente creato da Dio.
Ora, direbbe Tommaso, qui non si tratta di dentro o fuori. Qui c’è
in gioco l’esistere, per cui meglio sarebbe dire che prima di essere creata l’essenza
non esisteva, non c’era; adesso esiste. Prima era nulla; adesso è qualcosa di
esistente, è stata tratta dal nulla. Dunque l’esistere non è il semplice modo
reale dell’essenza già costituita in Dio, ma è attuazione dell’essenza, atto del
suo essere che la fa esistere, atto senza il quale essa sarebbe nulla, atto rispetto
al quale essa è potenza di essere ciò che il suo atto d’essere la fa essere.
D’altra parte, l’essenza non si dà da sé l’esistere. Esso è
qualcosa in più dell’essenza: è meglio esistere che non esistere. Questo lo
riconosce anche Scoto. L’esistere è creato da Dio. Anche per Scoto l’esistere extra causas si aggiunge all’essenza, ma è solo un diverso,
seppur più perfetto modo d’essere
dell’essenza prima solo esistente in Dio, identica a Dio, ma adesso esistente
realmente fuori di Dio. Invece per Tommaso non si tratta di un semplice modo d’essere, ma dell’essere sic et simpliciter.
L’essenza dunque per Tommaso non è un semplice possibile, ma un reale
poter esser-questo, che si attua, quando e se Dio gli dà l’esser questo, che è
atto dell’essenza. Scoto invece sminuisce la potenza creatrice riducendola a un
far cambiar stato sia pur perfezionandolo ad un’essenza già esistente in Dio:
prima dentro di Dio e poi fuori di Dio. Certo è così, ma Tommaso farebbe notare
che è troppo poco: l’atto creatore tocca l’essere più che l’essenza, supera
l’essenza dandole l’essere, benchè anche l’essenza sia creata. L’essenza è
certo qualcosa; ma senza l’essere essa è nulla. Sembra che per Scoto l’essenza
sia più importante dell’essere. Per Tommaso Dio
crea l’essere dell’essenza facendola così emergere dal nulla. Per Scoto Dio crea l’essenza e le dà il modo
d’essere dell’esistenza.
Con Scoto emerge chiaramente quello che d’ora in avanti sarà uno
dei temi più caratteristici della metafisica e della spiritualità francescana:
lo speciale interesse per l’ente singolo, cosa che porterà a sviluppare la
metafisica della persona singola[14],
della sua conoscibilità e del criterio della sua individuazione. Certamente uno
spunto per tale interesse proviene dalla Bibbia e in particolare dal Vangelo,
dove è evidente la valorizzazione dell’essere personale.
Su questo tema Duns Scoto mostra una maggiore sensibilità di
S.Tommaso. Un frutto stupendo di tale sensibilità lo si può considerare la tesi
scotista dell’Immacolata Concezione. Infatti, come è noto, la base metafisica della
conoscenza del singolo è la dottrina dell’ecceità, effetto della famosa
«distinctio formalis a parte rei», ossia la distinzione formale, vale a dire
intellegibile ed intuitiva tra i piani formali di una specie o tra due individui
della stessa specie, come sono due persone umane. Ciò comporta che il principio
ontologico d’individuazione della persona, per Scoto, a differenza di Tommaso, che
pone la materia segnata dalla quantità (materia
signata quantitate), è la differenza formale fra l’anima di Pietro e quella
di Paolo.
L’intuizione dell’essenza singola (wesenschau) ritorna con Husserl. Edith Stein elabora il concetto dell’Einfühlung, percezione intellettuale affettiva,
fondata sull’esperienza sensibile, dell’essenza dell’anima dell’altro. È
un’applicazione della distinzione formale da parte del reale (distinctio formalis a parte rei) di
Scoto: non è distinzione di ragione, perché non è fra concetti, come fra il
genere e la specie; non è distinzione totalmente reale, perché non è fra due sostanze
come fra due persone o fra due essenze specifiche, come fra l’uomo e il cane,
ma è quasi reale, fra due forme della medesima essenza specifica, come fra l’essenza
dell’uomo e l’essenza della donna. E difatti la Stein ci ha lasciato notevoli studi
sull’«ecceità» della femminilità.
Il
Venerabilis Inceptor. L’inizio della
fine.
Ma ecco che Ockham, nonostante questi nobili esempi di confratelli
che lo avevano preceduto, si lascia affascinare dall’invasione ideologica
islamica e pagana all’Università di Parigi e devia dalla spiritualità
francescana, pur restando nell’Ordine, anzi addirittura appoggiato dal Ministro
generale fra Michele da Cesena, soggetto però poco raccomandabile, ribelle a
Papa Giovanni XXII, che condannerà
Ockham in contumacia nel 1328 per essersi sottratto con la fuga ad un processo
in corso a suo carico.
Comunque gli articoli di fede restano nella sua teologia, ma sono come una casa costruita sulla sabbia.
All’irrompere delle stimolazioni sensistiche, volontariste, naturaliste,
fataliste, dualiste, antipapali provenienti dall’Islam, dai presocratici, dallo
stoicismo, dall’antica sofistica e dal catarismo, laddove l’occamismo perdurerà
e si diffonderà, nell’Inghilterra di John Wycliff prima e poi in quella di Enrico VIII e nella Boemia di Jan Hus, nell’Italia di Marsilio da
Padova, e nella Germania di Lutero, il fragile e raffazzonato edificio occamista
della fede comincerà a traballare e a perdere dei pezzi, e alla fine, nella
Francia di Voltaire e di Comte, nell’Inghilterra di Hume, di Bentham, di Darwin,
di Stuart Mill e di Bertrand Russell, nella Germania di Marx e nell’Austria di Freud,
del Circolo di Vienna e di Wittgenstein, finirà per crollare del tutto, travolto
dallo scientismo, dall’edonismo e dal superomismo nicciano. Lo stesso
volontarismo cartesiano non si può dire del tutto esente da echi occamistici.
Che cosa resta in Ockham dello spirito francescano? Ben poco. Certo
la fede non viene meno, ma è una fiammella
quasi soffocata da un antropocentrismo e da un attaccamento a questo mondo, che
non tarderà a fruttificare nei secoli seguenti fino ad oggi, generatore di barbarie,
di indisciplina, di presunzione, di una falsa libertà e di un torbido
scatenarsi degli istinti, che salgono «dal pozzo dell’abisso» (Ap 9,1) e della
tracotanza gnostica e prometeica dell’uomo che vuol farsi dio.
Il Concilio Vaticano II ha dato alla Chiesa senza dubbio un
prezioso corpo dottrinale e di insegnamenti pastorali. Ma ciò che è mancato è
stata la forza di una sufficiente energia speculativa, tale da risollevare le
misere sorti della metafisica, così necessaria per una fondazione razionale
delle fede, la quale è certo dono dello Spirito Santo e non effetto della
sapienza umana (I Cor 2,4). Ma senza l’esercizio della ragione è impossibile
arrivare alla fede, mantenervisi e difenderla dagli attacchi e dalle insidie
dell’errore.
Sta di fatto, comunque, che se il Concilio non ha dedicato una
speciale attenzione alla metafisica, non solo non vi ha posto ostacolo, ma
tutto il suo insegnamento la presuppone, la favorisce, le si ispira, con essa
concorda e quindi implicitamente la promuove, anche se non la nomina
esplicitamente, non fosse altro che per la raccomandazione che fa del pensiero
di S.Tommaso d’Aquino. La presenza umile, discreta e saggia della metafisica al
Concilio, benché nascosta, è come quella dell’interprete nel colloquio fra due
importanti personaggi, che altrimenti non potrebbero parlarsi: la Chiesa e il
mondo.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 14 agosto 2019
[1] Secondo Alféri in Ockham la
metafisica diventa un «fantasma». Mi sembra esagerato. Preferisco il giudizio di Padre Tyn, per il
quale Ockham pone la metafisica «sulla via della dissoluzione». Non siamo
ancora
a Hume o a Comte o al Circolo di Vienna; e però qui c’è lo sbocco delle
premesse di Ockham. Questi, dal canto suo, vive in un clima europeo di
cristianità, nel quale ancora per secoli la metafisica sarà considerata una
scienza. Ma il tarlo occamista farà la sua strada fino all’odierna desolazione,
alba di una nuova rinascita dopo il Concilio Vaticano II.
[2] Alessandro Ghisalberti, Introduzione a Ockham, Editori Laterza,
Roma-Bari 1976, p.28; Guglielmo di Ockham, Scritti
filosofici, Nardini Editore, Firenze 1991, p.165; T.Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione e
analogia entis, Edizioni ESD Bologna 1991, pp. 243, 256-257.
[3] Su questo tipo di astrazione, cf
B.-M.Simon, Esiste un’intuizione
dell’essere? Edizioni ESD, Bologna, 1995, p.62; J.Maritain, Sept leçons sur l’être et les premiers principes de la raison
spéculative, Téqui, Paris 1933, p.88-96.
[4] O.Todisco, G.Duns Scoto e Guglielmo D‘Occam – Dall’ontologia alla filosofia del
linguaggio, Libreria Universitaria, Cassino 1989.
[5] La philosophie de Saint Bonaventure, Librairie philosophique J.Vrin, Paris 1953, pp.73-74.
[6] Riduzione delle arti alla teologia, S.Bonaventura, Itinerario e Riduzione, a cura di
S.Martignoni, Edizioni Scolastiche Pàtron, Bologna, 1969,p.133.
[7] Itinerario, op.cit., c.III, 3; c.V.
[8] Invisibilia Dei, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur,
Rm 1, 20.
[9] Cf
E.Gilson, La philosophie de Saint
Bonaventure, Librairie philosophique J.Vrin, Paris 1953, pp.198, 200, 257.
[10] Hoeres, op.cit., pp.24-44;
Giovanni Duns Scoto, Il primo principio
degi esseri, a cura di Pietro Scapin, Liviana Editrice in Padova, 1973,
pp.22-26; Efrem Bettoni, Duns Scoto
filosofo, Editrice Vita e Pensiero, Milano 1966, pp.63-84: E.Gilson, Jean
Duns Scot. Introduction à ses positions fondamentales, Librairie Philosophique J.Vrin,
Paris 1952, pp. 84-115.
[11] In questo senso il Maritain non
sbaglia nel parlare di una intuizione dell’essere (Sept leçons sur l’être et les premiers principes de la
raison spéculative, Téqui, Paris,
1934, Leçon III), solo che la fa troppo in grande, quasi che si trattasse di un’intuizione
di pochi privilegiati. Invece questa intuizione è spontanea nella mente umana sin
dalla fanciullezza, implicitamente significata dall’uso del verbo essere. Inoltre Maritain ammette che si tratta
di un’intuizione non immediata o apriori, ma astrattiva, aposteriori, tratta dall’esperienza
sensibile ed affermata nel giudizio (cf Court
traité de l’existence et del’existant, Hartmann, Paris 1947). Il fatto è
che pochi si rendono conto del mistero che si nasconde nell’intuizione
dell’essere e sanno fare il passaggio dall’esse
all’ipsum Esse. Per contro Maréchal
la fa troppo facile a ritenere che ogni giudizio sia formato alla luce dell’Essere
assoluto. Per questo in modo poco convincente egli tenta poi di precisare che nella
vita presente non abbiamo un’intuizione dell’Essere assoluto (cfr Le point de départ dela métaphysique, Cahier
V, Louvain-Paris 1926).
[12] Vedi: Jean
Duns Scot, Sur la connaissance de Dieu et
l’univocité de l’étant, a cura di Olivier Boulgnois, Presses Universitaires
de France, Paris 1988, pp.148 e 154.
[13] Cit. da Walter Hoeres, La volontà come perfezione pura in Duns
Scoto, Liviana Editrice in Padova, 1976, pp.23-24.
[14] Cf Angelo Marchesi, Il pensiero gnoseologico di Giovanni Duns
Scoto, Casa Mariana Editrice, Frigento (AV), 2008, c.XII.
Caro Padre Cavalcoli,
RispondiEliminaNel suo articolo dice: "Da questo punto di vista la storia della filosofia inglese è estremamente istruttiva. Questo circolo perverso comincia con Ockham e da qui è tutto un susseguirsi ed un alternarsi ed accavallarsi agitato di grossolano empirismo e di etereo spiritualismo".
Da tempo mi interessa una questione di cui non ho ancora conclusioni certe: se la corrente filosofica empirista tradizionale è stata così forte tra i pensatori inglesi, in che misura questa corrente ha influenzato e forse si è rivelato nel pensiero del cardinale Newman?
Apprezzerei volentieri qualsiasi indizio su questo.
Grazie.
Caro Ross,
Eliminadevo dirle che io non ho quel livello di conoscenza del card. Newman, tale da consentirmi di rispondere in modo soddisfacente alla sua domanda.
Una cosa direi di poterla dare per certa e cioè che almeno nel suo periodo cattolico Newman non può essere stato un empirista alla maniera di Ockham, perché questo tipo di empirismo impedisce il realismo della conoscenza e quindi la possibilità della conoscenza di fede.