Un giudizio su Papa Francesco - Prima Parte (1/2)

 Un giudizio su Papa Francesco

Prima Parte (1/2)

Rimprovera il saggio ed egli ti amerà

Pr 9,8

 

Si può esprimere un giudizio sulla sua pastorale

Il teologo Padre Serafino Lanzetta, docente della Facoltà Teologica di Lugano, convinto discepolo del magistero della Chiesa e acuto critico delle eresie del nostro tempo, ha pubblicato l’anno scorso uno studio sul rapporto di Papa Francesco con la Chiesa con relazione a quella che è l’autorità del Papa, i suoi limiti e i suoi poteri: Super hanc petram. Il Papa e la Chiesa in un’ora drammatica della storia[1]. 

Giudicare l’operato di un Papa, specie se tuttora vivente, non è facile. Occorre avere le idee giuste sul suo ufficio e sulla sua missione. Padre Lanzetta parte pertanto ricordando quello che è il fondamento dell’autorità del Papa: il mandato fatto da Cristo a Pietro e di conseguenza ai suoi Successori di confermare i fratelli nella fede, aprire e chiudere la porta del regno dei cieli, pascere il suo gregge, cioè governare la Chiesa con amore.

Occorre inoltre essere bene informati sui fatti significativi circa i quali si è esercitata la condotta del Papa. E anche questa non è cosa facile, perché occorre basarsi su fonti attendibili e saper interpretare i fatti e selezionarli secondo una giusta scala di valori.

Fondamentale è nell’attività di un Papa la distinzione tra la sua funzione dottrinale di maestro della fede, dove il Papa è infallibile grazie all’assistenza dello Spirito Santo e la funzione pastorale o di governo, dove può peccare. È chiaro che il Papa può errare quando non esercita il suo munus petrinum o esprime opinioni personali o come dottore privato al di fuori del suo magistero universale.

È possibile dunque correggere il Papa nella sua condotta morale o nella sua funzione pastorale, ma non nel campo della dottrina della fede. Sotto questo aspetto il can.1404 del Diritto Canonico dice che il Papa «a nemine iudicatur».

Per giudicare in modo equanime dell’operato di un Papa bisogna porsi da un punto di vista imparziale, parimenti opposto ad opposti estremismi, fuori da ogni faziosità o parzialità. Occorre porsi dal punto di vista del Papa stesso, Padre di tutti e maestro di tutti. Principio dell’unità della Chiesa e della mutua conciliazione e reciprocità dei fattori, delle tendenze e delle correnti che la compongono.

Invece si dà la ventura che da 60 anni, dall’immediato postconcilio, due partiti all’interno della Chiesa sono in lotta fra di loro, entrambi in contrasto con una sincera obbedienza al Papa e quindi di carattere scismatico per non dire ereticale. Questo contrasto è nato a proposito del giudizio da dare sui documenti del Concilio.

Da una parte infatti nacque il partito avviato da Mons.Marcel Lefebvre e successivamente divisosi in diverse diramazioni, il quale pretende trovare nelle dottrine del Concilio asserzioni modernistiche, in contrasto con la Tradizione, partito spesso chiamato «tradizionalista» o «conservatore» in quanto i suoi aderenti si dicono preoccupati dal dovere di conservare il deposito della fede, a loro giudizio alterato dalle dottrine conciliari.

Questo partito pretendeva di rintracciare nelle dottrine del Concilio un contrasto con la dottrina tradizionale della Chiesa e non si accorse che l’ipotesi che un Concilio possa deviare in questo modo dalla Tradizione suppone, come già S.Paolo VI fece notare a Mons.Lefebvre un concetto sbagliato sia della Tradizione che dell’autorità dottrinale dei Concili.

Ogni Concilio rappresenta, ripropone ed esplicita la Tradizione.  La Tradizione non è una regola di verità alla luce della quale possiamo giudicare se un Concilio si adegui o non si adegui alla Tradizione. Allo stesso modo la dottrina della Chiesa non è una regola di verità alla luce della quale possiamo cogliere in fallo Papa Francesco. Sta qui il grave errore, tipicamente lefevriano, di Padre Lanzetta.

La dottrina tradizionale della Chiesa è regola di verità per noi comuni fedeli della Chiesa discente. Siamo noi che possiamo trasgredire a tale regola, non il Papa o un Concilio. Giacchè per mandato di Cristo essi sono esattamente i trasmettitori e gli interpreti del dato tradizionale.

Quindi non possiamo noi, membri della Chiesa discente, aver la pretesa di correggere la Chiesa docente, ma è compito di questa correggere noi se eventualmente deviamo dalla Tradizione. Insomma, non possiamo noi fedeli pretendere di esser più fedeli noi alla Tradizione che non lo stesso Magistero. Non siamo noi, ma è il Magistero ad esser custode della Tradizione. Altrimenti trasformiamo la Tradizione in un idolo gnostico superiore alla stessa autorità della Chiesa.

Altro errore dei lefevriani, che purtroppo Padre Lanzetta fa suo, è quello di sentirsi autorizzati a respingere le nuove dottrine del Concilio (che secondo loro sarebbero fatte surrettiziamente passare per «pastorali» dal Concilio) per il semplice fatto che esso non contiene la definizione di nuovi dogmi, ignorando il fatto che la Chiesa non è infallibile ossia verace solo quando proclama nuovi dogmi, ma tutte le volte che esercita il suo magistero in materia di fede e di morale, quale che sia il grado della sua autorità dottrinale, come si evince con chiarezza dalla Nota illustrativa della Congregazione per la Dottrina della fede in appendice alla Lettera apostolica Ad tuendam fidem di S.Giovanni Paolo II del 18 maggio 1988.

Dall’altra parte sorse un partito, ben più numeroso e dotato di maggior ascendente, sedicente «progressista», ma che sarebbe meglio chiamare «modernista», il quale, nato da teologi che come periti avevano partecipato al Concilio, appoggiati da alcuni Vescovi e Cardinali, Padri del Concilio, pretese e ancora pretende di essere l’autentico interprete delle dottrine conciliari, che esso invece stravolge in senso modernista, contro, quindi, l’interpretazione data dai Papi del postconcilio.

Lefevriani e modernisti soffrono dello stesso vizio che trova le sue radici in una visione metafisica hegeliana e non tomista. La cosa è ovvia per i modernisti, apertamente hegeliani. Appare paradossale per i lefevriani, che si dichiarano tomisti. Qual è il nodo della questione? Che gli uni e gli altri non sanno distinguere ed unire fra loro il mutevole e l’immutabile.

Infatti per Hegel il progresso e il nuovo si fondano sulla contraddizione, mentre l’identità esclude il divenire. Invece il concetto aristotelico del mutamento non implica nessuna contraddizione, perché è passaggio dalla potenza all’atto. Mentre dunque Aristotele consente di congiungere la continuità ossia l’identità col progresso, la scelta dell’identico ovvero dell’immutabile obbliga a rifiutare il progresso inteso come contraddizione[2]. Ma per ammettere il mutamento non è affatto necessario negare l’identità, perché, come dimostra Aristotele con la sua stessa definizione del divenire, anche il divenire ha una sua identità. Ne viene come conseguenza che l’opzione per l’immutabile non esclude il nuovo e il mutamento, mentre la scelta del progresso e del nuovo non comporta la contraddizione e quindi la negazione dell’immutabile.

Come si scioglie questo nodo? Distinguendo, come ho detto sopra, oggetto di fede e conoscenza di fede. La conoscenza muta non nel senso che muti l’oggetto, ma nel senso che muta la forma della conoscenza, ossia essa cresce, migliora e avanza. Ecco il nuovo.

 La luna è quella stessa di tre secoli fa. Ma un conto è la conoscenza che ne avevamo allora e un conto la conoscenza che ne abbiamo adesso. I modernisti dicono erroneamente che muta l’oggetto della fede. I lefevriani, per sostenere l’immutabilità dell’oggetto della fede, non accettano le novità dottrinali del Concilio. Facciamo la distinzione che ho detto fra oggetto di fede e conoscenza di fede, il nodo si scioglie e i modernisti e lefevriani faranno la pace.

Ora, Padre Lanzetta fa bene a denunciare la diffusione attuale di eresie moderniste e concordo con lui che l’Episcopato e il Papa stesso dovrebbero essere più vigilanti nel segnalarci i pericoli provenienti da queste eresie e nell’aiutarci a confutarle. Ma purtroppo il Padre Lanzetta, troppo legato al suo punto di vista filolefevriano, finisce col criticare Papa Francesco laddove egli ci segnale l’errore di quelli che egli chiama «indietristi» e che io preferisco chiamare «passatisti», insomma coloro che dai modernisti sono chiamati con accento spregiativo «tradizionalisti», quando in realtà non c’è nulla di male avere una speciale sensibilità per la Tradizione, supposto che la s’intenda non alla maniera di Mons.Lefebvre, che la vedeva in contrasto col Concilio, quando in realtà ogni Concilio è testimone della tradizione, facendocela meglio capire con le dottrine nuove, giacchè il nuovo non è necessariamente falso, ma è semplicemente la migliore conoscenza di ciò che si sapeva già.

Ora il Padre Lanzetta, senza dichiararsi lefevriano, di fatto mostra di aver fatto suo il  giudizio dei lefevriani sulle dottrine del Concilio e per conseguenza il suo giudizio negativo sui Papi del postconcilio che le sostengono, nonchè circa il trasformazione  del rito della S.Messa dal vetus ordo al novus ordo. Egli infatti condivide le critiche alle dottrine del Concilio fatte da Mons. Gherardini, Roberto De Mattei e Mons. Carlo Maria Viganò.

Ora Padre Lanzetta dovrebbe rendersi conto che questo punto di vista non è l’ideale per dare di Papa Francesco una valutazione serena, obbiettiva ed imparziale. Il punto di vista giusto è quello che ha proposto Benedetto XVI riguardo all’interpretazione del Concilio: progresso nella continuità, tema al quale ho dedicato un libro intero[3].

È solo mettendosi da questo punto di vista che si può valutare oggettivamente l’operato di Papa Francesco, senza negare il fatto abbastanza evidente che finora egli è stato troppo indulgente con i modernisti e troppo severo con i lefevriani. Solo di recente ha dato segni di assumere una posizione di equidistanza, veramente degna di un Papa, Padre di tutti i cattolici. È peraltro solo da una simile posizione che Papa Francesco potrà conquistare la credibilità e l’autorevolezza da ambo le parti sufficienti per operare la tanto sospirata pace e conciliazione fra gli opposti estremismi.  

Se noi ci poniamo dal punto di vista dei lefevriani, non c’è da stupirsi che il Papa ci appaia come un distruttore della Chiesa e che la Chiesa ci appaia nella situazione dell’apostasia finale. Ma allora ciò vuol dire non saper apprezzare le novità apportate dal Concilio e che Papa Francesco si sforza di affermare e far fruttare. In tal modo perderemo di vista i lati buoni e lodevoli del papato di Francesco, senza per questo cadere nell’eccesso opposto dei modernisti che lo adulano per i loro interessi. È vero, come dice Padre Lanzetta, che mai come oggi la Chiesa è stata percorsa e lacerata da tante forze distruttive. Ma tali forze non sono solo quelle dei modernisti; sono anche quelle dei lefevriani.

Dunque, per aver autorità e credibilità nel denunciare i mali oggi esistenti nella Chiesa e per proporre una via di uscita, dobbiamo porci da quel punto di vista di imparzialità che concilia tradizione e progresso, rinnovamento e conservazione secondo il modello che sorge dal Concilio e che è quello che tutti i Papi del postconcilio, compreso Francesco, in fin dei conti ci propongono.

Quando il Papa è infallibile

Tornando adesso al tema dell’autorità dottrinale del Papa, dobbiamo notare che la sentenza dottrinale di un Papa, in materia di fede o di morale, a qualunque livello di autorità, ordinario o straordinario, semplice o solenne, è sempre infallibile e definitiva, nel senso che è assolutamente certa e vera, immutabile, irreformabile, infalsificabile, inconfutabile.

Non è necessario all’infallibilità che il Papa intenda definire un nuovo dogma o definire come di fede o come dato rivelato questo insegnamento. Anche se il Papa non definisce, non per questo la sua dottrina è fallibile. Questo è un fatto documentato dalla stessa storia del magistero pontificio e quindi conciliare: non è mai successo che un Papa si sia ricreduto o sia stato smentito da un Papa successivo su di una proposizione da lui proposta in materia di fede e di morale  nella sua qualità di maestro della fede, ovvero di dottore universale della Chiesa.

La questione dibattuta da canonisti e teologi medioevali se un Papa può essere eretico oppure che cosa succede se un Papa fosse eretico, non va interpretata come problema reale, ma è pura questione scolastica o accademica, che conferma l’immunità del Papa dal peccare contro la fede. Certamente un Papa eretico perderebbe il suo ufficio. Si vuol solo evidenziare una conseguenza logica che conferma il principio, non esprimere una possibilità reale.

La questione che semmai può sorgere è se una proposizione teologica è o non è di fede. La cosa, all’inizio, può non essere chiara e quindi la questione viene dibattuta fra i teologi. Finché il Papa non si pronuncia, c’è libertà di sostenere l’una o l’altra tesi. Ma se il Papa interviene ed esprime la sua sentenza, tutti devono stare col Papa: Roma locuta, causa finita.

Occorre distinguere il magistero pontificio dalla dottrina della Chiesa, che interpreta la dottrina della Tradizione e la dottrina della Sacra Scrittura, che sono registrazioni scritte dell’insegnamento orale di Nostro Signore Gesù Cristo.

Ora Cristo ha istituito l’ufficio di Pietro affinchè egli, recepita la dottrina del Signore, la trasmettesse ai suoi Successori. Se quindi Pietro si è trovato ad apprendere la verità di fede direttamente dalla bocca del Signore, i suoi Successori recepiscono e trasmettono ai Successori quanto Pietro ha udito dal Signore.

Questa trasmissione è la Tradizione e il suo contenuto è la dottrina tradizionale. Ma Pietro e i suoi Successori trasmettono anche la dottrina della Scrittura, che essi imparano dalla stessa Scrittura. La dottrina che essi elaborano o da soli o con l’aiuto di un Concilio o servendosi di collaboratori come il Dicastero per la Dottrina della Fede formula la dottrina della Chiesa.

Ora Padre Lanzetta formula l’ipotesi che un Papa non si attenga alla dottrina della Chiesa; ma ciò è impossibile, per il motivo che ho già detto e cioè che ogni Papa è assistito dallo Spirito Santo nella recezione, interpretazione, conservazione, spiegazione, difesa, approfondimento e predicazione del deposito rivelato, contenente la dottrina tradizionale e quella della Scrittura interpretate dal Magistero della Chiesa.

Il Magistero della Chiesa non è altro che un’estensione del magistero pontificio all’opera dei Concili ed agli organismi ausiliari del Papa nell’esercizio del suo magistero. Il Papa è in possesso di una grazia speciale – il carisma petrino - per la quale egli non può discostarsi dalla dottrina della Chiesa, ma anzi col suo insegnamento può farne avanzare la conoscenza. Non ha senso, quindi, come dice Padre Lanzetta, ipotizzare che il Papa possa costruirsi una fede per conto suo, una «fede soggettiva», come la chiama Padre Lanzetta, in contrasto con la «fede oggettiva» della Chiesa.

Il Magistero pontificio può esprimersi a tre livelli di autorità. Il livello massimo è la definizione solenne nel Magistero straordinario, di un nuovo dogma, alla quale definizione il fedele aderisce con fede divina. Il rifiuto di questa verità è eresia. Il livello medio è l’enunciazione, nel magistero ordinario o straordinario, di una verità prossima ad una verità di fede già definita, alla quale il fedele aderisce per la sua fede nella Chiesa. Il suo rifiuto è l’errore prossimo all’eresia. Il livello minimo è la verità di fede definibile, insegnata dal Magistero autentico anche in forma straordinaria[4], verità alla quale il fedele aderisce con il devoto ossequio dell’intelligenza[5]. Il rifiuto è errore contro la dottrina della Chiesa.

Il Papa può perdere la fede? Può peccare contro la fede? Può essere eretico? Può come Papa insegnare come verità l’eresia? No assolutamente. Un Papa può avere tutti i vizi, come dimostra la storia, ma non quello dell’incredulità, come pure dimostra la storia, perché fruisce del dono che Cristo ha fatto a Pietro di confermare i fratelli nella fede e di poter aprir loro l’accesso al Regno di Dio.

Ipotizzare che un Papa possa essere eretico, intendendo per eresia l’ostinata consapevole e volontaria negazione o falsificazione di un dogma o di verità di fede, vorrebbe dire ipotizzare che Cristo smetta di servirsi di Pietro come maestro della fede.

Vorrebbe dire ipotizzare un Papa che invece di conservare, edificare e difendere la Chiesa, la distrugga o possa mutarne l’essenza, invece di operare come vicario di Cristo, operi come strumento dell’anticristo, invece di guidare la Chiesa al paradiso, la guidi all’inferno: cosa assolutamente impensabile, anche se molti eretici l’hanno pensata. Chi crede che un Papa possa essere eretico, è a sua volta eretico.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

 Fontanellato, 3 agosto 2023


Occorre distinguere il magistero pontificio dalla dottrina della Chiesa, che interpreta la dottrina della Tradizione e la dottrina della Sacra Scrittura, che sono registrazioni scritte dell’insegnamento orale di Nostro Signore Gesù Cristo.

Ora Cristo ha istituito l’ufficio di Pietro affinchè egli, recepita la dottrina del Signore, la trasmettesse ai suoi Successori. Se quindi Pietro si è trovato ad apprendere la verità di fede direttamente dalla bocca del Signore, i suoi Successori recepiscono e trasmettono ai Successori quanto Pietro ha udito dal Signore.

Questa trasmissione è la Tradizione e il suo contenuto è la dottrina tradizionale. Ma Pietro e i suoi Successori trasmettono anche la dottrina della Scrittura, che essi imparano dalla stessa Scrittura. La dottrina che essi elaborano o da soli o con l’aiuto di un Concilio o servendosi di collaboratori come il Dicastero per la Dottrina della Fede formula la dottrina della Chiesa.

Ora Padre Lanzetta formula l’ipotesi che un Papa non si attenga alla dottrina della Chiesa; ma ciò è impossibile, per il motivo che ho già detto e cioè che ogni Papa è assistito dallo Spirito Santo nella recezione, interpretazione, conservazione, spiegazione, difesa, approfondimento e predicazione del deposito rivelato, contenente la dottrina tradizionale e quella della Scrittura interpretate dal Magistero della Chiesa. 



Immagini da Internet:
- statua di San Pietro, Roma
- Padre Serafino Lanzetta


[1] Edizioni Fiducia, Roma 2022.

[2] Bontadini e Severino negli anni ’60-‘70 del secolo scorso si impegnarono in una diatriba durata 15 anni sulla questione se il divenire è o non è contradditorio, girando sempre attorno a Parmenide e ad Hegel. Se si fossero rivolti ad Aristotele si sarebbero risparmiati tanta fatica e interminabili discussioni. Vedi la storia narrata da Marco Berlanda, L’unica svolta di Bontadini. Dal fideismo attualistico alla metafisica dell’essere, Vita e Pensiero, Milano 2022.

[3] Progresso nella continuità. La questione del Concilio Vaticano II e del post-concilio, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2011.

[4] Secondo Mons. Guido Pozzo, ex-Delegato pontificio per la Commissione Ecclesia Dei per le trattative con i lefevriani sotto Benedetto XVI, questo è il grado di autorità delle dottrine del Concilio.

[5] Questi tre gradi sono insegnati nella Nota illustrativa della Congregazione per la Dottrina della fede in appendice alla Lettera apostolica Ad tuendam fidem di S.Giovanni Paolo II del 18 maggio 1988.

3 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    mi ha sorpreso (molto favorevolmente) il modo in cui lei insiste che, di fronte ai poteri del Magistero della Chiesa, noi siamo "fedeli comuni" e "Iglesia discenti". E quello che mi sorprende è che lo dica lei, un vero teologo, con esperienza di decenni e decenni, e in posizioni alte nella Chiesa.
    Penso che questo abbia a che fare con ciò che distingue un "teologo cattolico" da altri teologi, protestanti per esempio, che non sviluppano la loro azione sotto il controllo di un magistero superiore.
    Quanto dici ora mi ricollego a un suo precedente articolo, sui Vescovi, dove lei lamenti che oggi, purtroppo, di fronte al silenzio magisteriale dei Vescovi, che evitano di assumersi le proprie responsabilità di maestri della fede per il loro gregge, sono i teologi che si mettono al posto dei Vescovi, come se la "teologia sistematica" venisse a sostituire la funzione che l'insegnamento episcopale ha nella Chiesa. A questo proposito, posso qui rilevare come spesso, ad esempio, il teologo laico italiano Andrea Grillo, con prepotenza, parli costantemente della "missione insostituibile del teologo sistematico", senza mai accennare all'ufficio magisteriale del Papa e i Vescovi.

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    1. Caro Silvano,
      l’analisi che lei fa mi trova del tutto d’accordo. È una situazione che si è incancrenita, perché si trascina ormai dalla fine del Concilio, quando ci fu l’exploit dei rahneriani, i quali si erano fatti la fama di protagonisti del Concilio, per cui, all’apparire delle loro prime eresie, i vescovi si trovarono spiazzati e, per non fare la figura di anticonciliaristi, cominciarono a tacere. E il gioco fu fatto sin da allora.
      Per quale motivo? Perché i rahneriani, visto che davanti a loro c’era lo spazio libero, lo occuparono immediatamente in modo tale che da allora l’episcopato è sempre stato debole. Questa fu la situazione che ha messo in croce i Papi, sin da San Paolo VI.
      Da allora i Papi sono rimasti isolati rispetto all’episcopato, per cui, pur continuando il loro ufficio petrino, e diversamente non poteva essere, non sono più riusciti a gestire la Chiesa in modo da reprimere le deviazioni.
      Che cosa possiamo fare? Bisogna che tutti assieme - ecco la sinodalità -, laici, sacerdoti, vescovi e teologi, lavoriamo assieme per risolvere questa situazione. E concretamente, che cosa fare? Un lavoro molto modesto di collegamento tra tutti coloro che condividono questa sofferenza e questa speranza, in modo da ritrovare la comunione e la pace, e in particolare l’unità del Popolo di Dio col suo Pastore Universale, Vicario di Cristo.

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    2. Caro Padre Cavalcoli,
      grazie per le sue parole e sono lieto di condividere questi criteri con una persona saggia come lei.

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