Il mistero dell’eresia (Terza Parte - 3/3)

 Il mistero dell’eresia (3/3)

Il dogma

L’eresia si oppone direttamente al dogma. La parola «dogma» proviene dalla filosofia greca e precisamente dal verbo dokeo, che significa l’espressione verbale di un pensiero o di una volontà in un duplice senso: o della certezza o dell’opinione, cosa comprensibile nella filosofia greca, dove il filosofo stenta a distinguere ciò che è universalmente certo da ciò che è sua opinione.

Ma nella Scrittura chiarissima è la distinzione fra il dogma divino, assolutamente certo, la Parola di Dio (dabar, logos) e il dogma umano, nella sua incertezza. Per questo i libri sapienziali, senza negare che il sapiente possegga una sapienza razionale (hokmah), esaltano, ben al di sopra di essa, la sapienza ovvero il dogma divino, la Parola di Dio, verità assoluta. Questa parola è un «mistero» (sod, raz), che può essere eventualmente il contenuto di un «sogno» e l’uomo può chiedere a Dio che gli venga rivelato (cf Dn 2,18).

Il dogma successivamente, nel Nuovo Testamento è il contenuto di un precetto divino o supposto tale. In tal senso San Paolo parla di dogma nel senso di decreto della Legge (Col 2,14) ed usa il verbo dogmatizo per riferirsi a precetti supposti divini, che però non lo erano (cf Col 2,21). E successivamente nella Chiesa, dogma sarà la verità di fede insegnata dalla Chiesa, contraddetta dall’eresia. Dogma ed eresia sono dei nemici inconciliabili, e chi crede di trovare una via di mezzo, è una persona doppia, che vorrebbe mettere assieme il sì e il no.

Il dogma è dunque un insegnamento espresso in modo solenne, in forma di proposizione assertoria, definitoria o sentenziale, formulato dal Sommo Pontefice come Capo della Chiesa, con apposito linguaggio, che interpreta al grado massimo di autorità della Chiesa, infallibilmente e quindi irreformabilmente e definitivamente, un dato o asserto della Rivelazione contenuto o nella Scrittura o nella Tradizione.

Il dogma è la forma più autorevole, chiara e certa con la quale il Papa in circostanze straordinarie vagliate a suo insindacabile giudizio infallibile, ex sese, come dice il dogma dell’infallibilità pontificia, o come presidente di un Concilio Ecumenico, insegna definendo, chiarendo o precisando una verità di fede divina e teologale, chiudendo definitivamente la discussione su di essa. Roma locuta, causa finita. Chi da quel momento osa negare, falsificare o male interpretare o dubitare della verità di questo insegnamento della Chiesa, è eretico. Secondo il linguaggio tradizionale dei Concili è «anàtema», ossia scomunicato.

Il Papa, come Successore di Pietro è colui che nella Chiesa determina definitivamente ed infallibilmente, quindi irreformabilmente, quelle che sono le verità di fede, ossia gli articoli del Credo e i dogmi. Nessuno può sostituirsi al Papa in questo compito, perché compirebbe un abuso proibito da Cristo, che ha incaricato per questo ufficio Pietro e solo Pietro. Il sopruso degli eretici è appunto quello di voler su questo punto sostituirsi al Papa o correggere il Papa o saperne più del Papa.

Chiunque tenta di sostituirsi al Papa nel definire ciò che è di fede formula una dottrina fallibile, arbitraria, parziale, incerta, limitata ad una data area geografica, a un dato popolo, a una data cultura, a un dato tempo, priva di quella universalità della quale è dotata la vera dottrina di fede, il vero dogma. Solo questa dottrina, come già insegnava San Vincenzo di Lerino, è predicata, insegnata ed accolta semper et ubique, è «cattolica».

Tuttavia, come precisa la Lettera Apostolica Ad tuendam fidem di San Giovanni Paolo II del 1998, esistono anche altri due gradi inferiori di autorità dottrinale della Chiesa, nei quali essa ci insegna sempre la verità di fede, ma  con una forza inferiore a quella che essa mette nelle solenni definizioni dogmatiche, nelle quali la Chiesa dichiara di voler definire o dichiara che sono di fede.

Perché questi differenti livelli? Che bisogno c’è? Uno potrebbe dire: a me basta sapere se una data tesi o proposizione o dottrina del Vangelo o della Chiesa è di fede oppure no. Nelle narrazioni evangeliche circa gli insegnamenti di Cristo, la questione appariva molto semplice: se credere o no a quello che Egli dichiarava di insegnare da parte del Padre.

Occorre distinguere la dottrina evangelica di Cristo ovvero gli insegnamenti o loghia di Cristo, quelle che Egli chiama le «sue parole» dagli insegnamenti o dottrina della Chiesa, i dogmi. I dogmi sono interpretazioni o esplicitazioni o spiegazioni delle parole di Gesù. La virtù teologale della fede ha per oggetto le parole di Gesù, ciò che Egli ci rivela da parte del Padre. Tale virtù si estende anche ai dogmi: «chi ascolta voi ascolta me» (Lc 10,16).

Mentre le parole o dottrina o insegnamenti di Cristo sono fissati nel Vangelo, la dottrina della Chiesa va soggetta ad un’evoluzione nel senso di una progressiva spiegazione ed esplicitazione, un progressivo approfondimento, consolidamento e miglioramento della conoscenza delle parole del Signore. Esse sono sempre quelle, sempre le stesse, non passano (Cf Mt 24,35). Per questo succede che mentre le parole di Cristo o si credono o non si credono, la dottrina della Chiesa è oggetto di una fede che è aumentabile o perfezionabile o rafforzabile secondo tre differenti gradi che sono illustrati nella Nota dottrinale illustrativa della formula conclusiva della Professio fidei all’Ad tuendam fidem.

A questi tre gradi di forza, dunque, con i quali la Chiesa propone la sua dottrina, corrispondono tre gradi di convincimento con i quali il fedele accoglie gli insegnamenti della Chiesa. Al primo grado di autorevolezza corrispondente all’insegnamento del dogma il fedele corrisponde con un atto di fede divina e cattolica.

Al secondo grado, corrispondente a «tutte quelle dottrine attinenti al campo dogmatico o morale, che sono necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede, sebbene non siano state proposte dal magistero della Chiesa come formalmente rivelate»[1], corrisponde nel fedele un «assenso fermo e definitivo fondato sulla fede nell’assistenza dello Spirito Santo al magistero della Chiesa» (ibid.).

Al terzo grado appartengono «tutti gli insegnamenti in materia di fede e di morale presentati come veri o almeno sicuri, anche se non sono stati definiti con giudizio solenne né proposti come definitivi dal magistero ordinario e universale» (n.10, Can. 752), Ad essi il fedele «aderisce con religioso ossequio della volontà e dell’intelletto».

Com’è che la Chiesa a un certo momento, arriva a proclamare un nuovo dogma? La conoscenza degli articoli di fede aumenta continuamente nel popolo di Dio, nei pastori e nei teologi. Ed inoltre nella Scrittura e nella Tradizione esistono insegnamenti che trattano argomenti di fede, ma non è chiaro se a tali insegnamenti occorra aderire o no con una fede divina e cattolica, così che possano considerarsi dogmi. Si apre un dibattito: c’è chi dice che si tratta di verità di fede e chi dice che sono solo pie credenze o dottrine teologiche o tradizioni popolari o magistero autentico, ma non definibile. A volte c’è chi dice che addirittura si tratta di falsità. A volte gli studi portano a ritenere che si tratti di dottrine dogmatizzabili. In altri casi resta il dubbio. In altri casi l’ipotesi viene esclusa.

Se la credenza si chiarisce e si rafforza per un aumento delle ragioni teologiche a favore della dogmatizzazione, la Chiesa, se e quando lo ritiene opportuno o necessario, eventualmente per far tacere gli avversari, può procedere alla dogmatizzazione. E così sorge un nuovo dogma, che ovviamente non aumenta il deposito rivelato, ma lo fa comprendere meglio e con maggior certezza.

Il teologo che fra tutti ha maggiormente preparato con la sua dottrina alcune definizioni dogmatiche, è San Tommaso. Infatti i seguenti dogmi sono stati l’approvazione di sue dottrine:

1.La dottrina dell’anima umana come forma sostanziale del corpo nel Concilio di Viennes del 1312;

2. La dottrina della visione beata dell’essenza divina definita da Papa Benedetto XII nel 1336;

3. La dottrina della Persona divina trinitaria come Relazione sussistente nel Concilio di Firenze del 1442;

4. La dottrina dell’immortalità dell’anima umana al Concilio Lateranense V nel 1513;

5. La dottrina della Redenzione al Concilio di Trento nel 1547;

6. La dottrina della dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio al Concilio Vaticano I nel 1870.

7. La dottrina della resurrezione dell’uomo e della donna, riconosciuta da San Giovanni Paolo II nel 1981.

Il progresso dogmatico

Il dogma si può considerare o in relazione al suo oggetto o come conoscenza dell’oggetto. Il dogma in relazione all’oggetto, ossia il dato di fede, è immutabile. Non muta il significato del dogma, ma come conoscenza muta nel senso che questa conoscenza progredisce. Si può dire che la conoscenza evolve; ma non evolve il contenuto. La conoscenza diviene migliore; il contenuto resta fisso. Tuttavia la conoscenza di un dogma può mutare o nel senso di migliorare o nel senso di peggiorare. L’evoluzione della conoscenza può essere verso il meglio. Abbiamo allora progresso e avanzamento. Oppure l’evoluzione va verso il peggio. Si parla allora di involuzione, regresso, retrocessione.

Un conto è il conservare e un conto è il conservatorismo. Un conto è la saldezza e un conto è la rigidità. Un conto è il vecchio e un conto è l’antico. Occorre conservare ciò che dev’essere conservato e abbandonare ciò che va abbandonato. Ma occorre anche migliorare ciò che dev’essere conservato.  Conservazione e progresso devono andare insieme. A volte occorre anche ripristinare, ritrovare, ricostruire, restaurare ciò che si è perduto o distrutto.

Papa Benedetto XVI ha parlato di una continuità di significato del dogma, significato che pur restando sempre identico a sé stesso, viene progressivamente sempre meglio conosciuto. Nel dogma c’è qualcosa che non muta, ed è il suo oggetto; e c’è qualcosa che muta, ed è il dogma inteso come conoscenza.

Ora la continuità si oppone alla discontinuità contradditoriamente. È dunque un’idea stolta quella di Michael Seewald di proporre in un suo recente libro, di concepire il dogma come «un equilibrio dinamico tra continuità e discontinuità»[2]. Sarebbe come se un addetto alla fornitura dell’energia elettrica in un condominio proponesse agli inquilini come modello di fornitura ideale dell’erogazione non un’erogazione continua, ma «un equilibrio dinamico tra continuità e discontinuità».

Che cosa direbbero gli inquilini di una simile proposta? Non gli chiederebbero, come minimo, se sta scherzando o dice sul serio? Ora io mi chiedo per quale motivo ad un elettricista si richiede di usare la ragione, mentre un teologo ne può essere dispensato in una materia ben più importante della fornitura dell’energia elettrica?

La continuità è un pregio; la discontinuità è un difetto. Che senso ha parlare di equilibrio dinamico fra un pregio e un difetto? L’equilibrio è una medietà o il punto di conciliazione tra due estremi o due esagerazioni opposti. Continuità implica permanenza, immutabilità, armonia, solidità, sicurezza, stabilità, omogeneità, identità nel tempo, affidabilità. La continuità è il pregio dello spirito, della virtù, della perfezione, della verità.

Discontinuità invece vuol dice mutamento, contraddizione, contrasto, incertezza, fluidità, incoerenza, instabilità, disarmonia, interruzione, frattura.  È sinonimo di rottura e di incoerenza e quindi di infedeltà. Le persone o i servizi discontinui non sono affidabili. È la caratteristica della materia, del disordine, della casualità, dell’imperfezione.

Ai nostri cari amici massoni e modernisti vorremmo dire che il dogma è una verità magnifica, trascendente, luminosa, nutriente, vivificante, liberante, consolante e fortificante, sulla quale possiamo contare in modo assoluto, verità eterna che sazia la nostra sete di verità eterna, un oceano di verità indagabile senza fine e che sempre ci riserva sorprendenti scoperte e ci mostra nuovi tesori, verità che è regola del nostro agire, verità che ci indica la meta finale, verità che costruisce la nostra storia, verità immutabile e incorruttibile, alla quale possiamo attingere continuamente, affidarci per sempre, roccia salda sulla quale poggiare la nostra mente con sicurezza e certezza incrollabili, base sulla quale costruire la nostra vita, luz caliente, come diceva S.Giovanni della Croce, che stimola all’amore, baluardo contro lo spirito della menzogna,  fortezza che ci fa resistere nelle prove.

Il vero progresso suppone una concezione analogica dell’essere, della realtà e della verità. Non avviene per negazione, ma per una conferma superiore dell’affermazione. Nel progresso c’è bensì una negazione, ma sulla base di un’affermazione che resta ed assicura la continuità. Non si nega tutto. Così ci sarebbe discontinuità. Il successivo non avrebbe alcun rapporto col precedente. Se una cosa progredisce, vuol dire che è quella stessa cosa che al termine del progresso è progredita e non un’altra. Nel progresso dunque avviene un superamento, ossia l’aggiunta al soggetto del progresso di una novità che lascia intatto e conferma ciò a cui la novità si aggiunge.

Lo sviluppo, il progresso, la spiegazione e l’esplicitazione sono forme di passaggio dalla potenza all’atto. Esiste bensì un progresso e un rinnovamento per sostituzione, ma solo quando si tratta di valori caduchi, corruttibili e deperibili. Occorre abbandonare un passato di peccato, ma non certo una strada buona che si è intrapresa. Questo è l’inganno del diavolo: farci credere che ciò a cui avevamo promesso fedeltà è in realtà inaffidabile o è invecchiato e quindi da buttare.

Conciliare nel dogma continuità con discontinuità non è equilibrio, ma doppiezza, è unire il sì al no, è servire a Cristo e a Beliar, a Dio e al mondo. Bisogna invece conciliare tradizione e progresso, conservazione e riforma, rinnovamento e fedeltà.

È come se un gruppo di amici architetti volessero costruire assieme un edificio. Tra di loro ce n’è uno che ha un piano perfetto e completo, mentre gli altri presentano un piano carente o difettoso sotto diversi punti di vista. Che il fa il gruppo? Gli amici cominciamo a far conoscere gli uni agli altri il proprio piano. Ci si trova d’accordo su molte cose. Finito però questo confronto, quello tra di loro che possedeva il piano completo si accorge delle carenze e le fa notare. Gli altri lo ringraziano dell’avviso, fanno propri i rilievi e iniziano a costruire l’edificio.

Questa parabola ci fa capire come e perché si é inceppato il dialogo. Gli esponenti delle diverse confessioni, dopo un dialogo che ormai dura da cinquant’anni, hanno ormai preso coscienza delle verità comuni. Ma a questo punto che sta succedendo? Che i cattolici tergiversano menando il can per l’aia, mentre i non-cattolici, con una notevole dose di presunzione, credono di possedere già tutta la verità e che quindi i cattolici non abbiano da aggiungere alcunché a quello che sanno già. Ma non è affatto così. A questo punto pregare lo Spirito Santo perché conceda il dono dell’unità, è prendersi gioco dello Spirito Santo.

Occorre invece che i cattolici sappiano con carità, forza persuasiva e chiarezza, essere «pronti a rispondere a chiunque domandi ad essi la ragione della speranza che è in loro» (I Pt 3,15), così da mostrare ai fratelli separati la bellezza e la necessità delle verità mancanti, da accogliere con umiltà, gioia e rendimento di grazie a Dio.

La missione domenicana, terapia dell’intellectus fidei

Nella Chiesa ogni istituto religioso svolge un compito speciale al servizio della Chiesa e delle anime.  Il fine dell’Ordine dei Frati Predicatori fu definito da Papa Onorio III nella Bolla del gennaio del 2017 con le  parole: «Nos attendentes fratres Ordinis tui futuros pugiles fidei et vera mundi lumina, confirmamus Ordinemn tuum»[3]. C’è l’idea paolina della «buona battaglia». Il Domenicano è un combattente della fede.

Però il Domenicano è anche un medico. Papa Onorio chiama i Domenicani «studiosi medici»[4]. Come infatti è noto, il teologo domenicano è particolarmente preparato per la cura delle eresie[5]. L’aspetto battagliero accentua il tema del coraggio; quello medicinale, il tema della misericordia. Sono le due anime del Domenicano.

In passato – dobbiamo dirlo – è stata troppo accentuata l’anima battagliera, che del resto era nello spirito dei tempi e nella stessa struttura giuridica della Chiesa. La missione del Domenicano fu inserita, come è noto, in un sistema pastorale dal timbro giudiziario con accenti soprattutto repressivi, che assimilava il domenicano ad una specie di tutore dell’ordine e puntava non tanto sulla correzione, quanto sulla deterrenza.

Poco ci si curava di quelle che potevano essere attenuanti o scusanti dell’eretico. Poco veniva rispettato il diritto alla libertà religiosa. Poco si cercava di capire quali erano le sue intenzioni profonde al di là del comportamento esterno e del senso delle sue frasi ut littera sonat.

L’idea della funzione di medico del domenicano era in sordina. Si trattava di vigilare, denunciare, indagare, cercar prove, controllare, avvertire, ammonire, minacciare, sorprendere possibilmente in flagrante, accusare, processare, condannare, punire. E quali punizioni! È esistita anche la tortura. Certo non mancavano i metodi persuasivi. Con Giordano Bruno l’Inquisizione tentò per otto anni di persuaderlo. Tuttavia prevaleva una sostanziale sfiducia che l’eretico potesse pentirsi e correggersi.

La riforma della pastorale e del diritto operata dal Concilio Vaticano II non poteva non coinvolgere anche lo stile della pastorale domenicana, la quale ha abbandonato l’asprezza del passato e accentuato l’orientamento terapeutico e misericordioso, che del resto era nell’anima dell’Ordine fin dalle origini. Il rischio di oggi è quello di indebolire o trascurare la lotta all’eresia, col pretesto della misericordia. Il lavoro da fare invece è quello di impostare questa lotta in modo più conforme con la riforma pastorale conciliare. Il male è sempre da togliere, ma con un maggior rispetto del malato.

Occorre allora che si affermi l’idea dell’eresia intesa non tanto come nemico da battere, quanto piuttosto come una malattia da curare. Aggredire sì la malattia, ma con un intenso amore e compassione per il malato. Non si escludono l’ammonimento e il rimprovero e anche la minaccia sull’esempio stesso di Cristo. E ciò può essere pagato caro dal Domenicano, come è capitato a Cristo stesso.  Ma occorre avvertire l’opera di chi combatte l’eresia come un prezioso servizio al bene comune, benché ciò esponga il predicatore o il teologo alle vendette degli eretici.

Si è giustamente grati verso l’epidemiologo alla ricerca di un vaccino contro un’epidemia. Ma non dobbiamo dimenticarci che è ancora più importante trovare il vaccino contro l’eresia, che priva la nostra  anima della grazia che la libera dalla morte eterna.

Invece purtroppo si è ancora facili a sospettare che il Domenicano che indaga sull’eresia, o che polemizza contro l’eresia o nota qualcuno di eresia, sia un presuntuoso o un invidioso o un fazioso o un ambizioso in cerca di notorietà o che abbia un animo astioso o che sia un diffamatore o un don Chisciotte contro i mulini a vento o un attaccabrighe o un violento.

Io ho scritto una volta che il domenicano è un oculista. Oppure potremmo dire che è un chirurgo del cervello. Non sempre è compresa la sua missione, non sempre è apprezzato il suo servizio. Egli, come un buon medico, si prepara con lunghi anni di studio alla sua missione. È un servizio prezioso che guarisce i disturbi della vista intellettuale e della volontà, i mali dell’anima.

Se merita il nome di psichiatra (psychè=anima, iatrìa=cura) il medico che cura i disturbi dell’anima sensitiva in rapporto a quella spirituale e al corpo, a maggior ragione si dovrebbe chiamare psichiatra il teologo, il sacerdote, il confessore, il vescovo, che, alla luce della fede e con la forza della grazia risanano lo spirito dal peccato e gli donano la vita della grazia.

Ma capita che mentre nessuno si azzarda a fare il medico senza titoli sufficienti, oggi capita spesso il caso di persone con un’infarinatura di dottrina orecchiata e raffazzonata qua e là presso qualche gruppo esaltato o suggestionate da qualche veggente o convinte di essere profeti dell’Apocalisse o più sagge del Papa, soggetti che pretendono di tener testa ed accusare di eresia teologi di professione, di lunga esperienza ecclesiale ed accurata preparazione specifica.

Così capita che il lavoro del teologo Domenicano sia un lavoro ingrato. Se fare la diagnosi di una malattia fisica è cosa apprezzata, ricercata e desiderata, la diagnosi dell’eresia fatta dal Domenicano può irritare o riuscire sgradita a coloro che sono i seguaci dell’eretico, mentre dà gioia e consolazione a coloro che sono turbati o scandalizzati. In ogni caso certamente riceve dalla gente molta più gratitudine il medico del corpo che quello dell’anima.

La gente tende ad avere più fiducia nel primo che nel secondo. Essa si convince più facilmente nel sentirsi spiegare una malattia del corpo che una malattia dell’anima. Non ha dubbi che il medico del corpo usi criteri di giudizio oggettivi e sicuri. Capita invece che dubiti che il medico dell’anima si basi su criteri oggettivi e sicuri.

Questo perchè? Perché mentre siamo portati a fidarci del parere del medico, tendiamo ad esser troppo gelosi del nostro modo di valutare le nostre idee e il nostro comportamento in fatto di teologia, di morale o di religione. Tendiamo a non essere oggettivi, ma a giudicarci in base a princìpi che piacciono a noi e che al limite potrebbero essere eretici.

Difficilmente un medico può sentirsi contestare un suo giudizio sul paziente o un suo parere nel suo campo, salvo che non si tratti di un altro medico. Invece capita che il sacerdote, il confessore o il teologo si sentano contestati o contraddetti dal fedele. Ma c’è anche un altro fatto, che mentre generalmente la considerazione che i loro colleghi hanno della scienza medica non dà preoccupazione ai medici, perché tra di loro c’è un comune accordo, capita invece che si verifichino contrasti fra teologi riguardo ai dati della stessa scienza teologica, che provocano sofferenza, dubbi o sconcerto fra quelli che tra di loro sono uomini di coscienza. 

Così, mentre capita che vi siano dissensi fra medici nel valutare la situazione di un dato paziente, ma che accettino tranquillante i dati della scienza medica, capita che fra teologi vi siano disaccordi nello stesso campo della teologia, ma ciò è il segnale della confusione creata dall’influsso di qualche eresia.

Bisogna che torniamo ad imparare come si affronta la questione dell’eresia. Abbiamo la tentazione di non parlarne, perchè ci pare che la parola evochi ricordi e traumi spaventosi. Altri, invece, hanno ripreso a parlarne con acrimonia, senza la dovuta preparazione, scagliandosi addirittura contro il Papa. Sono due eccessi ai quali occorre porre assolutamente rimedio. Questo mio articolo ha voluto essere un contributo alla ricerca di una posizione equilibrata, che sappia conciliare il dovere della carità con quello della giustizia e della misericordia. 

 P. Giovanni Cavalcoli

 Fontanellato, 3 novembre 2020

Fine Terza Parte (3/3)



 

Pierre Legors il Giovane, Allegoria della Religione che sconfigge l'Eresia (1695-1697 ca.) - Roma, Chiesa del Gesù.

 

 Immagini da internet

 

 

Sant'Ireneo di Lione 



[1] Ad tuendam fidem, n.6, Codice di Diritto Canonico, Can.750§2.

[2] Edizioni Queriniana, Brescia 2020.

[3] Cf Albertus M.Grech, De confirmatione Ordinis FF. Praedicatorum, Melitae 1916, p.28. Il Vicaire dice che «è una composizione inventata nel sec.XIV» (H.Vicaire, Storia di San Domenico, Edizioni Paoline,Edizioni Paoline, 1959). Come si può pensare un atto così disonesto e sleale nei confronti del Papa e dell’Ordine stesso perpetrato ufficialmente dall’Ordine? Preferisco stare col Grech.

[4] Vicaire, op. cit., p.332

[5] Questo legame della finalità dell’Ordine con la dottrina della fede, ha sempre comportato e comporta nel Domenicano una speciale sintonia con la teologia. La forma mentis del Domenicano, anche se non è teologo di professione, è spontaneamente teologica. Per questo la storia della teologia cattolica va sempre di pari passo con la storia dell’Ordine Domenicano. E benché oggi la teologia trovi molti più cultori di un tempo, in particolare i Gesuiti, l’Ordine Domenicano, col suo sommo maestro San Tommaso d’Aquino, Doctor  Communis  Ecclesiae, sempre citato da tutti i Papi, mantiene la sua specifica ed insostituibile missione dottrinale all’interno della Chiesa. Cf il mio libro Teologi in bianco e nero. Il contributo della Scuola Domenicana alla storia della Teologia, Piemme 2000.


4 commenti:

  1. Caro Padre Cavalcoli,
    Sono un lettore regolare e quotidiano del tuo blog, che ho scoperto di recente. Tra gli articoli che ho letto, questo, insieme a quello intitolato "Gratitudine a San Tommaso", credo siano quelli che rivelano il suo cuore intimo di teologo domenicano, combattivo e misericordioso. Dio ti benedica e ti ricompensi per i tuoi sforzi e le tue lotte, e che tu possa continuare a sostenerti con la sua grazia nel lavoro che spero continuerai a sviluppare per molti anni a venire!

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    1. Caro Julio,
      ti ringrazio di cuore per queste parole, che colgono a fondo le mie intenzioni di teologo domenicano.
      Sono contento che tu tragga profitto dai miei articoli.
      Ti esorto a diffondere quelle buone idee, che tu dovessi scoprire nei miei scritti, in modo da favorire una vita di fede serena e una comunione ecclesiale sentita.
      Ti chiedo di ricordarmi nella preghiera e così pure io prego per te e ti benedico.

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    2. Caro Padre Cavalcoli,
      Apprezzo le tue preghiere e prego per te ogni giorno.
      E non esitate: da tempo cerco di diffondere le vostre riflessioni filosofiche e teologiche tra i miei amici.
      Nonostante abbia incontrato di recente il suo attuale blog, conosco da anni i suoi contributi a Riscossa Cristiana, Ricognizioni e L'Isola di Patmos. Infatti, per mio uso personale, ho tradotto in spagnolo gran parte del suo materiale (almeno i suoi articoli su quei blog e alcuni dei suoi lavori accademici, anche se non i suoi libri, perché non sono stato in grado di accedervi dall'Argentina ). Certo, puoi avere queste versioni spagnole dei tuoi lavori, nel caso ti servano (nel qual caso devi solo chiedere a me).
      Ha in me un discepolo quotidiano delle sue lezioni.

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    3. Caro Julio,
      ti sono molto riconoscente per l’attenzione che presti ai miei scritti. Mi fa molto piacere che tu ti adoperi a diffonderli. Sono del tutto favorevole al fatto che tu li traduca nella tua lingua.

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