La vera essenza della filosofia moderna - Seconda Parte (2/4)

  La vera essenza della filosofia moderna

Seconda Parte (2/4) 

Le pretese dell’idealismo

L’idealismo si presenta come la filosofia originaria, la più radicale, la più spirituale, rigorosa, inconfutabile, fondamento del realismo e nel contempo confutazione del realismo oppure legittima alternativa ad esso, il nuovo che sostituisce il vecchio, la verità che sostituisce l’apparenza. Si tratta in realtà di tutte menzogne, che non confuto qui perché sarebbe troppo lungo farlo, ma che da secoli sono state confutate da realisti, filosofi scolastici e tomisti.

L’idealismo pretende di giudicare contradditorio il realismo, quando esso stesso si fonda sulla violazione del principio di non-contraddizione, come apparirà esplicitamente in Hegel, violando il principio sacro dell’onestà e coerenza del pensare, al quale sostituisce la doppiezza e l’ipocrisia.

Il pensiero infatti è naturalmente realista. Lo stesso Husserl è costretto a parlare del realismo come «atteggiamento naturale» e tutti gli idealisti riconoscono che il realismo appartiene al senso comune e alle scienze fisiche. Per questo gli idealisti, nel momento in cui pensano, non possono non essere realisti del realismo dell’adaequatio intellectus et rei, per cui, nel sostenere l’idealismo, che appunto vorrebbe negare quel principio, cadono in contraddizione con se stessi si confutano da soli, perché sono obbligati, in forza della natura e dell’esigenza del pensiero di essere vero,  a sostenere che il loro sistema è vero e quindi sono obbligati, loro malgrado, ad appoggiarsi su quel principio dell’adaequatio  intellectus et rei, che essi in nome dell’idealismo vorrebbero respingere.

L’idealismo, a parole, non nega la realtà, non nega l’essere. Dice però che l’essere e la realtà non sono fuori, ma all’interno del pensiero, e quindi, con Bontadini afferma:

«Se noi siamo in contatto soltanto con le nostre rappresentazioni o, diciamo anche, impressioni; codeste, poi, in quanto siano atti di conoscenza, debbono necessariamente essere conoscenza di qualche cosa, dell’essere, diremo, in generale. Essere in contatto soltanto con la coscienza vuol già dire essere in contatto con la realtà. Né vi sarà realista illuminato il quale pretenda di arrivare alla realtà, lasciando da parte la conoscenza, oppure saltandone fuori»[1].

Si vede qui come l’idealista non riesca a concepire il reale come reale, indipendente dal nostro pensiero, ossia il reale esterno (extra animam).  Realtà esterna che vuol dire? Che è lì davanti a noi senza che l’abbiamo fatta noi. E chi l’ha fatta? Un’altra realtà, superiore, che chiamiamo Dio. Quindi negare la realtà esterna porta all’ateismo o a sostituirci a Dio nel creare la realtà.

Non c’è dubbio che noi cogliamo il reale nel pensiero ed è impossibile contattarlo direttamente senza far uso del pensiero. Ma per contattare col pensiero il reale esterno non siamo obbligati ad uscire ontologicamente da noi stessi, cosa evidentemente impossibile. Eppure nella conoscenza avviene in qualche modo proprio così; essa ci fa uscire da noi stessi, essa ci apre ad accogliere l’essenza o la forma delle cose esterne, esterne non solo spazialmente, ma ontologicamente, quindi i valori morali e spirituali e Dio stesso.

Noi effettivamente, in certo senso, raggiungiamo la realtà esterna uscendo da noi stessi, e come? Immaterialmente ed intenzionalmente, appunto pensandola; ossia la cogliamo come è in se stessa fuori di noi, ma all’interno di noi, ossia del pensiero e della coscienza. In ciò l’idealista ha ragione.

Il suo torto è quello di credere che il reale non sia esterno per il semplice fatto che nel conoscerlo l’abbiamo all’interno di noi stessi, senza rendersi conto che ciò che abbiamo all’interno non è il reale nel senso ontologico, il che sarebbe un’assurdità, giacchè una sostanza (oggetto) non può entrare nell’essenza di un’altra sostanza (soggetto), ma appunto come si è detto in senso intenzionale, ossia mediante il concetto, sicchè in tal modo si verifica un’identità intenzionale fra soggetto e oggetto. Qui l’idealista ha ragione. Sbaglia nel confondere l’ideale o intenzionale col reale, il logico con l’ontologico, il pensiero con l’essere.  Infatti il concetto non è la cosa esterna; ma ne è solo una rappresentazione mentale.

Che poi nel concetto e nella coscienza noi vediamo il reale, è vero. Ma non è detto che la semplice presenza in noi dell’idea di una cosa significhi che la conosciamo veracemente, perché quell’idea potrebbe non essere conforme alla cosa. Il che vuol dire che per conoscere la verità bisogna che ci misuriamo con la realtà esterna e che quindi ammettiamo una realtà esterna. Il semplice fatto di possedere idee non è sempre garanzia che conosciamo la verità, perché queste idee possono essere sbagliate o ad esse potrebbe non corrispondere alcunché. Così si spiega il dogmatismo e la presunzione dell’idealista, che pretende di avere sempre ragione. Siccome ha in mente l’idea chiara e distinta di una cosa, allora quella cosa esiste.

L’idealismo viene peraltro da una forma di superbia, per la quale l’uomo non sa accettare la sua condizione di animalità, ossia respinge la conoscenza sensibile, non dà regola oggettiva sensibile alla propria volontà ed aspira quindi a sostituirsi a Dio nella regolamentazione della propria vita. L’idealista non vuole riconoscersi come creatura in un mondo esistente fuori di lui, non creato da lui, ma vuole attribuire l’esistenza sua e del mondo ad un atto del proprio pensiero e della propria volontà.

Riconosce certamente l’esistenza del pensiero assoluto e della libertà assoluta, ma invece di riconoscere un Dio al di sopra di sé, la cui essenza supera infinitamente la sua intelligenza, un Dio al quale render conto del proprio operato, di nulla ammette l’esistenza che non sia comprensibile razionalmente e nessuna legge morale trascendente ammette che voglia regolare e limitare la sua libertà. Un essere al di là del suo pensiero, che superi il suo pensiero non lo sopporta, perché si sentirebbe umiliato nella sua tendenza gnostica. Tutto vuol controllare e tutto vuol avere al di sotto di sé. Nulla deve sfuggirgli e tutto dev’essere a misura della sua ragione.

L’idealista assicura con Fichte di cogliere la realtà meglio del realista. Ma allora perché si chiama idealista? Faccia il realista con noi e prenda l’idea come semplice mezzo per conoscere il reale, senza metterla al di sopra. Se poi ci chiediamo che cosa è la realtà, vedremo che la risposta non può che venire dal realista e che si tratta di una domanda in fondo inutile, perchè la domanda suppone la risposta. Essa equivale infatti a chiedersi: che realtà è la realtà? Che cosa è la cosa? Realtà viene da res, cosa, ente: tutti concetti basilari ed intuitivi, che formiamo fin da bambini da soli, senza che alcuno ce li insegni o ce li definisca. Tutti sanno che cosa significano. Ma questo è il realismo.

Il cogito cartesiano s’incontra in Kant con l’antico Gemüt germanico, presente già in Eckhart[2], termine difficilmente traducibile, che il Gentile nella sua traduzione della Critica della ragion pura rende con «spirito», che però in tedesco è Geist. Gemut invece è più vicino ad animo e sentimento (Gefühl). Il Gemüt è in Kant a sua volta organo del sentimento e del gusto estetico. Kant fonda così l’idealismo estetico, che avrà ampli sviluppi nel romanismo con Schlegel e Novalis e uno Schelling, per il quale, da come riferisce il Lo Sacco[3]

«L’arte è il vero e unico organo e documento della filosofia; essa è per il filosofo quanto vi ha di più alto, perché “gli apre quasi il santuario, dove una eterna e originaria unione arde come in una fiamma quello che nella natura e nella storia è separato”».

Un erede di Schelling in ciò è Von Balthasar, per il quale il pulchrum prende il posto del verum come fonte di verità. Perché vedere l’idealismo nell’estetismo kantiano-schellinghiano? Perché il giudizio estetico per Kant non ha un’universalità oggettiva, ma soggettiva[4].

L’inganno dell’idealismo

L’inganno di fondo dell’idealismo, che solo il realismo sa smascherare, sta nel voler farci credere che oggetto del nostro conoscere non è un reale, un essere, una cosa distinti dal nostro pensiero e quindi dal nostro io, ma è un pensiero del nostro pensiero. «Il pensiero, come dice Bontadini, è intrascendibile». La verità, per loro, resta sempre un adeguarsi del pensiero all’oggetto, e tuttavia l’oggetto, per loro, è il nostro stesso io profondo e radicale, che essi chiamano «io trascendentale», modalità metafisica dell’Io teologico, ossia l’«Io assoluto». Per questo, per loro la verità non è data da un adeguarsi del soggetto al reale, ma un adeguarsi del soggetto a se stesso, come dice lo stesso Kant.

Il reale, quindi, non è creato da un Dio, un Tu trascendente, ma è – come dice Fichte - «posto» dal nostro Io assoluto, non avendo Fichte l’audacia di parlare di «creazione», mentre il termine sarà usato apertamente da Gentile, con la sua famosa «autoctisi».

Viceversa il realista distingue, con San Tommaso, l’intelletto dalla cosa e dal concetto della cosa. Leggiamo le sue parole:

«Chiamo intenzione intesa (intentionem intellectam), ciò che l’intelletto concepisce in se stesso» (il contenuto del concetto) «circa la cosa intesa, la quale intenzione in noi non è la cosa stessa che viene intesa, e non è neppure la stessa sostanza dell’intelletto, ma è una certa similitudine concepita nell’intelletto circa la cosa intesa, concezione che è significata dalla parola; per cui quell’intenzione viene chiamata “verbo interiore” (verbum interius), che è significato dal verbo esterno. … Che invece l’intenzione intesa non sia in noi lo stesso intelletto, appare evidente dal fatto che l’essere dell’intenzione intesa consiste nel suo stesso essere intesa (intelligi); il che non è per il nostro intelletto, il cui essere non consiste nel suo intendere» (intelligere)[5].

Quindi in sostanza l’idealista vorrebbe persuaderci – diciamolo con franchezza senza tanti ambagi - che noi siamo Dio o sapienti come Dio[6]. Siccome però tutti gli idealisti credono di essere Dio, nasce per loro il problema di come mettersi d’accordo sulla questione di chi è Dio, giacchè Dio è uno solo. Husserl si occuperà del problema nella sua teoria dell’«intersoggettività», implicandosi evidentemente in inestricabili contraddizioni, perché, se io sono Dio, che cosa sono io per te, dato che anche tu ti consideri Dio?

Nell’idealismo c’è una profonda esigenza di unità, unità dell’essere e del pensiero, il che è anche giusto. Con Fichte sente il bisogno di un sistema unitario, che parta da un unico principio.  Con Severino sente il bisogno dell’unità dell’essere.

Senonchè in questa esigenza l’idealista esagera perché gli manca una concezione analogica dell’essere, che concilia l’unità con la molteplicità, ed è schiavo di una concezione univocista dell’essere: «l’essere non può non essere», come dice Severino fraintendendo il principio di non contraddizione e riducendo il contingente al necessario. Così egli identifica l’essere con l’essere divino e quindi arriva a dire con un idealista di oggi che «esiste solo Dio». La conseguenza è che tutto è Dio, ossia tutte le cose sono Dio, e quindi il panteismo. Invece si può dire che Dio è tutto nel senso che è perfezione infinita.

L’idealista ha ragione nel dire in questo senso che Dio è tutto; tuttavia il suo concetto di «tutto» è equivoco, perché egli confonde il tutto nel senso di «tutte le cose» con tutto nel senso di «perfezione assoluta».

Per il suo bisogno intemperante di unità l’idealista rifugge da ogni dualità che per lui è dualismo, che dev’essere tolto. Per lui il semplice distinguere è un contrapporre; l’esterno non è il diverso, ma è l’estraneo, il nemico; il non-io non è l’altro io, ma il mio avversario; sicchè evitando la distinzione, le diversità e le differenze, appiattisce tutto e cade nella confusione più totale, di tutto con tutto mettendo tutto contro tutto.

Non solo rifiuta la distinzione fra pensiero ed essere, soggetto e oggetto, essere e divenire, spirito e materia, sostanza e accidente, ma anche la distinzione fra essere e nulla, fra vero e falso, fra bene e male. Tutto s’identifica e si confonde con tutto. E tutto è Dio.

Alcuni hanno pensato di assimilare il monismo idealista a Plotino; senonchè Plotino non rifiuta la molteplicità e le differenze. Semplicemente, invece della creazione sostiene l’emanazione, per la quale il mondo non è effetto della libera volontà di Dio, che potrebbe esistere anche senza il mondo, ma è un’espansione finita, un uscire da sé, restando sè dell’essenza divina, una manifestazione necessaria della sua essenza. Egli quindi distingue il mondo da Dio, non tuttavia come sostanza da sostanza, ma come sostanza da accidente, cosa che sarà ripresa da Spinoza e da Schelling.

Il panteismo idealista va più in là, perché non si accontenta, come dirà Hegel, della sostanza, ma vuole il «soggetto». E cosa è il soggetto? Niente altro che il cogito di Cartesio: l’identità del pensiero con l’essere. Quindi finito e infinito per il panteista non sono due sostanze, due realtà, due nature, due cose, due enti.

L’idealista confonde la sostanza metafisica con la sostanza chimica, e allora si capisce perché dice che l’anima o Dio non sono una sostanza, perché essi sono spirito e non materia. Ma intendendo lo spirito non come sostanza, e riducendolo a un’idea (Hegel), a un atto del pensare (Gentile), riduce l’essere a un semplice essere intenzionale (esse intentionale), un concetto creato non da Dio ma dalla nostra mente.

Per Cartesio e per Kant la mente, per aver la certezza della verità, non deve volgersi verso la cosa, ma verso se stessa. Infatti per l’idealismo l’oggetto della conoscenza non è la cosa, prodotta da Dio, ma il concetto[7], prodotto dall’uomo. L’idealismo non è altro che l’esecuzione della proposta del demonio ad Adamo di sostituirsi a Dio nel dar fondamento alla conoscenza[8].

Nell’Eden infatti Dio proibisce ad Adamo di impossessarsi di ciò che spetta a lui, ossia di dare fondamento alla conoscenza della verità, perché il tentare di farlo gli procurerebbe la morte. Il demonio viceversa presenta ad Adamo Dio come un bugiardo, geloso di un potere che gli consente di dominare sull’uomo nascondendogli quel suo potere che lo renderebbe suo rivale, un potere che Adamo gli può strappare disobbedendo alla proibizione divina, ed ottenendo quindi lui al posto di Dio di stabilire il fondamento della verità.

Ma è il demonio, falso dio che si rivela bugiardo, il dio dell’idealismo, perché l’esecuzione del piano idealista, come dimostra la storia soprattutto del secolo scorso con le due guerre mondiali scatenate dal nazismo e dal comunismo, hanno provocato la morte di centinaia di milioni di persone, oltre a tutte le anime che vanno all’inferno ingannate dalla superbia dell’idealismo.

Col suggerire all’uomo di volgersi dall’orientamento verso la cosa (essere) all’orientamento verso se stesso (pensiero) l’idealismo non fa altro che attuare il suggerimento di Satana di sostituire se stesso a Dio, di attribuire a sé ciò che appartiene a Dio.

Il demonio suggerisce ad Adamo di non lasciare a Dio l’esser regola della verità, ma di esser egli stesso questa regola e quindi di fare del proprio pensiero non un qualcosa di regolato dalla realtà, ma esso stesso la regola della realtà.

In ogni caso gli idealisti si confutano da soli, perché il realismo è l’attitudine naturale e quindi inevitabile del pensare umano, per cui gli idealisti, nel rifiutare il realismo, sono costretti a farlo servendosi dello stesso realismo. Essi arrivano a dire che il realismo non corrisponde alla realtà. Ma appunto il confronto con la realtà è il metodo del realismo. Come Fichte, condannano il realismo in nome della realtà asserendo che è l’idealismo che ci dà la realtà; ma la prospettiva di darci la realtà non è forse quella del realismo?

L’idealismo, come notò giustamente Julius Evola[9], spinge alla magia per il fatto che in fin dei conti all’idealista più che il sapere interessa il potere. Egli infatti concepisce la conoscenza come produzione, quindi come prassi. Per lui l’agire è conoscere e il conoscere è agire. Blondel è su questa linea.  Anche Maréchal lo è con la sua falsa dottrina della finalità dell’intelletto, che confonde intelletto e volontà.

L’idealismo, partendo da Ockham, genera il volontarismo e quindi la violenza e la prepotenza. Marx deriva da Hegel. Hegel è il grande teorico della necessità logica della guerra. Il progresso avviene con la violenza. Il vero di oggi è il falso di ieri e viceversa. L’identità è astratta e morta staticità. Non l’identità, ma la contraddizione è il principio della verità, un’idea che si trova già in Jakob Böhme e in Giordano Bruno.

Il totalitarismo, il fascismo e il nazismo sono frutti dell’idealismo. Gentile è stato il filosofo del fascismo ed Heidegger il filosofo del nazismo. Come ha evidenziato Heidegger, la «volontà di potenza» di Nietzsche è la metafisica e l’etica di Nietzsche[10]. Alexandr Dugin, l’attuale teorico del dovere della Russia di vincere in guerra l’Occidente, è un seguace di Nietzsche e di Evola.

Il contrasto fra realismo e idealismo sul piano della prassi si può esprimere in termini molto semplici, vorremmo dire evangelici, dicendo che mentre il realista pratica la volontà di Dio, l’idealista è attaccato alla propria, perché mentre il realista è orientato a Dio, l’idealista è ripiegato sul suo io. Quindi mentre l’etica realista è l’etica dell’altruismo, quella idealista è l’etica dell’egoismo. Mentre l’etica realista è l’etica dell’umiltà che si abbassa davanti a Dio, è l’etica dell’adaequatio e dell’obbedienza, l’etica idealista è l’etica della superbia, dell’io che innalza se stesso per sostituirsi a Dio, secondo la promessa del serpente antico.

Il teista idealista è quindi un inganno. Col suo intuizionismo teologico apriori sembra un campione dell’interiorità e più spirituale del realista che arriva a Dio aposteriori passando per le cose materiali e sembra perdersi nell’esteriorità concependo Dio niente più che una cosa o un oggetto fra gli altri.

Invece è proprio l’idealista a nascondere il suo ateismo e la sua empietà dietro un concetto di Dio che non è altro che l’assolutizzazione del suo io, perché un Dio intuito o ideato o sperimentato o sentito apriori prima ancora dell’aposteriori empirico non è affatto il vero Dio creatore del cielo e della terra, ma è un’invenzione della propria mente, oltre ad essere il frutto di una gnoseologia sbagliata.

L’idealismo nasce dalla superbia dell’uomo che non accetta la sua animalità e pretende di essere di più di quello che è. Infatti noi possediamo la conoscenza sensibile come gli animali, ed è solo esercitando questa che saliamo al sapere spirituale. Dall’alto dei loro orgogliosi pensieri e della loro superbia essi credono di poter scendere nel mondo dei sensi e della materia con suprema libertà, per dominarli ad libitum, ma in realtà, siccome non si assoggettano alla legge posta da Dio nella natura umana, credendo di essere liberi, accecano la loro mente e cadono schiavi delle passioni della carne.

Tentativi di conciliare realismo e idealismo

Alcuni, nel secolo scorso, come Armamdo Carlini, confondendo l’idealismo con l’interiorismo agostiniano, sostengono che non il realismo ma l’idealismo è alla base della filosofia cristiana[11]. Altri, come il Gentile, affermano che non il realismo, ma l’idealismo è il miglior interprete del cristianesimo[12].

Non vale neppure la tesi dello Przywara, per il quale realismo ed idealismo si integrano a vicenda, o quella di Bontadini, per il quale il realismo porta a compimento e supera il kantismo. I veri tomisti si guardano bene dal fare questi pasticci, ma confutano l’idealismo kantiano come filosofia falsa. Il che non vuol dire che non siano disposti a riconoscergli una parte di verità.

Singolare è la posizione del Laberthonnière[13], il quale sostiene bensì il realismo contro l’idealismo, ma mentre fraintende l’idealismo confondendolo col semplice esercizio del pensiero astrattivo e la sua funzione ideativa, fraintende il realismo concependolo non come adeguazione del soggetto conoscente all’oggetto ma come interazione fra soggetto e oggetto, un contradditorio compromesso fra idealismo e realismo, basato sull’autocoscienza alla maniera di Cartesio o del dualismo kantiano di fenomeno-cosa in sé o dell’essere «correlato di coscienza» della fenomenologia husserliana o secondo la teoria dell’interpretazione di Heidegger e Gadamer, dove la precomprensione della realtà si combina con l’esperienza della medesima realtà.

Anche il Dio immanente alla coscienza di Lutero e di Blondel è riconducibile all’idealismo, benché entrambi acconsentano al realismo biblico. Tuttavia già prima di Cartesio e Lutero a molti non interessava più il Dio-in-sé, ma il Dio-in-me, il Dio-per-me. Lutero, cioè, non riusciva a concepire un Dio trascendente, un puro Dio, come quello dell’Antico Testamento, che non fosse un Dio incarnato, un Dio per l’uomo, ossia il Dio del Nuovo Testamento, Gesù Cristo. In tal modo in Lutero l’uomo non appare più finalizzato a Dio, ma sembra che sia Dio funzionale all’uomo. Con la sua distinzione fra cosa-in-sé e fenomeno Kant non ha fatto altro, seguendo Cartesio, che dare una base gnoseologico-metafisica alla teologia luterana.

E difatti Cartesio associa il dubbio sulla realtà esterna, ossia la cosa in sé, alla certezza del cogito, che è la cosa-per-me, ossia la cosa in quanto ideata o pensata da me, la cosa trasformata in idea, l’essere-nella-coscienza o l’«l’essere di coscienza», come diceva Moretti-Costanzi. E questo che cosa è, se non l’idealismo?

Certo a Lutero le idee non interessavano, Platone non interessava, perché era un occamista, era un intuitivo, un empirista. In questo senso Lutero, benché agostiniano, tradì il platonismo agostiniano, l’unico sano idealismo, si potrebbe dire. E lo sostituì con un grossolano misticismo del sentire Dio in me come io sento il sapore del cioccolato.

Tuttavia, egli non era per nulla privo di intùito spirituale e in lui c’è una ripresa dell’autocoscienza agostiniana, ma mentre Agostino aveva un vivo senso della trascendenza divina e delle idee eterne, in Lutero non c’è alcun interesse per le idee eterne, le quali sono sostituite dal concretismo occamista cristologico, per il quale vale non il pensiero speculativo astratto, ma il contatto volontario ed esistenziale con Cristo.

L’interferenza della volontà nell’intelletto resta un difetto dell’idealismo. L’orientamento produttivo, il setzen di Fichte, che si vantava di avere interpretato l’anima profonda di Kant, nonostante le proteste che incontrò in Kant, sgorga effettivamente dalla concezione kantiana della conoscenza, nella quale l’oggetto, se da una parte è ricevuto dal soggetto in forza dell’esperienza sensibile, dall’altra è costruito dal soggetto dal punto di vista dell’apriori formale, platonicamente si direbbe «ideale».

Così si spiega come mai il Maréchal, nel suo tentativo di vedere nella gnoseologia kantiana una «trasposizione» idealista del realismo tomista, intende l’agire dell’intelletto come tensione verso un fine, come se il giudizio fosse un tendere a Dio, confondendo l’essere intenzionale dell’atto del sapere con l’essere reale dell’inclinazione del volere. E così pure Blondel crede che l’intelletto sia costitutivamente insufficiente a cogliere la verità senza essere sorretto al suo interno e nel suo stesso lavoro dall’atto del volere.

Ora, non c’è dubbio che la volontà muove l’intelletto al suo atto; ma non ha alcun potere o competenza a far parte o a contribuire al dinamismo di quest’atto, che non è efficiente, ma formale, non riguarda l’agire ma l’essere, il verum e non il bonum.  A Maréchal ripugna che il conoscere abbia un aspetto statico; ma tale aspetto è del tutto normale e doveroso e qui Kant va d’accordo con Tommaso. Invece Maréchal, pur di sostenere il suo prassismo, ricorre a Fichte, che falsa ancora di più la natura del conoscere fino a confondere il sapere umano con quello divino.

D’altra parte, attesa la confusione idealistica del pensare con l’essere, non fa meraviglia che Blondel, mostrandosi qui evidentemente influenzato dall’idealismo, confonda il moto ad extra del volere con l’atto ad intra dell’intendere. La volontà tende verso la res o verso la persona nella sua concreta realtà esterna: l’intelletto la interiorizza ed immaterializza nello spirito sotto forma di concetto.

L’immanentismo non è distante dall’idealismo. La differenza è data dal fatto che mentre nell’immanentismo Dio è per essenza nell’uomo, nell’idealismo Dio è un’idea dell’uomo. Spingendo oltre questa tesi l’idealismo sfocia nel panteismo nel momento in cui il pensiero umano identifica se stesso col pensiero divino a causa di un’identificazione del pensiero con l’essere, ovvero dell’ideale col reale.

Fine Seconda Parte (2/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 6 settembre 2022

Realtà esterna che vuol dire? Che è lì davanti a noi senza che l’abbiamo fatta noi. E chi l’ha fatta? Un’altra realtà, superiore, che chiamiamo Dio. Quindi negare la realtà esterna porta all’ateismo o a sostituirci a Dio nel creare la realtà.

Non c’è dubbio che noi cogliamo il reale nel pensiero ed è impossibile contattarlo direttamente senza far uso del pensiero. Ma per contattare col pensiero il reale esterno non siamo obbligati ad uscire ontologicamente da noi stessi, cosa evidentemente impossibile. 

Eppure nella conoscenza avviene in qualche modo proprio così; essa ci fa uscire da noi stessi, essa ci apre ad accogliere l’essenza o la forma delle cose esterne, esterne non solo spazialmente, ma ontologicamente, quindi i valori morali e spirituali e Dio stesso. 

Noi effettivamente, in certo senso, raggiungiamo la realtà esterna uscendo da noi stessi, e come? Immaterialmente ed intenzionalmente, appunto pensandola; ossia la cogliamo come è in se stessa fuori di noi, ma all’interno di noi, ossia del pensiero e della coscienza. In ciò l’idealista ha ragione.

Che cosa è la cosa? Realtà viene da res, cosa, ente: tutti concetti basilari ed intuitivi, che formiamo fin da bambini da soli, senza che alcuno ce li insegni o ce li definisca. Tutti sanno che cosa significano. Ma questo è il realismo.


[1] Gustavo Bontadini, Studi sull’idealismo, Vita e Pensiero, 1995, p.280.

[2] Giuseppe Faggin, Meister Eckhart e la mistica preprotestante, Fratelli Bocca Editori, Milano 1946, pp.133,192, 194, 208, 296, 298ss.

[3] Schelling, Edizioni Remo Sandron 1915, p.153.

[4] Critica del giudizio, Edizioni Laterza, Bari 1963, pp.30, 31, 56, 72, 76, 83. 85, 94, 108, 135.

[5] Contra Gentes, l.IV, c.11.

[6] È questa la mira dello gnosticismo, che traspare chiaramente dalla Logica e dalla Scienza assoluta di Hegel.

[7] Cf San Tommaso, Sum. Theol., I, q.85, a.2.

[8] Cf il mio opuscolo Il progetto del demonio, Edizioni Chorabooks, Hong Kong 2021.

[9] Saggio sull’idealismo magico, Edizioni Mediterranee, Roma 2006.

[10] Heidegger, Nietzsche, Adelphi Edizioni. Milano 2013.

[11] Il mito del realismo, Sansoni, Firenze 1936, p.104.

[12] La religione, Sansoni, Firenze, 1965, p.441.

[13] Il realismo cristiano e l’idealismo greco, Vallecchi Editore, Firenze 1949, pp.75-76.

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