PERVERTIMENTO DELL'ETICA.


Recensione
Umberto Galeazzi, PERVERTIMENTO DELL'ETICA.
La via di S. Tommaso e la malattia mortale nel mondo di oggi.
CHORABOOKS HONG KONG 2019

Il libro del Prof.Galeazzi si raccomanda per un più che opportuno richiamo ai fondamenti dell’etica filosofica di S.Tommaso d’Aquino nella situazione morale ed ecclesiale di oggi, caratterizzata da un diffuso e disordinato pluralismo individualista e soggettivista, che vorrebbe presentarsi come espressione di libertà, di novità e di diversità, ma che in realtà è il segno dell’assenza di valori comuni o condivisi, tali da creare l’unità del molteplice.

 In questo clima di oscurantismo intellettuale e di disprezzo generalizzato per la verità, soprattutto quella trascendente ed assoluta, dove la doppiezza e l’astuzia soppiantano la lealtà e la limpidezza, gli appelli al dialogo, alla collaborazione reciproca, alla fratellanza, ai diritti umani e alla misericordia sono del tutto inutili, ed anzi ipocriti, perchè privi della necessaria base teoretica razionale e teologica e di una sufficiente confutazione degli errori in campo gnoseologico, antropologico, metafisico, cristologico ed ecclesiologico.

Tale situazione è altresì segnata dalla competizione fra una minoritaria tendenza rigoristica conservatrice di stampo razionalista dualista cartesiano-kantiana e una maggioritaria corrente modernista popolare di stampo relativista edonista-marxista, ognuna delle quali pretende di rappresentare la vera Chiesa contro l’altra.

Nella prima tendenza abbiamo un’etica della legge, che a tutta prima sembrerebbe poter attrarre un tomista; ma in realtà questa «legge» non è altro che la volontà dell’io o di una ragione o coscienza indipendente da Dio, che ritiene di poter plasmare la natura umana a proprio piacimento, come vediamo nella teoria genderista, nelle manipolazioni genetiche o nella fecondazione artificiale.

È la linea che parte dal rigorismo dualista origeniano e giunge all’attuale fondamentalismo, passando per il catarismo  medioevale. Essa, però, partendo  da un’autocoscienza apriorica assoluta (il cogito), che sembrerebbe garantire una certa spiritualità, in realtà sfocia nel libertinismo, perchè l’io è considerato autocreativo e quindi libero manipolatore della propria corporeità.

La seconda tendenza, invece, abdica apertamente alla ragione, s’immerge nel senso, nel divenire e nel «concreto», e fa sorgere l’agire umano da un apriori inconscio e atematico materiale, dove la ricerca incondizionata del piacere e lo sfogo della libido sessuale, che diventa il massimo valore, soffocano lo spirito e prendono il suo posto nella guida della persona deliberatamente resa schiava della carne e dell’attrattiva incontrollata del piacere sessuale. È la linea che, partendo da Epicuro, passa per il Rinascimento e giunge a Freud e ai moderni genderisti.

In questa situazione disperata l’intervento qualificato, documentato e persuasivo del Prof.Galeazzi, teso a propugnare, con linguaggio chiaro e nel contempo scientifico, l’attualità dell’etica tomista, è veramente provvidenziale; è come l’opera di un buon medico che, avendo fatto la diagnosi precisa della malattia, offra il rimedio efficace.

Davanti ad un’analisi così intelligente della situazione, resteranno insensibili solo coloro che pescano nel torbido. Davanti a una cura così appropriata e mirata, resteranno malati quelli che non vogliono guarire. Davanti a una perorazione così dotta, argomentata e dettagliata, pur nel breve  spazio di un piccolo libro, resteranno sordi coloro che non vogliono sentire.

La tesi di fondo dell’Autore, se non mi sbaglio, è che sia l’una che l’altra corrente parte da un rifiuto del realismo gnoseologico biblico-tomista e da un’assolutizzazione apriorica dell’io umano già presente nel cogito cartesiano,  avente la pretesa di una tale autosufficienza morale, che, svolta fino alle estreme conseguenze, come già ha fatto notare Padre Fabro, porta al razionalismo kantiano, al panteismo hegeliano e all’ateismo marxista-nicciano e con ciò stesso alla distruzione proprio di quell’uomo che si voleva esaltare e liberare, giacchè l’uomo è creatura di Dio e senza Dio l’uomo è nulla, così come senza l’artista l’opera d’arte non esiste. Ecco allora l’ottima critica di Galeazzi a Cartesio, a Kant, ad Hegel, a Marx, a Sartre e a Nietzsche.

L’Autore, riprendendo S.Tommaso, mostra come l’uomo è un ente causato. Ora nulla causa se stesso.  L’effetto richiede una causa sufficiente della sua essenza e della sua esistenza. Ma la causa dell’essere è causa creatrice. Occorre dunque ammettere Dio come essere assoluto e sussistente, causa creatrice dell’essere dell’uomo.

Ma l’uomo ha un’essenza. Ora l’atto d’essere dell’uomo è atto della sua essenza, che è potenza di essere uomo. Ma l’atto suppone la potenza. E dunque Dio è creatore anche dell’essenza dell’uomo, sostanza composta di anima e corpo. L’anima dispone di due potenze spirituali, l’intelletto e la volontà. Con l’intelletto l’uomo conosce le cose e giunge alla conoscenza di Dio, che gli appare sommo bene e fine ultimo del suo agire. All’intelletto, che apprende il sommo bene, succede l’atto del volere, che appetisce il sommo bene come fine ultimo, al di là dei fini intermedi.

La conoscenza della natura umana conduce a determinare le leggi della condotta umana, che vengono messe in pratica dagli atti umani buoni, ossia dagli atti morali perfezionati nelle virtù. L’agire morale è l’effetto dell’appetito intellettivo, la volontà, che guida e modera le passioni. Oggetto dell’appetito intellettivo sono i beni spirituali; quelli dell’appetito sensitivo sono i beni materiali.

Se l’Autore mi consente, mi è sembrato troppo severo con Kant. È vero che la ragion pratica kantiana si dichiara autosufficiente negando la dipendenza da una Ragione divina; tuttavia quel Dio che Kant ha fatto uscire dalla porta, torna dalla finestra, per il fatto che per Kant la legge morale, della quale abbiamo aprioricamente coscienza certa e irrefutabile, per la sua saggezza, obbligatorietà, assolutezza ed universalità, è la dimostrazione pratica dell’esistenza di un Dio buono e remuneratore.

Io vedrei in questa concezione kantiana, se non sono troppo benevolo, l’eredità per quanto secolarizzata, della tradizione non certo aristotelico-tomista, ma platonico-agostiniano-luterana, della quale, del resto, Kant risente per l’educazione religiosa ricevuta al di là della sua mentalità illuministica.

Dopo aver dimostrato, seguendo S.Tommaso,
 1. che l’agire morale retto che conduce alla felicità, si fonda sul realismo gnoseologico e non sull’idealismo;
2. che il realismo conduce ad una metafisica realista del primato dell’essere sul pensiero;
3. che una metafisica realista è il vero fondamento dell’antropologia;
4. che l’antropologia è il fondamento della morale,

l’Autore entra in medias res e per dimostrare la validità dell’etica tomista contro il soggettivismo, il relativismo, il razionalismo e l’ateismo, prende come perno della sua argomentazione il rapporto fra la finitezza dell’uomo e il bisogno che egli ha di infinito. L’uomo non è sazio se non di un bene infinito. Viceversa, le altre concezioni illudono l’uomo di essere infinito, mentre in realtà lo rendono prigioniero della sua finitezza.

La morale pervertita è quella che non considera l’infinito come sommo bene e fine ultimo trascendente, un soggetto personale infinito, - Dio - distinto dall’uomo e col quale l’uomo possa entrare in dialogo e in una relazione di obbedienza o d’amore o di possesso, ma crede o che l’uomo, perchè finito sia racchiuso nel finito e che la ricerca dell’infinito sia illusione (Sartre);  oppure che l’infinito sia immanente all’uomo (Cartesio, Kant), per cui l’uomo che si infinitizza si pareggia a Dio (Hegel) e sostituisce a Dio (Marx, Nietzsche)

Lo stesso si può dire dell’assoluto. L’uomo è assetato di assoluto. Il relativismo non è che un’assolutizzazione del relativo, ovvero una relativizzazione dell’assoluto. Posto che la creatura è relativa e Dio è l’assoluto, la creatura nel relativismo è divinizzata, mentre Dio relativizzato non è più Dio e quindi viene negato. L’uomo che assolutizza se stesso rimane prigioniero della sua relatività e non soddisfa la sua sete di assoluto, che potrebbe essere soddisfatta solo in Dio, il vero assoluto.

Galeazzi si ferma soprattutto sull’etica naturale di S.Tommaso e sfiora solamente quella soprannaturale, rivelata, cristiana. Si tratta di una buona scelta, perchè oggi occorre ricostituire i fondamenti razionali della morale, di quella ragione che ogni uomo possiede in quanto uomo, quale che sia la religione alla quale appartiene, credente o non credente.

È quella che Papa Francesco chiama «etica della fratellanza», che tutti gli uomini capiscono, anche i non cristiani. Il che non toglie che, essendo la ragione umana corrotta dal peccato originale, essa abbia bisogno della luce del Vangelo per comprendere fino in fondo le esigenze della legge naturale e soprattutto i nostri doveri verso Dio.

Per questo, per ricostruire la morale è bene proporre e soprattutto testimoniare coi fatti i valori della ragione accanto a quelli del Vangelo. Ma questo ancora non basta. Dato che la volontà umana è indebolita a seguito del peccato originale ed oppressa dalla concupiscenza, occorre ottenere il dominio dello spirito sulla carne e la loro riconciliazione, recuperando l’aspetto ascetico dell’etica e rafforzando la volontà con l’orientarla alla conquista del regno di Dio sotto l’impulso della grazia di Cristo e dello Spirito Santo in comunione con la Chiesa. Da questo punto di vista la vita religiosa e monastica appare come un mezzo eccellente, riservato ad alcuni, per realizzare l’«uomo nuovo» (Ef 4,24) della futura resurrezione.

L’Autore, poi, superando l’etica generale, si sofferma su di un importante tema, forse oggi il più importante, anche perchè il più tormentato, di etica speciale, quasi ad esemplificare il pregio e la solidità dell’edificio morale, che si costruisce sulle basi assicurate dalla dottrina di S.Tommaso: il tema del matrimonio, a proposito del quale l’Autore cita la splendida definizione dell’Aquinate: «forma matrimonii consistit in quadam indivisibili coniunctione animorum, per quam unus coniugum indivisibiliter alteri fidem servare tenetur» (Sum.Theol., III, q.29, a.2). Fine del matrimonio, poi, è la procreazione ed educazione della prole (ibid.), fine che, per validi motivi, può anche non realizzarsi e non per questo il matrimonio non è un vero matrimonio, capace, comunque, di una generazione spirituale.

Il matrimonio, poi, spiega Galeazzi nella linea di S.Tommaso e dell’attuale magistero della Chiesa, è l’unione più intima, profonda e completa, perchè di anima e di corpo («una sola carne»), che possa esistere tra due esseri umani; e per questo è il paradigma di ogni altra associazione o comunione umana.

Questa unione, poi, spiegherà S.Giovanni Paolo II, non più procreativa ma solo unitiva, è destinata a rimanere nella futura resurrezione. Ora, c’è da dire qui che dall’altezza vertiginosa e sublime di questa santificazione della sessualità, che toglie ogni dualismo ed ogni edonismo, possiamo guardare con orrore e compassione l’abisso di degradazione e di mostruosità nel quale oggi purtroppo sono caduti presso molti la pratica sessuale e la stessa concezione della natura  del sesso.

Per questo la dottrina tomista dell’unione dell’uomo con la donna, unione che perdura nella futura resurrezione (Sum.Theol., Suppl., q.81, a.3) illumina in senso escatologico il destino della sessualità secondo il piano di Dio e per conseguenza getta una luce sull’etica sessuale, la quale ha appunto lo scopo di preparare il destino finale della sessualità umana.

Infine, mi conceda l’Autore un rilievo terminologico, che però mi pare importante. È l’uso del termine «postmoderno»: un neologismo senza una base logica, il cui significato mi pare vago, impreciso  e fluido, non scientifico, che non si presta a trattare temi di morale, i quali devono suggerire categorie relative agli atti umani, al bene e al male, alle virtù e ai vizi, ai valori e ai fini morali. Ora il «postmoderno» non fa pensare a nulla di tutto questo, ma semplicemente il rimando a un qualcosa che segue al moderno.

Ora, cosa mai può seguire al moderno? Qualcosa per cui si è abbandonato il moderno? Allora il moderno diventerà questo qualcosa. Dunque un moderno dopo il moderno? Ma allora il moderno abbandonato non sarà più moderno, sarà passato. Infatti «moderno» vuol dire «presente», «ciò che c’è oggi». Ma allora il postmoderno è ciò che ci sarà domani.

E come facciamo a conoscere ciò che ci sarà domani? «Postmoderno» vuol dire abbandono della modernità per il recupero di valori da essa abbandonati? Lo si dica chiaramente senza adottare un termine così strano ed inadatto. Inoltre, la modernità nata da Cartesio – ammesso e non concesso che la modernità si esaurisca nel postcartesianismo -  non contiene anche dei valori? E perchè mai abbanbonarla in blocco? Non è giusto. Nel moderno occorre fare un discernimento tra il buono e il cattivo alla luce dei valori perenni.

I termini che usiamo o inventiamo devono favorire l’intelligenza di ciò che intendiamo esprimere con essi e non metterla in difficoltà o bloccarla in partenza con forme che vanno contro la logica. Già il termine stesso, possibilmente, deve aprire la via o introdurre a ciò che con esso vogliamo significare, tanto più se esistono già espressioni adatte e già note. Se il postmoderno è un ritorno al passato, volendo inserirlo in un discorso morale, abbiamo già i ben noti termini adatti. Se questo ritorno è lodevole, si potrà parlare di recupero, di riscoperta o di rivalutazione; se invece è biasimevole, parleremo del reazionario o dell’involutivo o dell’antistorico o dell’anacronistico.

P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 9 luglio 2019

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