Riflessioni sul purgatorio - Prima Parte (1/2)

 

Riflessioni sul purgatorio

Prima Parte (1/2)

Dottrina di fede da rivisitare e da intendere nel senso giusto

È diffusa l’opinione che al momento della morte il fedele va subito in paradiso anima e corpo e alcuni esprimono questo fatto dicendo che il defunto «torna alla casa del Padre». Ora, su ciò bisogna fare alcune osservazioni in base a quanto ci insegna la fede cattolica. Innanzitutto quello che sappiamo dalla fede è che non tutti al momento della morte, vanno in paradiso, ma alcuni vanno in purgatorio e altri all’inferno. Inoltre non ci vanno beneficiando di un’immediata risurrezione del corpo, ma ci va l’anima separata dal corpo, mentre il corpo riposa nel sepolcro in attesa della risurrezione del corpo, che avverrà al ritorno glorioso di Cristo alla fine del mondo per giudicare i vivi e i morti.

Inoltre è sbagliato indicare la morte come «ritorno alla casa del Padre», perché è stato solo Cristo, uscito dal Padre e venuto nel mondo, che, risorgendo da morte, è tornato là da dove era venuto, ossia dal seno del Padre, in quanto Figlio di Dio uguale al Padre ed uno col Padre nella divinità.

Noi invece andiamo, se tutto va bene, alla casa del Padre, dove prima non eravamo mai stati. Gesù stesso dice che va a prepararci un posto. Ma alcuni non ci vanno subito, ma attendono un certo tempo prima di salire al paradiso; e questo è il purgatorio; altri precipitano nell’inferno, quello che, usando un’espressione kantiana con tutt’altro senso, si potrebbe chiamare «baratro della ragione».

Il dogma del purgatorio fu definito dal Concilio di Trento (Denz.1820) senza citare i passi biblici[1] dai quali è possibile ricavare tale dottrina, ma confermando un’antichissima tradizione presente nel popolo di Dio sin dagli inizi del cristianesimo.

La definizione fatta dal Concilio di Trento mostra come la Chiesa, ministra di Cristo nell’interpretare, esplicitare e spiegare le sue parole, non si limiti alla citazione delle sue parole riportate dai Vangeli, ma si rifà anche ad allusioni o interpretazioni o notizie trasmesse per tradizione, che essa riconosce e avalla con la sua autorità apostolica come presenti e credibili nel popolo di Dio.

La scelta fondamentale e decisiva della vita, che segna il nostro destino eterno o di beatitudine o dannazione, è quella o per Dio o contro Dio. Nessuno può sottrarsi a questa scelta o restare neutrale o ritenersi non interessato a farla. Nessuno infatti ignora che Dio esiste e che a Lui dovremo render conto delle nostra azioni. Ognuno in coscienza sente questo dovere: a lui la scelta di ascoltare o non ascoltare la propria coscienza.

Questa scelta, che discende dalla nostra stessa natura umana, la facciamo di conseguenza necessariamente ed inevitabilmente tutti, nelle modalità più diverse, implicitamente o esplicitamente, riflessamente o spontaneamente, volontariamente o controvoglia, a qualunque religione apparteniamo, quali che siano le nostre idee, agnostici, atei, materialisti, panteisti, idolatri, politeisti. Tutti noi abbiamo un Dio: tutto sta a vedere se è quello vero: o il Dio dei cieli o il dio di questo mondo.

Il purgatorio è annesso alla scelta buona, non fatta tuttavia con pieno impegno e coerenza, senza piena convinzione e col massimo fervore, senza sufficiente cura di essersi ben preparati al paradiso, maldisposti alla rinuncia e al sacrificio, rifuggendo dallo sforzo e dalla fatica, attaccati alle proprie idee, alle ambizioni, ai piaceri, al denaro, al successo, al potere, alla propria fama e agli onori, rifuggendo dal soffrire per Cristo, trascurando una sufficiente penitenza, barcamenandosi fra Dio e il mondo, più preoccupati di che cosa pensano gli altri che di che cosa pensa Dio, agendo più per dovere che per amore, con pigrizia e senza slancio e fervore.

La differenza fra chi va direttamente in paradiso e chi ha bisogno del purgatorio si potrebbe paragonare a quella del modo di procedere di due pellegrini: uno, che cammina agile e spedito, con l’occhio sempre fisso alla meta, senza lasciarsi distrarre da altre cose, portando con sé solo l’essenziale; e un altro, un corpulento, che ovviamente procede lentamente, carico di cose inutili, che si lascia distrarre dalle cose che incontra durante il viaggio.

La durata della pena del purgatorio è accorciata o soppressa

grazie alla pratica delle indulgenze

Il purgatorio, come dice la parola, è luogo di purificazione. In esso l’anima, non ancora del tutto purificata dalle tracce contaminatrici dei peccati, viene totalmente lavata da Dio dalla sporcizia e dalle macchie dei peccati. Viene da Lui purificata, abbellita e liberata dalle deformità e brutture conseguenti ai peccati e ciò avviene per un certo lasso di tempo, variabile da anima ad anima, quanto occorre, a seconda della quantità di immondizia da togliere, della purificazione della quale ha bisogno. Tuttavia questa operazione divina può essere accelerata ed estinta grazie alle preghiere dei vivi, alle indulgenze da essi lucrate a loro beneficio e alla celebrazione di Sante Messe applicate per loro.

Si tratta dello sconto di una pena temporale dovuta ai peccati veniali, pena non scontata durante la vita presente mediante una sufficiente penitenza, pena che resta quindi da scontare, debito che resta ancora da pagare, soddisfazione che resta ancora da offrire al Padre, residuo di sporcizia dovuto al fatto che l’anima in questa terra non è sufficientemente lavata e pulita, giacchè la pena eterna infernale è tolta grazie al sacramento della penitenza.

Per capire che cosa sono le indulgenze, bisogna ricordare che il peccato è soggetto a una duplice pena: una, che deriva necessariamente dalla natura dello stesso peccato; peccando, il peccatore punisce se stesso subendo le conseguenze penose del peccato: se uno beve un veleno, è logico che muoia. In tal senso la Scrittura dice che la sofferenza e la morte sono conseguenze del peccato.

Ma il peccato è anche disobbedienza alla legge divina e quindi offesa a Dio legislatore della legge morale e giusto giudice delle nostre azioni. Tale disobbedienza viene ordinariamente punita da Dio, soprattutto se il peccatore non si pente. Questa pena del peccato di per sè dev’essere scontata e la colpa espiata, con adeguata riparazione e dando soddisfazione a Dio mediante sacrifici, onde ottenere da Lui pietà, perdono e, possibilmente, la remissione o diminuzione e cancellazione della pena. 

Da qui l’altro aspetto, questa volta non ontologico o psicologico, ma giudiziario della pena del peccato: Dio premia e castiga. Qui però, a differenza della pena ontologica, che è inevitabile, Dio, a suo insindacabile giudizio, sempre improntato a bontà, giustizia e misericordia, può non infliggere subito la pena, può procrastinarla[2], diminuirla e addirittura annullarla.

Chi riduce la pena del peccato alle sole conseguenze della stessa azione peccaminosa, non è poi in grado di capire che senso abbia che la Chiesa irroghi pene più o meno pesanti o diminuisca o annulli pene relative al purgatorio e questo perchè trascura il fatto che Dio, Giudice dei buoni e dei cattivi si riserva, come ogni giudice, di irrogare a un dato peccato una data pena, indipendentemente dalle conseguenze del peccato stesso, stabilita dalla giustizia divina correttiva (vita presente e purgatorio) o afflittiva (inferno)[3] .

Chi nega che Dio intervenga dal di fuori del peccatore a punire a sua discrezione il peccatore, quasi fosse un puntiglioso e permaloso signore assetato di vendetta, reca a Dio una grave offesa a Dio e falsifica lo stesso concetto di Dio di quel Dio che ha detto: «a me la vendetta!» (Rm 12,19). È chiaro che la vendetta divina non ha nulla a che vedere con le nostre meschine vendette mosse dall’odio, dalla prepotenza e dall’invidia.

Ciò infatti, come dimostra chiaramente San Tommaso sulla base dell’insegnamento biblico, implica un giusto concetto di vendetta, la vindicatio, già presente nel diritto romano, che in certi casi può essere praticata anche dalla persona privata, come legittima difesa, e che non è altro che un atto energico col quale il vendicatore – in ebraico il redentore è il vendicatore o rivendicatore, goèl – dà una lezione al nemico affinchè non ci riprovi un’altra volta[4].

La dottrina del Dio che esige riparazione e soddisfazione è certamente quella di un Dio che fa vendetta dei torti subìti da Lui e dalle sue creature, un Dio che fa giustizia laddove la giustizia umana non arriva. La passione di Cristo, secondo la fede cristiana, ha pertanto questa funzione espiatrice e soddisfattoria.

È vero che questa dottrina fu particolarmente elaborata da Sant’Anselmo, ma è squisitamente biblica e puro dato della Rivelazione. Nulla da obiettare circa la sua ragionevolezza e convenienza alla maestà divina e l’immenso amore che Ella ha per noi.

I cristologi buonisti, che vorrebbero sbarazzarsene, per dispensarsi dal dovere di riparare ai loro peccati, se la prendono col povero Sant’Anselmo, come se si trattasse di respingere una qualunque superata o inadeguata opinione teologica, senza tener conto che la dottrina anselmiana, presente che in San Tommaso, fu dogmatizzata dal Concilio di Trento, anche se senza l’accento razionalistico che essa ha in Anselmo.

Ma il Santo Dottore,  attento all’insegnamento biblico e fondandosi su quelli che sono i normali rapporti umani, ci ricorda che nei confronti di un Dio da noi offeso dal nostro peccato, noi peccatori bisognosi di salvezza, abbiamo un duplice dovere, dovere che giustamente ci è richiesto da Dio stesso: un dovere primario dal punto di vista assiologico, che è quello di amarLo al di sopra di tutto; e un dovere primario dal punto di vista temporale, un dovere preliminare, che è quello di dargli soddisfazione per l’offesa del peccato e di riparare al male fatto.

Infatti, nei rapporti col prossimo come nei rapporti con Dio, dobbiamo ricordare che, se abbiamo fatto un torto ad un amico e l’amicizia si è infranta, per ricomporla non possiamo subito richiederla all’amico, come se nulla fosse successo, ma dobbiamo chiedergli perdono, dargli soddisfazione, espiare o riparare il torto commesso. Solo a questo punto, compiuti questi atti, ha senso ed è possibile ricomporre l’amicizia.

I buonisti vorrebbero con impudenza e sfrontatezza scavalcare tutto ciò senza affatto tener conto del dovere della riparazione, col pretesto che Dio è amore, buono e comprensivo e dichiarando a parole il loro amore, ma senza dimostrarlo con i fatti. Pretenderebbero fruire subito delle dolcezze di Dio senza bere l’amaro calice della riparazione. Lo ha fatto Cristo per noi, Lui innocente, e non vogliamo farlo noi debitori insolventi?

Ma dietro al buonismo c’è un gravissimo errore, che tocca il concetto stesso di Dio: chi nega che Dio ci sia giudice dei nostri atti, così da poter premiare o punire, finisce per avocare a sé il diritto di giudicare e far giustizia. Costoro possono riconoscere certamente che il peccato è una colpa da riparare, che il peccato si torce contro di noi, produce ingiustizia e merita un castigo, ma affermando che il castigo non è altro che la conseguenza del peccato e non c’è alcun Dio che lo veda e lo castighi, è chiaro che finiscono per cadere senza rendersi conto in una visione atea, dove chi fa giustizia è soltanto l’uomo. Dio è assente e sta a guardare, tamquam non esset.

È come dire: ce la sbrighiamo da soli e di Dio possiamo fare a meno. Ma è proprio così? Il tribunale di Norimberga è stato sufficiente nel punire i crimini nazisti? O forse i debiti non sono stati pagati tutti? Dio, certo, ha taciuto quando i nazisti sterminavano gli Ebrei, ma forse che non ha tenuto conto dell’ingiustizia da loro subìta? O forse i nazisti si sono pentiti e sono stati perdonati? Il giorno prima dell’esecuzione Eichmann fu interrogato per chiedergli se si era pentito ed egli rispose che non aveva nulla di cui pentirsi. Che sia andato in purgatorio? Preghiamo per la sua anima.

Significato e valore delle indulgenze

San Paolo VI nella Costituzione Apostolica Indulgentiarum doctrina del 1967 spiega i fondamenti teologici della dottrina delle indulgenze:

«È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene inflitte dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’al di là anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici, per cui i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze, contrarietà e danni.

Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione dell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana.

Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscimento dell’amicizia personale fra Dio e l’uomo, così come è apparso vera e inestimabile offesa a Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.

È necessario, allora, per la piena remissione e riparazione dei peccati, non solo che l’amicizia di Dio venga ristabilita con una sincera conversione della mente e che sia riparata l’offesa arrecata alla sua sapienza e bontà, ma anche che tutti i beni sia personali che sociali o dello stesso ordine universale, diminuiti o distrutti dal peccato, siano pienamente reintegrati o con la volontaria riparazione che non sarà senza pena o con l’accettazione delle pene stabilite dalla giusta e santa sapienza di Dio, attraverso le quali risplendano in tutto il mondo la santità e lo splendore della sua gloria. Inoltre, l’esistenza e la gravità delle pene fanno comprendere l’insipienza e la malizia del peccato e le sue cattive conseguenze.

Che possano restare e che di fatto frequentemente rimangano pene da scontare o resti di peccati da purificare anche dopo la remissione della colpa, lo dimostra molto chiaramente la dottrina sul purgatorio: in esso, infatti, le anime dei defunti che sono passate all’altra vita nella carità di Dio veramente pentite, prima che avessero soddisfatto con degni frutti di penitenza per le colpe commesse e per le omissioni, vengono purgate dopo la morte con pene purificatrici. La stessa cosa è messa in buona evidenza dalle preghiere liturgiche, con le quali la comunità cristiana ammessa alla santa Comunione, si rivolge a Dio fin da tempi antichissimi: “perché noi, che giustamente siamo sottoposti ad afflizioni a causa dei nostri peccati, misericordiosamente possiamo essere liberati per la gloria del tuo nome[5]”».

La Chiesa ha un potere giudiziario salvifico fondato sul sacerdozio, potere che le è stato conferito da Cristo, Giudice divino dei vivi e dei morti, il cosiddetto «potere delle chiavi». Tale potere consiste nel poter amministrare, distribuire e comunicare sacramentalmente alle anime dovutamente disposte la grazia dei meriti di Cristo, della beata Vergine Maria e dei Santi.

Il potere di concedere e regolamentare le indulgenze entra in questo potere generale della Chiesa di attingere al tesoro dei meriti di Cristo per distribuirne le ricchezze alle anime. In questa linea di discorso comprendiamo le parole di Papa Clemente VI nella Bolla d’indizione dell’Anno Santo del 1343:

«L’unigenito Figlio di Dio ha procurato un tesoro alla Chiesa militante e lo ha affidato al beato Pietro, clavigero del cielo e ai successori di lui, suoi vicari in terra, perché lo dispensassero salutarmente ai fedeli e, per ragionevoli cause, lo applicassero misericordiosamente a quanti si erano pentiti e avevano confessato i loro peccati, talvolta rimettendo in maniera parziale la pena temporale dovuta ai peccati, sia in modo generale che particolare (come giudicavano opportuno nel Signore). Si sa che di questo tesoro costituiscono un accrescimento ulteriore anche i meriti della Beata Madre di Dio e di tutti gli eletti» (Denz.1025).

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 settembre 2023

Siriani G. A. sec. XVII

Dietro al buonismo c’è un gravissimo errore, che tocca il concetto stesso di Dio: chi nega che Dio ci sia giudice dei nostri atti, così da poter premiare o punire, finisce per avocare a sé il diritto di giudicare e far giustizia. Costoro possono riconoscere certamente che il peccato è una colpa da riparare, che il peccato si torce contro di noi, produce ingiustizia e merita un castigo, ma affermando che il castigo non è altro che la conseguenza del peccato e non c’è alcun Dio che lo veda e lo castighi, è chiaro che finiscono per cadere senza rendersi conto in una visione atea, dove chi fa giustizia è soltanto l’uomo. Dio è assente e sta a guardare, tamquam non esset.


Il potere di concedere e regolamentare le indulgenze entra in questo potere generale della Chiesa di attingere al tesoro dei meriti di Cristo per distribuirne le ricchezze alle anime. In questa linea di discorso comprendiamo le parole di Papa Clemente VI nella Bolla d’indizione dell’Anno Santo del 1343:

«L’unigenito Figlio di Dio ha procurato un tesoro alla Chiesa militante e lo ha affidato al beato Pietro, clavigero del cielo e ai successori di lui, suoi vicari in terra, perché lo dispensassero salutarmente ai fedeli e, per ragionevoli cause, lo applicassero misericordiosamente a quanti si erano pentiti e avevano confessato i loro peccati, talvolta rimettendo in maniera parziale la pena temporale dovuta ai peccati, sia in modo generale che particolare (come giudicavano opportuno nel Signore). Si sa che di questo tesoro costituiscono un accrescimento ulteriore anche i meriti della Beata Madre di Dio e di tutti gli eletti» (Denz.1025).

Immagini da Internet
-  Angeli liberano le anime del Purgatorio, Sirani G. A., sec. XVII
- Maria SS. del Monte Carmelo, Paolo Lanari, 1797. Chiesa Madre di Gioia

[1] Vedi per es. Sap 10,2; Num 20,2; II Re 13, 13-14; II Mac 12, 43-46.

[2] Vedi per esempio la parabola del ricco epulone.

[3] L’errore di quelli che limitano la pena del peccato alle sole conseguenze del peccato, non sono in grado di capire il senso del Giudizio universale, dove è più che evidente il potere giudiziario di Cristo, indipendentemente dalle conseguenze delle buone o delle cattive azioni commesse dagli uomini. E difatti una delle eresie dei buonisti è quella di negare il Giudizio universale trasformandolo in una specie di quelle feste di fine d’anno tra studenti e insegnanti, che si fanno per festeggiare, con un senso di liberazione, la fine dell’anno scolastico con le sue ansie, insuccessi e traversie. Tutto è bene quello che finisce bene. D’accordo. Ma la fede ci dice – ci piaccia o non ci piaccia - che di fatto non per tutti finisce bene, e ciò per coloro che per colpa loro lo hanno voluto.

[4] Cf Summa Theologiae, II-II, q.108.

[5] Dominica di Septuagesima, Oratio; Feria II post I dominicam in Quadragesima, Oratio super populum; Dominica III in Quadragesima, Postcommunio.

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