Arte e
prudenza
Importanza
della questione
La questione del rapporto dell’arte con la
morale è sempre di attualità. L’arte, infatti, tende ad assumere pretese
eccessive sino a sconfinare nella magia o nella convinzione che l’uomo possa
lecitamente plasmare tecnicamente la propria natura. C’è la tendenza a perder
di vista l’essenza creaturale della natura, con la conseguenza di violarne le
leggi in nome di un falso ideale estetico di dominio sulla natura.
Oppure l’arte viene prostituita ed impiegata
per favorire ogni genere di vizio e corruzione morale, sotto pretesto dell’amore
per il bello o della libertà di espressione. Per converso, c’è sempre la possibilità,
grazie a Dio, che l’arte, proprio dando il meglio di se stessa, favorisca la virtù,
la cultura, la scienza, il progresso morale e civile, la giustizia e la pace, la
vita spirituale e religiosa. È possibile salvare il mondo dell’arte solo nel
clima costruttivo di quella virtù che deve governare gli atti umani: la
prudenza. Ma per il cristiano ciò non basta: l’arte dev’essere espressione
della carità.
La carità infatti propone alla prudenza un
fine superiore, che non è quello della semplice perfezione umana, ma è la
figliolanza divina, con la prospettiva della visione beatifica di Dio nella vita
eterna. Secondo tale prospettiva, l’arte non è ordinata solo alla prudenza, ma,
al di là di essa, alla carità, e quindi alla santità. Per questo dall’artista
cristiano si chiede non solo che sia prudente, ma che sia santo. E quanto al
fruitore dell’opera d’arte, anch’egli, per poterla gustare e trarne profitto
spirituale, dev’essere santo o quanto meno disponibile a farsi santo. Per
questo, il Beato Angelico diceva che «per dipingere le cose sante, occorre
essere santi». Ed egli stesso ne è un esempio.
Una tendenza deleteria oggi in morale è il
trattare dell’agire morale come fosse un operare artistico. Col pretesto che le
condizioni esistenziali della natura umana mutano nel corso del progresso
storico dell’agire morale, si parla della natura umana, in se stessa immutabile
e inviolabile perché creata da Dio, come se fosse una materia mutabile, duttile
e plasmabile a nostra disposizione.
Si parla quindi a sproposito di «creatività»
nella scienza morale, la quale invece non ha da creare nulla, ma semplicemente ci
deve insegnare come applicare alla nostra vita quotidiana i dieci comandamenti
di Dio e i due precetti della carità. Se di creatività proprio si vuol parlare
in morale, ci si potrà riferire al massimo, in senso metaforico, come è del
resto quello della poesia, al singolo atto concreto, uno diverso dall’altro,
dettato dalla virtù della prudenza, il quale, però, per essere moralmente buono,
deve sempre essere applicazione al caso particolare del principio morale universale.
Tra le
cinque virtù dianoetiche
Cominciamo allora da considerazioni puramente
umane e razionali. Come tutti sanno, Aristotele elenca, fra le cinque virtù
intellettuali o «dianoetiche», l’arte (techne),
che è il retto criterio o la regola di un’opera da farsi e la prudenza (sofrosyne), che è il retto giudizio
circa le azioni da compiere[1].
Tra le cinque virtù intellettuali, sapienza,
intelletto, scienza, arte e prudenza, l’arte ha uno speciale rapporto con la
prudenza, perché entrambe riguardano l’azione. Infatti la prudenza è anche la
regina delle virtù morali. Invece dal termine aristotelico techne viene l’ars
latina, dalla quale abbiamo arte in
italiano. Arte, in generale, significa abilità razionale nel produrre.
Come vedremo, se questa abilità comporta originalità,
sentimento, inventiva e creatività, abbiamo la poesia. Se invece dice abilità o
esattezza nell’eseguire bene un lavoro secondo regole fisse, allora abbiamo la
tecnica. Se si guasta il computer, non chiamo un poeta, ma un tecnico. Se
invece mi innamoro di una donna, divento poeta. La poesia si serve di una
tecnica – per esempio l’arte di far versi -. Invece la tecnica non ha bisogno
della poesia. Non c’è bisogno che chi ripara un computer abbia il genio di Manzoni
o di Dante.
L’opera da produrre può essere un oggetto
esterno, materiale, che viene elaborato o plasmato dall’arte, che dà forma ad una
certa materia: la forma della statua al blocco di marmo. L’arte umana,
tuttavia, dà alla materia solo una forma accidentale, avventizia, contingente, compreso
il corpo umano. Se l’opera d’arte viene distrutta, perde la forma impressa
dall’artista e riappare la forma naturale della materia, dalla quale era stata
tratta. Infatti ogni corpo in natura, compreso il corpo umano, ha già di per sè dal Creatore la sua forma
sostanziale, che lo fa essere ciò che è, per esempio la forma della pietra,
dell’albero, dell’animale, dell’uomo.
Ora, la forma sostanziale dell’uomo è la sua
stessa anima spirituale. L’arte umana, quindi, non può pretendere di avere un
tale potere sulla natura o sulla materia umana o naturale, da plasmare la propria
o altrui materia a suo arbitrio senza tener conto della forma sostanziale e
delle sue leggi operative. Sarebbe, questo, un voler sostituirsi a Dio nel
potere che Egli ha sulla materia. Questo tentativo costituisce il peccato di
magia, principio di tutte le arti magiche, che sono suggerite o patrocinate dal
demonio.
Ma può trattarsi anche di un’opera interiore:
l’opera stessa del pensare e del ragionare, l’opera della ragione. E qui
abbiamo l’arte della logica, la quale, come dice S.Tommaso, è l’ars artium, è la regina delle arti,
perché mette ordine nella ragione, che è la facoltà con la quale l’uomo stabilisce
le regole di tutte le arti, a cominciate dall’arte del pensare e del ragionare,
che serve anche a raggiungere la scienza, la virtù e la sapienza.
Se poi si tratta del linguaggio, esiste anche
un’arte del linguaggio, del saper esprimere e comunicare piacevolmente il proprio
pensiero agli altri nelle forme e modi più appropriati, persuasivi ed
attraenti. Abbiamo allora l’oratoria o retorica, che insegna l’arte
dell’oratore, ossia come organizzare un’orazione, nonché gli espedienti, le
risorse e i luoghi dai quali ricavare i mezzi, le modalità, le forme e le
tecniche migliori della comunicazione e dell’uso dei mass-media.
Arte,
tecnica e poesia
L’arte, in generale, ha per fine il bene
dell’opera, un’opera gradita all’uomo. Da questo punto di vista del tutto
generale, possiamo mettere sotto il titolo dell’arte sia la tecnica che la
poesia. Noi però chiamiamo in un modo più specifico «arte» non la tecnica, che
ha fini utilitaristici, ma la poesia, ossia la creatività produttrice di opere
destinate al godimento estetico disinteressato.
Il genio creatore è dunque l’artista; il
produttore di opere utili è l’artigiano, il tecnico, l’ingegnere, l’operaio. Il
fare artistico è sempre nuovo, mette in opera l’estro, la fantasia inventiva,
non è ripetitivo, secondo la famosa frase di Paganini: «Paganini non ripete»,
anche se ovviamente è sempre bello riascoltare le sonate di un grande
violinista.
All’artista piace distinguersi dagli altri
artisti. Ciò non impedisce naturalmente espressioni collettive, soprattutto di
carattere nazionale. È così che noi distinguiamo un’arte greca da un’arte araba
da un’arte cinese. Ma all’artista non piace la tradizione, piace la novità.
Esalta la varietà e la diversità. L’artista ha un maestro; ma gli serve solo
come stimolo per scoprire la propria
personalità. L’artista è poco interessato al guadagno. Gl’interessa soprattutto
esprimere se stesso in libertà.
L’artigiano, invece, è per lo più ripetitivo
e più legato alla tradizione. Egli lavora per guadagnare. Esistono scuole di
artigianato che perseverano nei secoli, nel campo dell’arredamento, delle
decorazioni, della medicina, dell’abbigliamento, degli utensili, degli usi civili,
patri o religiosi, nonostante il sorgere continuo di nuovi e più efficaci o
pratici ritrovati della tecnica in continua evoluzione e miglioramento.
Il campo della tecnica o dell’arte utile ha
raggiunto oggi una tale varietà, che non è possibile qui elencare neppur
sinteticamente la prodigiosa varietà delle tecniche oggi esistenti e in
continuo progresso. Le principali sono forse la medicina, l’architettura,
l’urbanistica, l’alimentazione, l’abbigliamento, l’agricoltura, la culinaria, l’allevamento,
l’ingegneria, l’elettronica, l’industria, l’artigianato, i trasporti,
l’astronautica, l’arte militare, l’ecologia.
Per quanto riguarda invece le arti belle,
possiamo ricordare almeno le più note e tradizionali: musica, danza, teatro,
spettacolo, atletica, poesia, pittura, letteratura, scultura. Arti ricreative o
del godimento sono anche il gioco, il turismo e lo sport.
Se l’arte è al servizio della religione
abbiamo nel cristianesimo la salmodia, che esprime i sentimenti dell’anima
assetata di Dio; la mitologia, che esprime in forma di simboli e racconti
l’agire divino verso l’uomo; la profezia, che rivela i piani di Dio sull’uomo e
l’arte sacra o liturgica, che raffigura in immagini i misteri divini che
vengono celebrati nel culto divino.
Se invece si tratta di una religione
perversa, meglio chiamata superstizione,
abbiamo l’idolatria, e la corrispondente arte perversa, che è quella
della fabbricazione degli idoli. Da menzionare qui anche la fabbricazione di
oggetti per i malefìci e la pratica di quei riti che in qualunque modo o forma
si propongono di sostituire o distruggere la liturgia cristiana.
L’arte è un
virtù speculativa con applicazioni operative.
Ci potremmo chiedere perchè mettere l’arte
tra le virtù speculative e non tra quelle pratiche o morali (praxis), dato che si tratta dell’agire
umano e di produrre un’opera, un artefatto. Il motivo è dato dal fatto che
quella che qui Aristotele chiama techne
non è quella che oggi chiamiamo tecnica, l’arte utile o l’artigianato o
l’ingegneria, ma quella che i Greci, con Platone, chiamavano poiesis, da poieo, faccio, e che oggi chiamiamo poesia nel senso
non solo di arte del versificare, ma in generale come creazione o invenzione
artistica, e che traduciamo con poesia o arte bella.
Quella che oggi chiamiamo «tecnica» è
collegata col concetto del lavoro, benché sia questo un concetto più ampio, in
quanto il lavoro non comporta solo aspetti tecnici, ma anche morali, politici
ed economici. Nel lavoro abbiamo le tecniche della produzione industriale ed
economica, dell’attività ecologica, della sicurezza pubblica,
dell’organizzazione della cultura, della cura della salute e dei traffici
commerciali a contatto con i valori morali della giustizia, della prudenza,
della solidarietà umana, della libertà e
del progresso.
La techne
aristotelica, che, come ho detto, corrisponde a quella che oggi chiamiamo
poesia o arte bella, è un virtù speculativa perché ha per fine la produzione di
un’opera che non serve per le necessità pratiche materiali della vita – quella
che noi oggi chiamiamo tecnica -, ma per il godimento estetico o per contemplare il sublime o per
rappresentare i valori eterni o per il culto religioso o per incitare alla
virtù, nella forma della bellezza.
Questa radice speculativa dell’arte è ben
rappresentata dal mito platonico del Demiurgo, che contempla un’idea come modello della sua
produzione e in base ad esso, dà forma alla materia. Per questo, quanto più un
artista sa calare l’ideale nella materia, tanto più grande è la sua virtù d’artista.
Quando Aristotele dice che l’arte imita la natura, va inteso probabilmente sulla
scia della mimesis platonica.
Inoltre, per Aristotele l’arte comporta anche
un giudizio sul come procedere per la perfetta realizzazione del modello ideale
da imitare. Ed anche per questo motivo l’arte è una virtù intellettuale, benché
poi si tratti di mettere in pratica l’ideale concepito seguendo le regole della
produzione.
Tuttavia Aristotele mette in luce anche
quell’aspetto dell’arte, per il quale l’artista non imita l’ideale, ma plasma
liberamente la materia. In questo campo, esistono delle regole del fare, ma
l’artista per esprimere il proprio progetto, è libero di disattendere alla
regola.
Sotto questo punto di vista, infatti, l’arte
non ha il compito di riprodurre esattamente le cose come sono, ma come sono
soggettivamente sentite e rivissute dall’artista, come le vede lui. Per questo
egli può produrre un’opera migliore allontanandosi dalle regole della riproduzione fedele, se ciò è richiesto dalla sua
creatività poetica. L’osservanza assoluta della regola, semmai, è compito della
tecnica o dell’artigianato, come per esempio la fotografia, oppure è compito della
scienza. Un artigiano, se deve fare un tavolo, lo fa di un’altezza ragionevole;
non può farlo alto 30cm, col pretesto che così esige la sua creatività.
Invece la poesia si serve bensì della
tecnica, in quanto regola fissa per la produzione di un’opera. Tuttavia essa
deve esprimere anzitutto la creatività del
poeta. Siccome allora qui la tecnica è al servizio della poesia, a differenza
delle arti utili, dove occorre sempre rispettare le regole della tecnica –
pensiamo alla costruzione di un computer -, nel caso della poesia, la
tecnica può non essere osservata al fine
di dar spazio alla creatività.
Per esempio, i ritratti di Picasso o di
Modigliani esprimono l’originalità della personalità di Picasso o Modigliani a
prezzo di trascurare in parte le esigenze tecniche di una rappresentazione
realistica della persona ritratta. Non
sarebbero stati adatti per una carta d’identità, come invece lo è una foto,
frutto di semplice tecnica fotografica.
Per questo Aristotele – precorrendo in modo
sorprendente la creatività propria dell’arte moderna - dice che «nell’arte è preferibile chi pecca
volontariamente»[2]. E
S.Tommaso commenta:
«È chiaro
che se qualcuno pecca nell’arte di propria volontà, è considerato un miglior artista
di colui che fa ciò spontaneamente, perché in tal caso sembrerebbe operare per
imperizia, come è evidente in coloro che parlano in modo incongruo di propria volontà.
Invece, nella prudenza è meno lodato chi pecca volontariamente che chi lo fa involontariamente,
come nelle altre virtù morali»[3].
Pensiamo alle «parole in libertà» dei
poeti futuristi.
S.Tommaso paragona la conoscenza del reale che
ci dà la poesia, quella che egli chiama «scientia poetica», alla teologia e dice
che l’una e l’altra fanno uso di simboli, metafore e rappresentazioni fantastiche,
però con una differenza. Dice l’Aquinate:
«la scienza
poetica tratta di quelle cose, che per un difetto di verità non possono essere comprese
dalla ragione, per cui è quasi necessario che la ragione venga sedotta da certe
similitudini; invece la teologia riguarda quelle cose che sono al di sopra
della ragione; per questo, il modo simbolico è comune ad entrambe, dato che né
l’una né l’altra sono proporzionate alla ragione» (I Sent., prol., q.1, a.5, ad 3).
«Come le
cose della poesia non sono capite dalla ragione umana per un difetto di verità
che si trova in esse, così pure la ragione umana non può comprendere perfettamente
le cose divine, a causa della verità trascendente che si trova in esse. E per
questo, nell’uno come nell’altro caso è necessaria la rappresentazione per mezzo
di figure sensibili» (Sum. Theol.,
I-II, q.101, a.3, ad 2).
Per «difetto di verità» Tommaso non intende
che la poesia contenga delle falsità, ma si riferisce al fatto dell’oscurità
propria della poesia, che ha relazione con l’oscurità della realtà materiale,
alla quale in ogni caso fa riferimento il soggetto trattato dal poeta[4].
Alla valorizzazione della produzione
artistica è connessa una speciale disciplina intellettuale: la critica d’arte,
che è quella speciale sapienza o acribìa nel giudicare del valore estetico delle
opere d’arte, che è propria del critico d’arte. Questa disciplina nacque nel
sec.XVIII sulla base dell’Estetica,
la filosofia del bello artistico, fondata da Alexander Gottlieb Baumgarten,
come giustificazione critica della presa
di coscienza del potere poetico-creativo dell’artista, mentre fino ad allora il
giudizio sull’opera d’arte si limitava a commentare e spiegarne il contenuto e
gli scopi.
L’arte deve
servire l’uomo
Si pone dunque il problema del coordinamento
dell’agire morale con quello artistico. Diciamo subito che il fine dell’arte è
subordinato al fine dell’uomo. Quindi l’arte è subordinata alla prudenza. Per
quanto riguarda il rapporto con la sapienza, la scienza e l’intelletto, l’arte
cammina con la scienza, in quanto esse si stimolano a vicenda: la scienza
risolve problemi tecnici; l’arte fornisce simboli alla scienza.
L’arte, come comprese bene Benedetto Croce,
ha un suo fine intrinseco, che è l’espressione comunicativa, emotiva, originale
e dilettevole di un’intuizione lirica del mondo interiore della soggettività creatrice
dell’artista. Ma egli riteneva che quando l’artista si propone fini didascalici
o moralizzatori o dottrinali, venga meno la spontaneità, si introduce una
finalità estranea e nociva, la vena poetica si inaridisca, l’entusiasmo si
raffreddi e si spenga il fuoco del’emozione lirica, che costituisce l’essenza,
il pregio e la libertà della poesia. Per questo Croce preferiva l’Inferno di Dante al Paradiso, senza rendersi conto che tutta la Divina Commedia è, come lo è la Bibbia, un’aspirazione al Paradiso, per cui è qui che Dante poeta ha dato il meglio di se stesso
come poeta e come cristiano.
È vero che l’arte si fonda su di
un’intuizione creatrice[5],
ossia l’artista intuisce una forma intermedia fra la sua soggettività e la
natura e la raffigura nell’opera d’arte, in modo tale che in essa si riconosce
la personalità dell’artista – lo stile – e l’oggetto della natura che gli ha
fornito l’ispirazione. Così noi distinguiamo le diverse personalità degli
artisti. Una natura d Van Gogh non è quella di Munk o quella di Cézanne o
quella del Giorgione.
L’arte è al
servizio del bello
L’arte è un operare che mediante la
produzione di un’opera, pone lo spirito a contatto con la bellezza spirituale e
i sensi a contatto con la bellezza sensibile. Questa esperienza della bellezza,
come già intuì Platone, eleva lo spirito alla contemplazione della Bellezza
divina.
Il bello, in generale, come lo definisce
S.Tommaso, è «ciò che, visto, piace» (id
quod visum placet). Il bello ha relazione alla verità, perché è la verità
ad essere oggetto della vista. Tuttavia piace; e allora ha relazione anche con
la volontà, perché il dilettevole è oggetto della volontà. Il piacere è la
quiete dell’appetito intellettivo o sensitivo soddisfatto del possesso o
fruizione del suo bene o dal compimento della sua azione naturale. Il piacere
estetico stimola le forme di piacere legate all’appetito. Nel campo fisico la
principale è il piacere sessuale. Nel campo dello spirito la forma principale è
il piacere della contemplazione divina.
Il bello, dunque, congiunge il vero col
buono, la conoscenza con l’amore. Il bello è un bene, un bene per l’intelletto,
mentre il bene per la volontà è il bene morale. La bellezza, dunque, è
proprietà sia del vero che del bene. E l’artista ci accosta con la sua opera a
questa duplice bellezza. Come il bello, proprietà del vero e del bene richiama
il piano originario ed escatologico di Dio, così il brutto, proprietà del falso
e del male, è conseguenza del peccato.
La produzione artistica stimola dunque ad un
tempo l’azione morale e la contemplazione divina. L’ideale morale piace
anzitutto all’intelletto e, in quanto piace, stimola la volontà a metterlo in
pratica. E così l’estetica, la scienza del bello, stimola alla virtù. L’arte,
dal canto suo, entra in gioco in questo movimento dello spirito, in quanto,
aprendo col suo operare l’intelletto alla bellezza del vero morale e teologico,
suscita l’amore per entrambi e, per conseguenza, grazie alla prassi della
volontà, conduce l’uomo alla beatitudine.
Il bello, secondo S.Tommaso[6],
risulta dal concorso di tre fattori: la completezza unitaria (integritas), l’ordine e l’armonia degli
elementi (proportio) e l’intellegibilità
(claritas). Completezza vuol dire che
c’è tutto quello che ci deve essere. È la piena realizzazione del progetto. Se
manca qualcosa di essenziale, l’opera è brutta.
Immaginiamo cosa sarebbe il colonnato di
S.Pietro se mancassero cinque colonne. O che diremmo , se alla Gioconda di
Raffaello mancasse un occhio? O se nell’Ultima Cena di Leonardo gli apostoli
fossero dieci anzichè dodici? I famosi «prigioni» di Michelangelo sono belli
non in quanto incompiuti, ma in quanto immaginiamo quanto sarebbero stati
belli, se li avesse finiti. Un’opera incompiuta non riuscita è brutta, è
impresentabile.
Proporzione vuol dire che nell’opera ci
dev’essere un ordine degli elementi fra di loro in rapporto a un valore
principale o centrale, che dà senso a tutta l’opera. Che diremmo di un ritratto
di Garibaldi dai pantaloni in giù, anzichè dai pantaloni in su? Che diremmo del
campanile di una chiesa che fosse tre volte più alto della chiesa stessa? Che
diremmo di un inno alla Madonna, che preoccupasse di descrivere le scarpe della
Madonna? La sproporzione è sinonimo di bruttezza.
La claritas
è l’intellegibilità dell’opera. Certi artisti soprattutto gli astrattisti, sono
troppo preoccupati di mostrare la loro originalità, che prescindono o astraggono
del tutto dal rappresentare qualche elemento oggettivo della natura. Succede così
che nasce un guazzabuglio confusionario e casuale senza significato, dove non si
capisce niente. La materia informe è sinonimo di bruttezza. Il brutto è il
deforme, l’inintellegibile.
Dio è sommo Artista. Egli ha un’inesauribile
e ricchissima fantasia creatrice, che si sbizzarrisce in un’infinità di forme diverse,
negli angeli, negli uomini, negli animali, nelle piante, nei minerali, negli astri.
La creatura più bella è la donna, che unisce corpo e spirito. E tra tutte le
donne la più bella è Maria. Ella, che è tipo della Chiesa, rappresenta la
bellezza della Chiesa, sposa di Cristo. Pericolosa è la bellezza di Eva per
l’uomo vecchio schiavo della concupiscenza. Santificante è la bellezza di Maria
per l’uomo nuovo che pregusta la resurrezione.
L’origine
interiore del poetare
La
poesia nasce nel poeta da un bisogno di esprimere un proprio mondo interiore
originale, diverso da artista ad artista e di comunicarlo a un proprio pubblico
più o meno ampio, ma non a tutta l’umanità. Così ogni artista, ogni poeta, di
solito, salvo eccezioni, soprattutto i moderni, ha il suo pubblico, un suo
linguaggio, una sua personalità, un suo stile, un suo messaggio, una sua
poetica che esprime il suo modo e metodo di far opere d’arte, il suo programma
di produzione, affinchè il pubblico interessato alle sue opere possa capire e gustare
che cosa intende dire.
Ma il Croce non ha capito che l’artista non
può accontentarsi dell’intuizione lirica come fosse l’assoluto e la beatitudine
della sua vita. L’uomo non si accontenta del fare, ma ha bisogno di essere. La
sua esistenza è più importante delle opere che egli produce, fossero pur frutto
dell’intuizione lirica. Per questo l’uomo, sia pur rispettando il fine
dell’arte, non può non guardare oltre, perché sente il bisogno di un oltre,
insomma sente il bisogno di Dio. Come allora nella sua arte non esprimere il
suo atteggiamento nei confronti di Dio, fosse pure, come fece Leopardi, per
chiudersi senza speranza nel meschino orizzonte lamentevole ed amaro del
proprio io inappagato e deluso?
Croce,
troppo preso dalla sua concezione della poesia, e chiuso in essa, non seppe sollevare
lo sguardo oltre la poesia, laddove essa stessa conduce. Non si accorse che l’arte
solleva lo spirito alla sapienza contemplativa ed addirittura alla mistica, come
ci insegnano i Salmi della Scrittura. Troppo preso dal suo storicismo, si dimenticò
dell’Eterno. Troppo immerso nell’emozione, si dimenticò dell’intelletto. Si dimenticò
che l’arte è una virtù intellettuale. Senza bisogno di consultare S.Giovanni
della Croce, gli sarebbe bastato riflettere su ciò che dice Kant nella Critica
del Giudizio, e cioè che la grande
arte fa superare la percezione del bello, proporzionato all’uomo, e solleva lo spirito
a ciò che per la sua grandezza non ha proporzione con l’uomo, e che egli chiama
il sublime.
L’intuizione creativa dell’artista è una
conoscenza, ma non una semplice conoscenza astratta come può essere il sapere
scientifico o filosofico; è invece un’intuizione intellettuale immersa nel
sensibile, scaldata dall’amore e vivacizzata dall’emozione estetica, ossia dalla
percezione del bello, che può essere la bellezza del vero o del bene.
Si tratta di una conoscenza per affinità,
un’empatia, per la quale un artista si sente affine o in sintonia con certe
cose e non con altre. Corot, per esempio, sentiva in particolare i paesaggi,
Morandi le nature morte, Modigliani i ritratti di persone, Tolouse-Lautrec gli
spettacoli di varietà, Gauguin le donne tahitiane.
L’intuizione creativa, come ha evidenziato il
Maritain[7],
ha una somiglianza con la conoscenza per affinità affettiva, propria
dell’esperienza mistica, in quanto nell’uno come nell’altro caso il soggetto
non utilizza un sapere puramente intellettuale, ma un sapere amante -
«intelletto d’amore», dice Dante -, che entra in contatto l’oggetto del sapere.
Ma c’è anche una grande differenza, che consiste nel fatto che mentre nella poesia
l’oggetto è un’opera da produrre, nel caso della mistica l’oggetto è Dio stesso,
conosciuto nella fede amante ispirata dalla carità.
Inoltre l’intuizione creativa moderna ha un
carattere più soggettivo e circoscritto a un particolare ambiente artistico, contrariamente
a quanto avveniva nel Medioevo,
generalmente unito da una comune fede cristiana. Gli artisti medioevali,
infatti, producevano opere che capivano tutti, anche per l’universalità dei
valori espressi e la convenzionalità dei simboli e del linguaggio. L’artista
moderno invece è compreso ed apprezzato solo dal suo pubblico, a volte molto
ristretto, che sa interpretare e gustare che cosa intende dire. L’artista,
infatti, non intende esprimere ciò che pensa o conosce ciò che sente. Ora, ciò che penso, se è una
verità universale, possono pensarlo o saperlo tutti. Ma ciò che sento io, o
piace a me, non è detto che lo senta anche tu o piaccia anche a te. La musica
di Wagner piace agli appassionati di Wagner; la musica di Verdi piace agli
appassionati di Verdi.
Arte e
spiritualità
La prudenza anima l’arte con le virtù morali della
giustizia, della fortezza e della temperanza, in modo tale che promuova il culto
divino e serva al bene comune e non istighi all’odio o all’empietà, che promuova
l’onestà e la purezza dei costumi e non inciti all’intemperanza ed alla
lussuria e che stimoli alla pazienza e all’eroismo e non all’adulazione ed alla
piaggeria verso potenti, tiranni e dittatori.
È vero che il poeta, sia egli credente o sia non
credente, può essere sempre un grande poeta. In ciò diamo ragione a Croce. L’essere
poeta di per sè non implica nè la fede né l’incredulità, perché diverso è il
rapporto del poeta con la sua poesia dal suo rapporto positivo o negativo con
Dio. È sufficiente che sappia esprimersi con proprietà e scioltezza di
linguaggio, levigato e raffinato, con immagini, simboli e paragoni originali ed
efficaci, con forza di sentimento, stile armonioso e scorrevole.
Non c’è dubbio però – e questo è sfuggito a
Croce - che di fatto il poeta credente è poeta migliore non in quanto abbia più
talento poetico – potrebbe averne di più l’ateo -, ma in quanto la sua
comunione con Dio e la sua sete di Dio, sorgente prima trascendente della
creatività poetica, fa sì che la presenza di Dio si avverta all’interno della
stessa opera d’arte ad animarla e ad ispirarla, sicchè appare evidente quello
che Dante dice dell’arte umana che è «nepote» dell’arte divina.
Prendiamo due esempi paradigmatici: Dante e
Leopardi. Due notevolissimi talenti poetici. Eppure, quale abissale differenza
ed anzi opposizione fra le due spiritualità! Da una parte un uomo, Dante, che ha
Dio davanti allo sguardo, che fa della sua poesia l’espressione del suo pentimento
e del suo bisogno di espiazione, che attraverso la visione dell’inferno e
l’esperienza del purgatorio lo conduce ad una pregustazione del paradiso.
Leopardi, che ha davanti allo sguardo il
nulla, nulla da cui proviene e nulla verso il quale tende, volge tutto il suo
sguardo e tutti suoi interessi verso il suo io dolorante, solitario ed assetato
di una felicità terrena, che non possiede e che, con la morte imminente gli sarà
irraggiungibile per sempre.
Non gli viene in mente di chiedersi chi è che
lo mantiene in vita, chi gli ha dato l’esistenza, chi gli concede di scrivere versi così belli
seppur disperati. Non pensa assolutamente ad una vita eterna e ad una resurrezione
futura. Nessun desiderio di Dio. Non gli viene in mente che la sua attuale infelicità
potrebbe essere occasione per espiare i suoi peccati. Non pensa di rendersi
utile agli altri con opere di carità. Non si domanda se i suoi versi serviranno
a condurre a Dio o a generare disperazione. Nulla di tutto questo.
Ci si potrebbe chiedere: che gusto ci ricava
dai suoi versi? Una misera gloria terrena? Che cosa ci trovano in Leopardi i
suoi ammiratori? Che senso ha proporli nella scuola a ragazzi, che si trovano in un momento delicato della
loro esistenza, nel quale s’interrogano sul senso della loro vita? Quale luce
può arrecar loro Leopardi? In un’età nella quale le attrattive del mondo sono
forti e la spiritualità è agli inizi, che valore formativo può avere il fascino
di una poesia che chiude gli occhi a Dio e fissa lo sguardo ai piaceri della
vita presente con la prospettiva del nulla eterno? Ci potremmo chiedere a
questo punto se la bellezza del carme non contribuisca ad annebbiare lo
spirito, anziché elevarlo alla contemplazione della Bellezza suprema.
L’origine
del talento artistico
Il talento artistico, se non richiede una
particolare abilità tecnica, solitamente appare sin dalla fanciullezza, perchè
è innato nella natura individuale del soggetto. Infatti l’attività artistica è inizialmente
effetto spontaneo del talento artistico, che può manifestarsi sin dalla più
tenera infanzia. Il soggetto ha bisogno certamente di un’educazione della sua
attitudine. Ma essa non fa che perfezionare una dote di natura che esiste già.
Il soggetto agisce con naturalezza, per un
impulso o ispirazione interiore, lavorando per lunghi tratti di tempo, quasi
d’istinto e senza errore, senza aver bisogno di correggersi, con un’operosità a
volte prodigiosa, un puro bisogno di esprimersi e di fare, prefiggendosi normalmente
scopi benèfici, che devono rafforzarsi nella coscienza morale dell’artista, col
crescere dell’età, perché non corra il rischio di isolarsi dagli altri e di un
vano autocompiacimento.
Il soggetto deve evidentemente avere a
disposizione strumenti tecnici – una matita, uno strumento musicale, la
conoscenza di una lingua -, ma dimostra in certi casi un’abilità sorprendente,
come se già avesse imparato da un maestro, operando spontaneamente con facilità,
gioiosamente, irresistibilmente, di propria iniziativa, ma anche su richiesta.
Ma in tal caso solitamente il lavoro non riesce
così bene come quando nasce dalla pura ispirazione. Il soggetto, in tal caso, deve
impegnare la riflessione e la volontà, a volte sforzandosi: il risultato è solitamente
inferiore a quello di quando è mosso dall’ispirazione. Essa solitamente nasce
improvvisamente o matura lentamente e nascostamente, a contato con certe cose,
fatti o persone o per il nascere di certi ricordi. Ma l’ispirazione può anche
essere rievocata e rinascere al ricordo di esperienze simili precedenti.
Io mostrai dall’età di cinque anni un’abilità
nel disegno molto superiore a quella dei fanciulli di quell’età. Sentivo un
naturale bisogno di esprimermi rappresentando a matita a memoria cose che avevo
vedute poco prima o immaginavo con la fantasia: case, animali, persone. Ma tali
rappresentazioni erano così veristiche, che le si sarebbero giudicate fatte da
un adulto dotato. Non copiavo da disegni di altri e quasi mai ritraevo dal vero.
Ma avevo una straordinaria memoria visiva: vedevo per strada un oggetto –
un’auto, un treno, una casa, un cane, una persona, ragazzi che giocavano - e,
giunto a casa, li rappresentavo sulla carta con sicurezza, velocità e senza
correggermi.
Ho continuato in questa attività per molti anni,
facendo mostre e vincendo molti premi, citato da libri e pubblicazioni d’arte e
facendo illustrazioni per libri. Le prime mostre le feci a sei anni a Ravenna e
a Roma e a nove anni a Bologna. Avevo ricevuto una formazione religiosa dai
miei genitori e in parrocchia; ma non mi veniva mai l’ispirazione di trattare
temi religiosi. Il mio rapporto con Dio era sereno e così pure lo erano i miei
rapporti familiari e con gli amici.
Ero cosciente che il mio talento era dono di
Dio, ma nel disegnare non pensavo a Lui; quello che m’interessava era
esprimermi e comunicare agli altri soggetti profani. Dio era tuttavia nello
sfondo, perché nel mio lavoro volevo solo fare del bene e far piacere agli
altri. Passavo gran parte del mio tempo disegnando. Nello spazio di pochi anni,
all’età di 12 anni, avevo accumulato circa 5000 disegni, che sono ora sono
custoditi a Firenze in un Istituto Nazionale che raccoglie disegni di fanciulli
da tutta Italia.
Naturalmente con il crescere dell’età il
fenomeno apparve sempre meno sorprendente e d’altra parte mi studiai di migliorare
continuamente la qualità del mio lavoro, mentre all’età di 18 anni passai alla
pittura ad olio, dedicandomi al ritratto, proseguii fino all’età di 30 anni. Da
quel momento cominciai a sentire sempre meno la spinta a disegnare, che nella
fanciullezza era quasi irresistibile. Cominciai a farlo solo su richiesta.
Questa diminuzione della voglia di disegnare era
iniziata già a 17 anni, quando patii una grave crisi esistenziale, provocata
soprattutto dal contatto con il nichilismo di Leopardi e con la falsa certezza
di Cartesio, che mi spingeva alla disperazione, senza tuttavia cessare mai di
frequentare i sacramenti. Non ho mai perduto la fede. Da questa crisi, iniziata
a 16 anni, mi salvò un santo sacerdote,
Don Giovanni Buzzoni, che era mio insegnante di religione al liceo.
Ma nel rifondare la mia personalità, la mia
energia vitale subì una lenta ma inesorabile trasformazione: cominciai gradualmente
ad abbandonare l’attività pittorica per orientarmi verso una diversa creatività,
che all’inizio avvertii piuttosto confusamente come dedizione alla verità. Nacque
in me un enorme amore per lo studio e il desiderio di diffondere la sana
dottrina.
Mi iscrissi all’Università di Bologna in
filosofia nel 1965 e mi laureai nel 1970. Le ore che da giovane passavo nel disegno,
ora le passavo studiando appassionatamente il pensiero di Maritain, che era maestro
di Don Buzzoni, di S.Tommaso e di altri autori tomisti.
In quegli anni cominciai ad avvertire come si
configurava la mia nuova creatività: guidare le anime nella verità, formare
Cristo nelle anime. Erano i primi germi della vocazione sacerdotale domenicana.
Di fatti entrai nell’Ordine a Bologna nel 1971 e nel 1976 a Ravenna venivo
ordinato sacerdote.
P.Giovanni Cavalcoli
Pinarella di Cervia (RA), 31 luglio 2019
[1] Cf
J.Maritain, Art et scolastique, Desclée
de Brouwer, 1965; Frontières de la Poésie
et autres essais, Louis Rouart&Fils Editeurs, Paris 1935.
[2] Etica a Nicomaco, l.VI.cap.5, 1140b7, Edizioni Laterza, Bari 1965,
p.154.
[3] In decem libros Aristotelis
Ethicam ad Nicomachum expositio, l,VI, c.5,lect.IV, n.1173, p.320, Marietti,Torino 1964.
[4]Cf Raissa
Maritain, Sens et non-sens en poésie,
in J.Maritain, Situation de la poésie,
Desclée de Brouwer, Bruges 1964, pp.11-41.
[5] Vedi J.Maritain, L’intuizione creatrice nell’arte e nella
poesia, Morcelliana, Brescia 1957.
[7] Situation de la poésie, Desclée de Brouwer, 1938.
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