L’avventura della metafisica - Parte Terza (3/6)

 

L’avventura della metafisica

Parte Terza (3/6) 
 

Seconda parte

L’abuso del termine «metafisica» e i concetti errati di metafisica

 

 Guglielmo di Ockham

Il singolo al posto dell’universale

Dopo San Tommaso, iniziatore di quella sana metafisica, che è raccomandata dalla Chiesa e coltivata dai suoi discepoli, soprattutto domenicani fino ai nostri giorni, la metafisica cominciò a decadere in altri ambienti della Chiesa perdendo la sua perfezione e consentendo il verificarsi di difetti ed antinomie che Tommaso aveva saputo evitare.

Essa continua a definirsi come scienza dell’ente, ma non si tratta più dell’ente analogico del quale tratta Tommaso, bensì dell’ente univoco del Beato Duns Scoto e dell’ente univoco-equivoco di Guglielmo di Ockham. Il concetto dell’ente comincia ad interessare più dell’ente stesso. Si comincia a dare più importanza all’esperienza sensibile che all’intelletto.

Con Ockham sorge la filosofia empiristica inglese, che giunge fino ai nostri giorni dopo aver prodotto filosofi come Hobbes, Locke, Berkeley ed Hume fino a giungere agli empiristi attuali di diverse denominazioni come empiristi e positivisti logici, filosofi analitici, filosofi del linguaggio. Per costoro la metafisica è il catalogo ben ordinato, coerente ed aggiornato delle categorie e dei predicati che abbracciano tutte le cose.

Ma dell’ente che conduce all’ipsum Esse non c’è ombra. Per loro evidentemente tutta la questione base del fondamento del sapere e dell’essere, della vita, dell’esistenza e della morale è solo questione di organizzazione logica, grammaticale, terminologica e sintattica delle categorie generali del linguaggio quotidiano come princìpi dell’agire morale.

In loro l’interesse per il singolare, l’individuale e il concreto, il fattuale, legato alla materia, prevale su quello per l’essenziale, il necessario e l’universale, espressioni dello spirito. Per questo, all’ardua operazione astrattiva, che supera senso e immaginazione, necessaria ad entrare nel mondo specificamente metafisico per cogliere il puro intellegibile e il puro spirito come orizzonti della metafisica, si preferisce l’esperienza e il dato sperimentalmente verificabile.

Ma così la metafisica decade dalla sua nobiltà e dalla sua fondatezza, diventa incerta e scende al livello della logica, della matematica o della fisica o addirittura, come avviene in Ockham, della grammatica e del linguaggio. Non si tratta più di vedere l’ordine dell’essere, ma di rispettare le regole della grammatica, dell’analisi logica e della sintassi.

Qui per parlare di metafisica ci si accontenta di poco: basta entrare nel mondo del metasensibile della matematica, degli enti di ragione, della logica e della sintassi delle proposizioni, non certo nel mondo dello spirito, terreno proprio della metafisica, per credere di aver raggiunto il vertice e il culmine invalicabile della filosofia teoretica[1].

Ockham, con l’orientare la metafisica verso l’individuo anziché vero l’ente, conferisce alla metafisica una svolta individualistica, che le fa dimenticare l’universale. L’io comincia e ripiegarsi su se stesso. L’impostazione empiristica e l’eccessiva cura utilitaristica per il concreto esistente, lo spinge a restringere e ad abbassare l’orizzonte del pensiero, il quale per la verità può formare una scienza dimostrativa solo basandosi sull’essenza universale, e superando la sensibilità per elevarsi dimostrativamente al grado supremo dell’ente e dell’essenza, che è Dio, singolare sì, ma nel contempo universale e spirituale principio di tutto il reale.

Questo processo di autoreferenzialità continua con Lutero, autodichiaratosi discepolo di Ockham. Con Lutero la metafisica è oggetto di disprezzo, erroneamente vista come espressione dell’umana superbia e come estranea ai contenuti del messaggio biblico. Egli di proposito si rifiuta di entrare nel campo della metafisica, fraintendendo così quelle dottrine cattoliche dove maggiormente è presente il soccorso prestato dalla metafisica, come il concetto di Dio, la creazione, la natura della fede, l’Incarnazione, la Redenzione, la giustificazione, i sacramenti, il rapporto del peccato con la grazia, il libero arbitrio, la funzione apologetica della ragione.

In tal modo Lutero, senza con ciò misconoscere gli elementi validi e stimolanti della sua appassionata teologia e della sua potente e suggestiva oratoria ricca di continui riferimenti biblici, mancando di una formazione intellettuale disciplinata dalla metafisica aristotelico-tomista, che nei secoli precedenti aveva contributo alla formazione della dogmatica ecclesiale, cadde nelle eresie contestategli da Leone X e confutate dal Concilio di Trento.

Il soggettivismo religioso a cui dettero il via prima Ockham e poi Lutero, congiunti con l’antropocentrismo rinascimentale italiano, costituiscono fattori determinanti di disgregazione della cristianità medioevale e delle guerre di religione dei secc. XVI-XVII.

La Riforma avviata dal Concilio Tridentino costituì certamente una potente chiarificazione dei punti saldi della dottrina cattolica, ma forse attuata con troppa rigidezza nei confronti dei protestanti, che irrigidirono a loro volta le loro posizioni.

Per nulla persuasi dai richiami e dalle condanne del Concilio, i protestanti tornarono però ad un certo recupero della metafisica. Un certo successo ottenne un Germania la metafisica di Francesco Suarez, che metteva assieme volontarismo ed intellettualismo, essenzialismo ed esistenzialismo, Duns Scoto, Ockham e San Tommaso. Egli eserciterà un certo influsso su Leibniz.

Renato Cartesio

L’io sono al posto dell’egli è

 Il pensatore cattolico che invece darà una base filosofica al protestantesimo tedesco sarà Cartesio. Nasce con lui un nuovo concetto di metafisica, non più basato sull’ente, che per Lutero era fumo negli occhi, ma sull’io, in linea col famoso gesto di Lutero che alla Dieta di Worms dichiarò guerra alla Chiesa cattolica con un plateale appello alla sua coscienza.

Cartesio non pone più l’ente ad oggetto della metafisica ma il proprio io, che così divenendo il principio della certezza, del sapere e dell’essere, chiaramente travalica i limiti dell’io individuale e tende ad ingrandirsi a dismisura, per poter sostenere il peso della totalità del reale.

L’io cartesiano si presenta certo all’inizio con modestia come l’io di Cartesio, creato da Dio, e tuttavia essendo implicitamente da lui concepito come fondamento della verità, nei seguaci di Cartesio, che esplicitano e sviluppano le conseguenze logiche della sua concezione spropositata dell’io, questo io nei secoli seguenti, manifesterà gradatamente le sue pretese di trascendere l’io individuale o l’io umano per diventare l’Io divino, l’Io Sono della Sacra Scrittura.

Cartesio opera una svolta nell’interesse metafisico, che è sempre rivolto all’essere, ma se prima di lui il metafisico usa il verbo essere alla terza persona, per cui il metafisico dice: esso o egli è, o l’ente è, adesso l’interesse si sposta alla prima: io sono. Abbiamo sempre la predicazione dell’essere senza predicati nominali, come già aveva fatto San Tommaso quando, ispirandosi alla Scrittura, dice di Dio: Egli È (Es 3.14), ma adesso questa predicazione si sposta alla prima persona: ego sum, che si può tradurre con io sono oppure io esisto. Adesso però nasce il problema: non c’è difficoltà a dire io esisto. Ma posso dire io sono? Lo dice Cristo perché Egli è Dio, infatti solo Dio può dire di Se Stesso, come appunto appare dalla Bibbia (Es 3,14), Io Sono, perché, come già aveva fatto notare San Tommaso, Egli è l’ipsum Esse, lo stesso Essere per se sussistente, per cui solo Dio può dire di Sé Io sono l’Essere. Io, creatura, devo dire, invece, io ho l’essere. Io ho ricevuto l’essere, non l’ho da me stesso, ma da Dio che mi ha creato. Se non mi avesse fatto essere, io sarei nulla. Tutto quello che sono lo devo a Lui.

Invece il sum cartesiano nella sua ambiguità (esisto o sono?), verrà interpretato da Fichte come se io, creatura, potessi predicare questo essere assoluto di me stesso. Ora bisogna dire che io posso affermare il mio essere nel giudizio (e forse Cartesio intendeva dire questo), ma non posso porlo come essere, perché un conto è l’essere in quanto da me pensato e un conto è l’essere in se stesso fuori di me o indipendente dal mio pensarlo, il mio essere che esiste prima che lo pensi.

Questo è quello che gli idealisti chiamano «essere presupposto», che per loro è fumo negli occhi, perché sarebbe un essere indipendente da loro, mentre loro invece vogliono che l’essere dipenda dal loro pensiero.

Così Fichte confonde le due cose: l’affermazione del giudizio con la posizione o creazione dell’essere. Per questo Fichte può dire: io, affermando di esistere, pongo me stesso, pongo il mio essere e con ciò stesso pongo l’essere simpliciter, pongo l’essere in toto, per cui non esiste un altro essere distinto dal mio che pone il mio essere; me lo pongo da solo. Ma se in realtà è Dio che pone il mio essere creandomi, è chiaro che mi sostituisco a Dio. Per questo Fichte fu giustamente accusato di ateismo. E Cartesio conduce effettivamente all’ateismo.

Nel contempo, con la sostituzione dell’egli è con l’io sono, viene meno anche il tu sei senza predicato nominale, che è pur presente nella Scrittura riferito a Dio e che corrisponde appunto all’Io Sono. Ciò vuol dire che viene meno il dialogo con Dio, la preghiera e la religione. È chiaro che se Dio sono io, devo forse pregare me stesso? Tutto il problema della vita spirituale si riduce allora ad una mia presa di coscienza di essere Dio, per cui, se prima credevo che il pensiero dipendesse dall’essere, adesso so che l’essere dipende dal mio pensiero. È questa la conclusione alla quale giunge il cogito cartesiano.

Ecco perché nello svolgimento dell’idealismo tedesco da Kant ad Hegel Dio viene gradatamente svalutato, perché l’uomo si appropria dei suoi attributi e alla fine con Nietzsche, resta solo l’io umano e Dio è scomparso. L’uomo al posto di Dio. Questo è l’esito finale del cogito cartesiano e della «metafisica» di Cartesio.

Con Cartesio sorge un grave fraintendimento ed abuso del termine «metafisica», destinato ad un immenso successo fino ad oggi, un programma dottrinale che sarà la magna carta della cosiddetta «filosofia moderna», espressione coniata dai cartesiani per propagandare il cartesianesimo – operazione ottimamente riuscita - e da lì passata ai loro eredi idealisti fino a modernisti dei nostri giorni.

Mi riferisco alle famose «Meditazioni metafisiche» di Cartesio, le quali, in realtà, niente hanno a che vedere con la vera metafisica, che non è la coscienza che io esisto, ma è la scienza dell’ente in quanto ente e delle proprietà dell’ente. E io non sono l’ente, né produco l’ente. Né l’ente lo deduco dalla mia autocoscienza, ma ne presuppongo la conoscenza, altrimenti non potrei esercitare la mia autocoscienza, che è coscienza di me pensante l’ente.

Emanuele Kant

La ragione al posto dell’ente

L’attitudine di Kant nei confronti della metafisica non è facile da comprendere. Esiste un’interpretazione che lo presenta come il filosofo che dimostra la vanità della pretesa della metafisica di elevare la ragione alla scienza di oggetti puramente intellegibili (l’ente, l’anima, lo spirito, Dio) partendo dall’esperienza delle cose sensibili.

Da qui questi interpreti deducono che Kant è stato l’affossatore della metafisica per limitare il nostro sapere al solo piano dei fenomeni e al solo sapere sperimentalmente verificabile, escludendo ogni possibilità di conoscere scientificamente e dimostrativamente il mondo dello spirito.

Ora, a mettere in dubbio una simile interpretazione, basterebbe il fatto che Kant fu docente di metafisica.  Come può allora uno che insegna metafisica negare la possibilità della metafisica? La cosa si chiarisce considerando che cosa Kant intendeva per «metafisica».

Qui noi scopriamo sorprendentemente – cosa che nessuno fa notare - che egli possedeva tre concetti di metafisica che sono sempre convissuti nella sua mente, benchè in contrasto fra di loro: un concetto di metafisica come  a posteriori, e questa Kant la dichiara impossibile, vana ed illusoria, e altri due: uno, un  concetto di metafisica  a priori, che può essere vana, come quella di Wolff; e un altro concetto di metafisica a priori, ancora da edificare, che può essere scienza, alle condizioni che pone lui nei Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza.

In tal modo Kant in metafisica segue  una doppia linea: da una parte sostiene che la metafisica non esiste ancora come scienza; sostiene, come già avevano sostenuto Lutero e Cartesio, che la metafisica è finita, ma dall’altra si basa sulla metafisica di Cartesio, presentandosi, come realizzatore della rivoluzione copernicana in metafisica. Insomma, un rivoluzionario cartesiano che rovescia il Cartesio realista in nome di Cartesio idealista. Formidabile impresa!

Che fa dunque Kant? Dopo aver respinto con vani sofismi la metafisica realista di Aristotele e San Tommaso, basandosi su Cartesio (l’«Io penso»), non rinuncia alla metafisica, quindi al realismo, ma avverte coloro che un futuro vorranno fare metafisica, di attenersi ai suoi avvertimenti da lui esposti in un’apposita pubblicazione[2]. In sostanza, Kant intende la metafisica allo stesso modo di Cartesio: non scienza dell’ente, ma la scienza che la ragione ha di se stessa:

«Nocciolo ed essenza della metafisica è l’applicazione della ragione soltanto a se stessa e meditando essa i suoi propri concetti, la conoscenza d’oggetti che presumibilmente deriva proprio da lei, senza aver perciò bisogno della mediazione dell’esperienza e senza che in generale ci si possa arrivare per mezzo di essa»[3] .

A questo punto potremmo porci una domanda: ma qui Kant non si riferisce a ciò che ha fatto nella critica della ragion pura? E dunque allora ci presenta una metafisica? È questa la metafisica di Kant? Allora, che cosa ha voluto fare Kant? Ha voluto porre le condizioni per l’edificazione della metafisica o ha fatto una metafisica egli stesso? Vediamo un quale ginepraio Kant si è cacciato per aver voluto assumere il cogito («io penso») cartesiano senza per questo rinunciare al realismo della cosa in sé extramentale, ossia dell’ente, come abbiamo nella metafisica aristotelica.

Di fatto Kant mantiene, come Wolff, l’ente inteso come essenza (la cosa) come oggetto della metafisica, solo che questa volta l’essenza non è più l’ente extramentale, composto di essenza ed essere, come in Tommaso, ma è una pura essenza senza essere o esistere. Per questo l’essere non è atto dell’essenza, ma è la semplice copula dl giudizio. Così succede che l’oggetto della metafisica resta, come per Cartesio, il sum del cogito, con la pretesa di conservare la cosa in sé extramentale, senza che peraltro se ne possa conoscere l’essenza in se stessa, ma solo il fenomeno, ossia l’essenza come appare a noi. Si prepara già la fenomenologia di Husserl come visione o intuizione dell’essenza (wesenschau), «correlato della coscienza».

Hegel ovvero la confusione della metafisica con la logica

Hegel rifiuta la distinzione del pensiero dall’essere, per cui per lui l’oggetto della metafisica non è la realtà, ma l’ideale, il reale coincide col razionale, la cosa coincide col concetto della cosa. Ora, siccome appunto l’oggetto della logica è l’ente di ragione, il concetto, riducendo l’ente reale ad ente di ragione, identifica l’oggetto della metafisica con quello della logica. Per questo egli dichiara:

«La scienza logica costituisce la vera e propria metafisica ossia la pura filosofia speculativa»[4]. Tuttavia, per intendere la logica come metafisica, come scienza della realtà, Hegel propone un nuovo concetto di logica, che non suppone più la distinzione realistica fra il concetto della cosa (pensiero) e la cosa stessa (essere), ma la cosa coincide col concetto stesso della cosa; conoscere la cosa non è altro che conoscere il concetto della cosa, non più una cosa in sé esterna al pensiero., ma immanente al pensiero.

Qui vediamo la confusione che Hegel fa tra metafisica e logica. Infatti, oggetto della metafisica è l’ente o cosa esterna al pensiero o alla mente (extra animam), cosa che raggiunge mediante il concetto (idea) della cosa. La logica invece considera la cosa non in se stessa, ma in quanto rappresentata nel concetto (idea), considera la cosa pensata non in quanto cosa, ma in quanto pensata, in quanto è nella mente o nell’anima (in anima). Considera il concetto della cosa, non la cosa. Ora Hegel, identificando la cosa col concetto della cosa, ci fa ben capire perché riduca al metafisica alla logica.

Hegel si propone così di superare la metafisica realista che suppone la distinzione del pensiero dall’essere, per cui è solo l’essere logico che è immanente alla ragione o alla mente, mentre l’essere metafisico è esterno e trascendente. Egli dunque riprende il concetto di logica come scienza del concetto e del pensato in quanto pensato, per la quale il suo oggetto è immanente al soggetto pensante, dunque non un essere extramentale, ma un essere intramentale, l’ente di ragione.

Hegel lascia alla coscienza comune la convinzione della extramentalità dell’essere, e ritiene di fondare la «scienza pura», la «scienza assoluta», che nel contempo è una nuova logica ed è la vera metafisica togliendo la distinzione fra pensiero ed essere:

«La scienza pura presuppone perciò la liberazione dall’opposizione della coscienza.  Essa contiene il pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa oppure la coscienza in se stessa in quanto insieme anche il puro pensiero. Come scienza, la verità è pura autocoscienza che si sviluppa ed ha la forma del Sé, che quello che è in sé e per sé è concetto saputo e che il concetto come tale è quello che è in sé e per sé.

Il contenuto della scienza pura è appunto questo pensare oggettivo. Lungi quindi dall’essere formale, lungi dall’essere priva di quella materia che occorre a una conoscenza effettiva e vera, cotesta scienza ha anzi un contenuto che solo è l’assoluto Vero o, se si voglia ancora adoprare la parola materia, che, solo è la vera materia, - una materia, però,  cui la forma non è un che di esterno, poiché questa materia anzi è il puro pensiero e quindi l’assoluta forma stessa.

La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com’essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, come egli è nella sua propria eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito»[5].

Non è forse, questo, pretendere troppo dalla metafisica, oltre a tutto confusa con la logica? Presentare la metafisica a questo modo ad una persona seria ed onesta rende credibile e autorevole la metafisica o non piuttosto la espone al ridicolo? Chi può credere a questa smargiassata di Hegel se non gli spiriti vanesi e bramosi di far colpo sulla gente?

Henri Bergson[6]

ovvero l’apologia dell’essere temporale

Bergson possiede una visione realista perché ammette la possibilità di intuire il reale, ma essa è guastata da una concezione materialista, che non ammette un eterno ed immutabile al di sopra del tempo e della storia. Lo spirito, per lui, è continuo movimento; la stabilità è un afflosciarsi e un irrigidirsi della vita che si materializza e si spegne.

L’essere, il reale è raggiungibile, ma non è oggetto dell’intelletto, che con i suoi concetti fissi, universali ed astratti derealizza il concreto, ferma ciò che evolve, fissa ciò che è mutevole e separa ciò che è unito. Il reale è oggetto dell’intuizione creativa, che impegna sì l’intelletto, ma inscindibilmente congiunto col senso e senza mai abbandonare il senso; ed è creativa perché non rispecchia un dato fisso ed immutabile, ma sviluppa e fa progredire il suo oggetto nel momento stesso in cui lo intuisce e per il fatto di intuirlo.

Anche qui il punto di partenza è sempre il cogito cartesiano, ma questa volta inteso come io empirico, che cresce su se stesso crea se stesso intuendo se stesso diveniente nel tempo, nella storia e nello spazio.

Lo spirito, per Bergson non è sostanza immateriale come forma sussistente, ma non  è altro che lo slancio vitale, empiricamente verificabile, slancio sempre in aumento ed inarrestabile di un vivere fisico e biologico che trascende se stesso assolutizzando se stesso  senza abbandonare e trascendere la spaziotemporalità, per cui se in questa visuale si può parlare di Dio, questo Dio non è un puro spirito infinito ed eterno trascendente il tempo, il divenire e la storia, ma è lo stesso progresso dell’intuizione intesa in senso assoluto come assoluta intuizione dell’essere assoluto, coincidente con lo stesso essere, che pertanto non è statico ma evolutivo, non è solo spirituale, ma anche materiale. Troviamo così in Bergson, ebreo, una curiosa assonanza col Dio dell’ebreo Spinoza, sintesi di pensiero ed estensione, desunto dalla Kabbala[7].

Fine Terza Parte (3/6)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 7 marzo 2024

La metafisica decade dalla sua nobiltà e dalla sua fondatezza, diventa incerta e scende al livello della logica, della matematica o della fisica o addirittura, come avviene in Ockham, della grammatica e del linguaggio. 

Non si tratta più di vedere l’ordine dell’essere, ma di rispettare le regole della grammatica, dell’analisi logica e della sintassi.

Per parlare di metafisica ci si accontenta di poco: basta entrare nel mondo del metasensibile della matematica, degli enti di ragione, della logica e della sintassi delle proposizioni, non certo nel mondo dello spirito, terreno proprio della metafisica, per credere di aver raggiunto il vertice e il culmine invalicabile della filosofia teoretica.

Ockham, con l’orientare la metafisica verso l’individuo anziché vero l’ente, conferisce alla metafisica una svolta individualistica, che le fa dimenticare l’universale. L’io comincia e ripiegarsi su se stesso. L’impostazione empiristica e l’eccessiva cura utilitaristica per il concreto esistente, lo spinge a restringere e ad abbassare l’orizzonte del pensiero, il quale per la verità può formare una scienza dimostrativa solo basandosi sull’essenza universale, e superando la sensibilità per elevarsi dimostrativamente al grado supremo dell’ente e dell’essenza, che è Dio, singolare sì, ma nel contempo universale e spirituale principio di tutto il reale.

Immagine da Internet:
- Guglielmo d'Ockham

[1] Michael J.Loux-Dean W.Zimmerman, The Oxford handbook of Meraphysics, Oxford University Press 2003; Michael J:Loux, Metaphysics. A contemporary introduction, Routledge, New York and London 2006.

[2] Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Carabba Editore, Lanciano 1924, pp.94-95, 137-139..

[3] Ibid., p.94.

[4] Scienza della logica, Edizioni Laterza, Bari 1983, pp.5-6.

[5] Scienza della logica, op.cit.,p.31.

[6] Per una critica a Bergson,cf  Jacques Maritain, La philosophie Begsonienne. Études critiques, Téqui Éditeur, Paris 1948; De Bergson à Thomas d’Aquin. Essais de Métaphysique et de Morale, Paul Hartmann Éditeur, Paris 1947.

[7] Queste vedute la troviamo in Introduzione alla metafisica, Edizioni Laterza, Bari,  1994.

2 commenti:

  1. Così un occamista come Alberto di Sassonia Rickmersdorf :" Unde cui non sufficeret evidentia naturalis, non est aptus ad philosophandum" il che può essere pure uno slogan deontologico per chi è impegnato nelle scienze sperimentali ma se letta in senso berkeliano che l'ente si esaurisce nella percezione o conoscenza sensibile che uno ha di esso, o con Hume e poi Kant se ne disconosce la legittimità nella pretenderne la fondatezza d'indagine il che è proprio oggetto della metafisica, ecco che si giunge al nonsenso di un Nietzsche e ciò in aperto contrasto con la rivelazione cattolica:" Se qualcuno dirà che l’unico vero Dio, nostro Creatore e Signore, non può essere conosciuto con certezza dal lume naturale della ragione umana, attraverso le cose che da Lui sono state fatte: sia anatema" (Cost. Dei Filius Conc.Vat.I), infatti come rilevava san Bonaventura l'universo intero non è che un libro nel quale si legge quasi ovunque la Trinità Fabbricatrice: pleni sunt coeli et terra gloria tua!

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    1. Caro Anonimo,
      le sue osservazioni le condivido pienamente.
      Vedo, in quanto lei dice, un commento a quanto io ho detto.

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