Il principio della guerra - Seconda Parte (2/2)

 Il principio della guerra

Seconda Parte (2/2) 

I guasti del pensiero conflittuale

Il pensiero conflittuale, che potremmo chiamare antinomico[1] per la sua simpatia per l’antinomìa, non sostiene solo che il pensare è in se stesso contradditorio e che la contraddizione è la legge del pensare, ma concepisce la realtà come contradditoria in se stessa. È la visione di Hegel. L’ente è opposizione di essere e nulla. E questo vale anche per Dio. Dio è essere-non-essere, è quindi vero e falso, buono e cattivo. Dio non è Colui Che È, ma Colui Che È e non È. Non è l’ipsum Esse, ma Colui Che diviene. Non è Dio del sì, ma del sì-no. Approva il bene, ma anche il male. Non è immutabile, ma mutabile. Non sovrasta la storia, ma s’identifica con la storia. Questo è il Dio della Kabbala, poi ripreso da Hegel e dalla massoneria gnostica ed esoterica. È il Dio della coincidentia oppositorum del Cusano[2], il Dio di Böhme, il quale, col pretesto che Dio è misericordioso ma anche castiga, sostiene che in Dio c’è la crudeltà accanto alla bontà. Così in Dio c’è il sì e il no, non nel senso che Dio dica sì a Se stesso e no a ciò che è contro di Lui, ma nel senso che Dio stesso è sì e no. Dice Böhme:

«L’Uno, il “Sì” è puro potere e la vita e la verità di Dio o Dio stesso; ma Dio sarebbe inconoscibile a Se stesso e in Lui non vi sarebbe alcuna gioia o percezione, se non fosse per la presenza del “No”. Quest’ultimo è l’antitesi o opposto del positivo o verità; esso fa sì che questa divenga manifesta e ciò è possibile solo perché è l’opposto in cui l’amore eterno può divenire attivo e percettibile»[3].

Ma come mai nella Kabbala, documento antichissimo dell’ebraismo, risalente a Mosè, esiste un concetto così distorto di Dio e per conseguenza della verità e del bene? Perché la Kabbala, che vuol dire «tradizione», è una tradizione parallela all’autentica tradizione mosaica, ma formatasi per influenza di idee pagane egiziane, fautrici della magia e della guerra di sterminio, babilonesi, fautrici dell’astrologia e del culto degli angeli e cananee, fautrici di sacrifici umani e di culti fallici e quindi di una sacralizzazione della lussuria.

I farisei del tempo di Gesù, responsabili della sua condanna a morte, non erano altro che seguaci della Kabbala; e per questo Gesù li accusa di seguire «tradizioni umane» contrarie alla vera tradizione mosaica. Il conflitto tra Gesù e i farisei verte proprio sull’interpretazione della legge mosaica: che Gesù ’interpretava rettamente, mentre i farisei si rifacevano all’interpretazione cabalistica. Gesù insegnerà con chiarezza che Dio è Essere sussistente, mentre farisei, come dice Gesù, avevano come padre il diavolo. E che cosa è il diavolo se non il Dio del no? Il Dio della contraddizione? Il Dio del terzo incluso?

Per i farisei cabalisti l’essere coincide con l’apparenza: apparire quello che non si è. Da qui ad assumere le idee di Protagora non c’è che un passo e per questo, quando l’ebraismo farisaico anticristiano incontrerà Protagora, lo sposerà senza riserve. E da qui deriva tutta la filosofia cabalistica, che ancor oggi è detta filosofia ebraica[4].

È interessante come a partire dal Rinascimento e da Cartesio è nata un’osmosi fra cristianesimo e cabalismo, sicchè, avendo la Kabbala influenzato l’idealismo tedesco, i filosofi ebrei a partire dall’800, assumendo le idee di Hegel, non fanno altro che riprendere il loro cabalismo.

Il pensiero conflittuale non conosce un sapere oggettivo, definitivo ed inconfutabile, ma, col pretesto che la ricerca non ha mai fine,  risolve tutto il pensare nella dialettica, ossia in un dibattito o in una discussione interminabile e fine a se stessa, in un teorizzare soggettivo che viene continuamente rimesso in discussione e dove non si sa mai dove sta la verità.

Non si discute in vista di ottenere l’accordo nella scoperta comune del vero, ma al fine di prevalere in modo sofistico sull’altro senza mai arrendersi anche quando si è messi con le spalle al muro o cambiando le carte in tavola o sgusciando come un’anguilla dalle proprie responsabilità. I trattati di pace fra sofisti e farisei non sono mai disinteressati, non sono veri accordi nella verità per il bene del prossimo, ma pateracchi per spartirsi la folla dei gonzi che li seguono e i vantaggi economici che ne seguono.

È un pensare che ha bisogno di rifondare perpetuamente il pensare come se il precedente pensiero nulla avesse detto di certo e di sicuro. È un pensiero che non trova mai pace, toglie la pace, non genera pace e sicurezza, ma sempre attizza nuovi contrasti, rivalità e polemiche, convinto di animare la vitalità e il progresso del sapere.

Il dialogo non serve a dimostrare che l’altro sbaglia e a persuaderlo di correggersi, ma semplicemente è un confronto di posizioni antitetiche, considerate come «diverse», per le quali i due dialoganti restano della propria idea. Se il disaccordo non ha immediate conseguenze pratiche, il dialogo va avanti all’infinito senza che accadano scontri. Ma se il disaccordo tocca interessi vitali tra le due parti scoppia la guerra.

Il pensiero conflittuale ha come suo principio l’impugnazione della verità conosciuta. L’intelletto si rifiuta di adeguarsi e di assoggettarsi alla realtà. Vuol decidere lui circa la verità indipendentemente da ciò che gli dice la realtà esterna, della quale non si fida. Per conseguenza la volontà si rifiuta di obbedire alla volontà di Dio. È il peccato del demonio, peccato nel quale il demonio fa cadere l’uomo col peccato originale.

Da allora esiste in noi una duplice tendenza: una, radicale, sostanzialmente inestirpabile, perché essenziale alla nostra natura, uno spontaneo e piacevole amore per la verità, anche se antipatica,  e una disposizione ad obbedire a Dio, ma nel contempo, un’altra tendenza, spesso inconsapevole, invincibile e ingannatrice, ma fondamentalmente estirpabile a gran fatica e mai del tutto nella vita presente, una slealtà e disonestà e doppiezza nel pensare e nel parlare, un’insofferenza per la volontà di Dio, un piacere nel contraddire e nel contraddirsi, una mania di grandezza, una tendenza all’autoillusione e all’autoesaltazione, un desiderio di libertà intesa come ribellione a Dio e alla sua legge, una tendenza all’odio verso Dio e verso il prossimo: ecco il principio della guerra.

L’uomo ingannato di Satana crede che l’identità, la precisa ed univoca determinazione del suo io e delle cose sia principio di divisione, mentre in realtà essa è la condizione prima dell’accordo, dell’armonia, della giustizia, dell’ordine e della pace. La pace infatti nasce quando ognuno sta al suo posto, quando ha il suo e si accontenta del suo, ossia di ciò che gli spetta, di ciò di cui ha realmente bisogno e diritto, nel rispetto dell’identità di ciascuno.

Il bellicoso invece, che è persona doppia, torbida, ambigua e falsa, odia l’identità perché essa è il principio di chiarezza e quindi della pace, pace che nasce dall’unione, dall’ordine e dall’armonia dei distinti.  Il pacifico non pretende come Cartesio la precisione in tutto, perché sa benissimo che tante conoscenze non possono essere precise e tante realtà sono misteriose, siano materiali o siano spirituali. Ma non per questo ama pescare nel torbido, non per questo mescola le acque, per cui sa ricorrere alla conoscenza e al linguaggio per analogia, per metafora e per paragone.

Il bellicoso o guerrafondaio invece favorisce il vizio, per interessi suoi privati e per emergere sugli altri, favorisce e crea la confusione e l’ambiguità su temi di grande importanza, così che nasca il malinteso e il fraintendimento e vi sia il contrasto laddove potrebbe e dovrebbe esserci l’accordo. E così è fomentatore di guerra.

Il pensiero conflittuale è lo spirito di contraddizione, il gusto di negare la posizione dell’altro. È il gusto, come si dice, di fare il «bastian contrario». È la sostituzione della contrapposizione alla distinzione. Si confonde ciò che va distinto. Si odia la distinzione spacciandola per divisione. È l’inclusione di ciò che dev’essere escluso e l’esclusione di ciò che dev’essere incluso. Si apprezza tanto il vero quanto il falso e viceversa si esclude un vero solo perchè è diverso da un altro vero. È il porre la relazione laddove essa non ci dev’essere. È il porre Cristo d’accordo con Beliar e viceversa è il separare ciò che dev’essere in relazione.

Errori da evitare

Occorre fare attenzione ad evitare un certo personalismo relazionista, che risolve la persona umana nella relazione col pretesto che la Persona trinitaria è una Relazione sussistente. La persona umana è una sostanza. Se nella Trinità la persona è relazione, bisogna ricordare che è sussistente, come se fosse una sostanza. Ma perché non può essere, come in noi, vera sostanza? Semplicemente perché in Dio la sostanza è una sola: la natura divina. Se la Persona divina fosse sostanza, in Dio ci sarebbero tre dèi.

L’ente è quindi primariamente sostanza. La relazione è un accidente, per quanto essenziale e necessario. Parlare, come oggi fanno alcuni, di metafisica trinitaria o di concezione trinitaria o relazionistica dell’ente, anziché di concezione sostanzialistica, è un grave errore, che sul piano sociale non favorisce la pace, ma la guerra, perché rende l’individuo totalmente relativo allo Stato, in modo tale che allo Stato  salta il ticchio di scatenare una guerra,  l’individuo che esaurisce il suo essere ad essere relativo allo Stato, sarà docile strumento del volere dello Stato come fosse la volontà divina.

Un conto dunque è la relationis oppositio, della quale parla il Concilio di Firenze del 1442 per esprimere la distinzione delle divine Persone e un conto è la contraddizione sulla quale Hegel vorrebbe fondare il pensiero e la conseguente relazione sociale, per cui tra vero e falso non ci sarebbe opposizione, ma relazione, il che legittimerebbe il falso come necessario al vero.

Questa è una truffa propria della più disonesta sofistica.  È chiaro che la pace comporta una relazione sociale benefica e vantaggiosa per entrambi i soggetti della relazione. Ma detta relazione nulla ha a che vedere con una dialettica che manterrebbe il conflitto nel momento che lo supera. O il conflitto c’è e allora non c’è la pace. O c’è la pace e allora il conflitto non può esistere.

Dobbiamo inoltre considerare che l’azione è conseguenza del pensiero. Al pensiero antinomico o conflittuale evidentemente corrisponde l’azione bellicosa. Il conflitto, lo scontro nella prassi nasce dal conflitto nel pensiero. Lo scontro nelle volontà che si realizza nel conflitto bellico proviene dallo scontro ideologico di due idee o due intenzioni oppose che si escludono a vicenda. La sorgente prima della conflittualità del pensiero è il principio di contraddizione posto da Hegel in opposizione al principio di non-contraddizione posto da Aristotele. Da qui l’identificazione dell’essere col non-essere, che appare presente in Dio nella Kabbala[5] e nella filosofia hegeliana.

Chi sostiene come vera una tesi, non può non respingere come falsa la tesi opposta. Anche coloro, come Bagatti e Giaccardi, che vorrebbero negare il principio del terzo escluso[6], necessaria conseguenza del principio di non-contraddizione, dovranno dire che se è vero il terzo incluso, sarà falso il terzo escluso. Anche chi afferma che la falsità non esiste, che non esistono errori da condannare, ma che tutti sono nella verità e sono buoni, dovranno considerare un maledetto chi sostiene che l’errore esiste e che non tutti si salvano.

Anche Hegel, il quale sostiene che «la verità racchiude in sé anche il negativo, ossia ciò che si chiamerebbe il falso»[7] e che sostiene che è sbagliato che il falso, «tagliato via dal vero, debba venire abbandonato», è poi costretto a dire che si trova nel falso chi oppone il vero al falso, mentre ritiene di accogliere il vero e rigettare il falso. Non è chiaro come la stoltissima ed ipocrita tesi di Hegel di impronta protagorea e cabalistica, si confuta da sola?

Nella Kabbala, come riferisce Gershom Scholem circa Johann Reuchlin, si parla di un essere divino preceduto dal nulla, dove non è chiaro se l’Autore vuol esprimere l’abisso divino per il quale noi partendo dall’essere scopriamo il nulla divino che ci trascende, oppure se questo nulla è componente insieme con l’essere, dell’essere divino. Sarà questa seconda idea che viene alla luce come ripresa del principio di contraddizione protagoreo che ricompare prima in Giordano Bruno e poi in Hegel. Vediamo prima come Hegel riferisce il pensiero di Bruno:

«Conoscere in tutto l’unità di forma e materia: ecco la mira della ragione –dice Hegel - . Ma per giungere sino a questa unità, per indagare tutti i segreti della natura, dobbiamo studiare gli opposti e repugnanti termini delle cose, il maximum e il minimum. Precisamente in questi estremi le cose sono intellegibili e si riuniscono nel concetto; e tale unificazione è la natura infinita. Ma il più grande non è trovare il punto di unificazione, sibbene svolgere da esso anche il suo opposto: ecco il vero e profondissimo segreto dell’arte». Ed Hegel commenta: «è questa è una grande parola: conoscere lo svolgimento dell’idea come quella che è una necessità delle determinazioni»[8].

La Kabbala, da parte sua, così come ce la presenta Scholem, sostiene «l’indefinitezza» (divina) «in sé incomprensibile e ineffabile, che si ritrae e si occulta nel lontanissimo retrocesso della sua divinità e nell’abisso inaccessibile fonte di luce, donde nulla s’intenda di ciò che da essa proceda, come se fosse una divinità assoluta immanente nella sua totale clausura, nuda, senza alcun vestito o mantello, senza alcuna profusione di se stessa e senza la bontà del suo splendore, essendo essere e non essere e sembrando tutto il contrario e il contradditorio nei confronti della nostra ragione». 

La contraddizione già posta in Dio introduce nel pensiero un principio di autonegazione, di falsità e di incomunicabilità. Esso è connesso, come fa notare San Tommaso[9], col principio protagoreo che il vero è ciò che sembra a me. Ma è in questo modo, osserva l’Aquinate riprendendo la critica che già Aristotele aveva fatto a Protagora, che le contradditorie vengono ad essere vere simultaneamente, perché se io che ho il gusto sano sento la dolcezza del miele, tu che hai il gusto infetto avverti il miele come amaro.

Se dunque vale il relativismo nella conoscenza, succederà che il miele è allo stesso tempo dolce e amaro. È chiaro come qui ci troviamo davanti ad un principio di discordia e quindi di conflitto sul piano pratico: io amerò il miele e tu odierai il miele e se l’uno vorrà imporre all’altro la propria idea, finiremo per farci guerra.

Una domanda che potremmo porci è da dove sbuca fuori, nel pieno dell’oggettivismo ed universalismo scolastico del sec. XIV, un Guglielmo di Ockham, l’inventore del nominalismo individualistico e del volontarismo irrazionalista? Che cosa ha fatto Ockham? Invece di far propri i tesori di sapienza accumulati dalla Scolastica del suo tempo, spirito sensuale, scettico e ribelle, nonostante il saio francescano, è andato a ripescare in Protagora l’antico relativismo pagano già confutato da Aristotele secondo cui il vero è ciò che sembra a me, da cui la coesistenza dei contradditori, come spiega bene S.Tommaso quando si pone la questione[10].

Il pensiero conflittuale che si esprime poi nel corso dei secc. XVIII-XIX nella gnosi massonica e nella dialettica della contraddizione, come in Hegel e Marx, ha un bel prospettare un’umanità futura unita e pacifica di liberi e di uguali. Se si ammette che il nulla è necessario all’essere, che il falso è necessario il vero, che il male è necessario al bene, che la morte è necessaria alla vita, un’umanità unita, ordinata, giusta, felice, libera e pacifica non esisterà mai. Oppure saremo costretti a sostenere che l’odio reciproco, la guerra, l’esclusione e la condanna reciproca sono gli ingredienti normali della società.

Dobbiamo dire con tutta franchezza che la negazione del principio d’identità conduce anche alla menzogna, che consiste nel dar per vero ciò che è falso. E di fatti, se dall’esempio citato sopra risulta che il miele è dolce e non è dolce, sarà consentito di dire che il miele non è dolce. Ora anche la menzogna è causa della guerra, perché se per esempio uno Stato sostiene falsamente che un certo suo territorio e dominato da un altro Stato, sarà portato a fare una guerra all’altro Stato per impossessarsi di territori che in realtà appartengono a quello Stato. Giusta invece sarà la guerra dello Stato aggredito in difesa dei propri territori.

Il principio della negazione e della divisione secondo la Scrittura, è il principio diabolico. Il demonio divide ciò che Dio unisce. Dice no laddove Dio dice sì. Dice sì e no laddove in Dio c’è solo il sì. Ora è evidente che questi princìpi di contraddizione, di negazione, di falsificazione, di divisione e di doppiezza non possono che causare sul piano dell’agire altro che l’ipocrisia, l’odio, la superbia, la violenza, il conflitto, la guerra.

Il principio e la via della pace

La pace si costruisce solo sulla base di un pensare che sappia da una parte rispettare il principio di non-contraddizione così da evitare la doppiezza e il servizio a due padroni (aut-aut) e dall’altra tenga conto della diversità (et-et). Questo metodo del pensare che ottiene questa sintesi fra il valore del diverso e l’onestà del pensare è il pensare per analogia o il metodo analogico, per il quale sappiamo cogliere e rispettare le diversità nell’ambito dell’unità e dell’universalità. 

L’analogia è chiara ed inflessibile nell’opporre il vero al falso, il bene al male, ma fa questa operazione con lo sguardo attento alle distinzioni, alle differenze, alle relazioni, alle diversità, alle singolarità, alle somiglianze, alle affinità, alle proporzioni, alla scala dei valori. L’analogia propone anzitutto un concetto analogico di pace, che distingue una pace umana da una pace divina, una pace terrena da un pace celeste, una pace interiore da una pace sociale, una pace politica da una pace religiosa, una pace nazionale da una pace internazionale, una pace con la natura da una pace interumana.

La relazione vale all’interno dell’essere, del vero e del bene. Ma tra essere e non-essere, tra vero e falso, tra bene e male non ci può essere alcuna relazione. Essi si escludono a vicenda.

La pace è uno stato d’animo ed emotivo di tranquillità e di quiete, di armonia ed unità interiori, nella fruizione del bene dello spirito e del corpo, è l’esperienza gioiosa e serena della comunione fraterna e con Dio, che si costruisce con un paziente e perseverante lavoro di autodisciplina e di obbedienza a Dio, ai maestri, ai pastori e ai santi. Il modo di pensare che conduce alla pace ci indica le vie della pace.

Per ottenere la pace occorre saper riconciliare gli avversari e metterli d’accordo. Occorre evidenziare i valori comuni, capire le ragioni e correggere i torti degli uni e degli altri, dissipare equivoci, fraintendimenti e malintesi. Occorre essere imparziali, disinteressati, animati da un ideale superiore di giustizia, di equità, di fraternità. Occorre saper ascoltare e saper comprendere. Occorre amare. Occorre conoscere a fondo i contendenti, con intelligenza ampia e spirituale, umiltà di servo, spirito di servizio, animo di fratello, scienza di medico, cuore di padre, discernimento ed onestà di giusto giudice.

Occorre mostrare esempi di pace, essere personalmente uomini pacifici, miti, tolleranti, equilibrati, pazienti, comprensivi, energici, duttili, fermi, autorevoli. Occorre pregare insistentemente lo Spirito Santo, Spirito della verità, dell’unità, della sapienza, del perdono, della misericordia, dell’amore, della libertà.

Nel caso dell’Ucraina non basta fermarsi a considerazioni di tipo territoriale, diritti delle minoranze, la dolorosa questione dell’unità e dell’identità della nazione ucraina, i rapporti cattolici-ortodossi e credenti-non-credenti, la sua indipendenza dall’Occidente e dall’Oriente, l’infiltrazione di forze ostili alla Russia.

Le radici del male sono molto più profonde. Il bene da recuperare è molto più importante. È il bene ineffabile della comunione spirituale universale, nella verità e nella giustizia, che è dono dello Spirito Santo. Per procurare questa pace, bisogna risalire molto più indietro nel tempo, alla divisione dell’Europa cristiana avvenuta con lo scisma del 1054 e quello di Mosca da Costantinopoli del 1589.

La crisi ucraina è il segno che Dio ci dà del dovere di noi cristiani europei di ricostituire la comunione ecclesiale precedente il 1054 e di riconciliarci fra noi nella comune comunione col Vescovo di Roma, come ha indicato il Concilio Vaticano II nel documento dedicato all’ecumenismo.  

La pace, pertanto, più che dalle trattative diplomatiche, segrete o non segrete[11] dall’azione dell’ONU, dall’apporto di potenze mediatrici, e ancor meno dalla forza delle armi, verrà dalla prosecuzione e miglioramento del dialogo ecumenico fra Roma e Mosca, con la collaborazione di Costantinopoli.  

Un nodo da sciogliere è come da una parte costruire un’Europa che include anche la Russia rispettando dall’altra l’indole euroasiatica del popolo russo. Ciò è congiunto al problema degli armamenti. Se la Russia entra in Europa, come si risolve il problema delle forze armate? Creare un organismo nuono, europeo, che associ le forze della NATO a quelle della Russia? Ne nascerebbe una superpotenza nucleare. Ma contro chi? In difesa di che cosa? Che direbbero gli Stati Uniti, la Cina, l’India e l’Islam? È chiaro che tale operazione dovrà avvenire sotto l’egida dell’ONU.

Queste sono le grandi questioni che occorre affrontare e risolvere per avere la pace nel mondo. Su quali idee ci basiamo? Su quelle che costruiscono la pace o su quelle che fomentano la guerra? La risposta è ovvia: non si costruisce la pace sulla base di princìpi, quali quelli che ho denunciato, che non sanno che cosa è la pace o che vogliono la pace insieme con la guerra o che non sanno costruire la pace o che ritengono impossibile la pace.

Bisogna far uso di quei princìpi di ragione naturale e di fede cristiana, che hanno già dato prova in passato e danno prova adesso del loro valore e che, diligentemente applicati, se non ci fanno sperimentare la pace escatologica, quanto meno ce la fanno pregustare fin dalla vita presente.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 4 luglio 2023

 

L’uomo ingannato di Satana crede che l’identità, la precisa ed univoca determinazione del suo io e delle cose sia principio di divisione, mentre in realtà essa è la condizione prima dell’accordo, dell’armonia, della giustizia, dell’ordine e della pace. La pace infatti nasce quando ognuno sta al suo posto, quando ha il suo e si accontenta del suo, ossia di ciò che gli spetta, di ciò di cui ha realmente bisogno e diritto, nel rispetto dell’identità di ciascuno.

La contraddizione già posta in Dio introduce nel pensiero un principio di autonegazione, di falsità e di incomunicabilità. 

Esso è connesso, come fa notare San Tommaso, col principio protagoreo che il vero è ciò che sembra a me. Ma è in questo modo, osserva l’Aquinate riprendendo la critica che già Aristotele aveva fatto a Protagora, che le contradditorie vengono ad essere vere simultaneamente, perché se io che ho il gusto sano sento la dolcezza del miele, tu che hai il gusto infetto avverti il miele come amaro.

Se dunque vale il relativismo nella conoscenza, succederà che il miele è allo stesso tempo dolce e amaro. È chiaro come qui ci troviamo davanti ad un principio di discordia e quindi di conflitto sul piano pratico: io amerò il miele e tu odierai il miele e se l’uno vorrà imporre all’altro la propria idea, finiremo per farci guerra.

La pace si costruisce solo sulla base di un pensare che sappia da una parte rispettare il principio di non-contraddizione così da evitare la doppiezza e il servizio a due padroni (aut-aut) e dall’altra tenga conto della diversità (et-et). Questo metodo del pensare che ottiene questa sintesi fra il valore del diverso e l’onestà del pensare è il pensare per analogia o il metodo analogico, per il quale sappiamo cogliere e rispettare le diversità nell’ambito dell’unità e dell’universalità. 

Immagine da Internet: Le api e il miele, Tacuinum sanitatis


[1] È un termine col quale Massimo Borghesi vorrebbe definire nel suo libro Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica, Jaca Book, Milano 2017, pp.33, 81-89. il modo di pensare di Bergoglio quando era in Argentina prima di divenire Papa. Effettivamente Bergoglio usa espressioni che sembrano voler legittimare il conflitto di idee come cosa normale, ma il suo intento di fondo è quello di dire che nonostante e al di là degli inevitabili conflitti emerge sempre l’unità e dobbiamo sempre cercare la pace e rispettare il diverso e la legittima opinione contraria.

[2]Almeno secondo una possibile interpretazione.

[3] Da Questioni teosofiche, III, 2, cit. da Franz Hartmann, Il mondo magico di Jakob Böhme, Edizioni Mediterranee, Roma 2005, p.75.

[4] Essa s’ispira all’idealismo tedesco, ma questo a sua volta è influenzato dalla Kabbala.

[5]  Julio Meinvielle, Influsso dello gnosticismo ebraico in ambiente cristiano, a cura di Ennio Innocenti, Edizioni della Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma 1988, p.63.

[6] Chiara Giaccardi-Mauro Magatti, La scommessa cattolica, Il Mulino, Bologna 2019, p.21.

[7] Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia, Firenze 1988, vol.I, p.37.

[8] Lezioni sulla storia della filosofia,3,I, La Nuova Italia, Firenze 1985, pp.220-221.

[9] Sum. Theol., I, q.85, a.2.

[10] Ibid.

[11] Anzi sarebbe meglio che i dialoganti esponessero chiaramente i loro piani di pace. Problemi di comune interesse devono essere trattati alla luce del sole, in modo che chiunque possa intervenire ed esprimere il suo parere. Tutti devono sapere ciò che riguarda tutti. Il nemico, certo, dev’essere tenuto all’oscuro. Ma questo è un altro discorso. Un conto è sapere che cosa occorre fare perché si addivenga alla pace. E questo devono saperlo tutti. E un conto sono le astuzie e gli espedienti ai quali bisogna ricorrere per sconfiggere il nemico della pace. E queste cose ovviamente non vanno propalate ai quattro venti, ma devono conoscerle solo i vertici militari delle forze della pace.

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