Il Dio dialettico - Occorre bloccare l’operazione per la quale si vuole inserire il male in Dio e scagionare l’uomo - Quarta Parte (4/4)

 

Il Dio dialettico

Occorre bloccare l’operazione per la quale si vuole

 inserire il male in Dio e scagionare l’uomo

 Quarta Parte (4/4)

 Una concezione volontarista di Dio

Questa concezione di Dio che non può esistere senza determinarsi come mondo è connessa con la concezione volontaristica di Dio per la quale Dio è concepito come volontà autorealizzatrice. Questo concetto è quello di Schelling, per il quale Dio esiste non perché non può non essere, ma perchè ha voluto esistere ed esiste non per la necessità della sua essenza, ma come effetto della sua volontà, puro atto della sua libertà. L’essere è lo stesso che il volere.  Per Lutero, similmente, seguace del volontarismo di Ockham, Dio è buono e giusto per il semplice fatto che vuole.

La buona azione e il peccato non sono tali perché sono irragionevoli e basati su di un falso bene, ma semplicemente perché Dio vuole così.  Se avesse voluto, poteva stabilire che l’adulterio, il furto, e l’omicidio o la menzogna fossero buone azioni. Per questo i buonisti e i genderisti dicono che la sodomia non è contro natura e non è peccato, perchè Dio in chi la pratica vuole diversamente.

Il volere divino per i volontaristi e per i buonisti non fa riferimento a una legge di natura da Dio stabilita come regola dell’agire immutabile ed universale, non ha per oggetto un bene intellegibile e motivabile, fosse pure Dio stesso, ma ha per oggetto lo stesso suo volere.

Per loro Dio non vuole qualcosa perché è bene, un bene che possiamo conoscere anche noi. Ma il bene è bene solo in quanto è qualcosa che Dio vuole. Egli decide ciò che è bene e male, premia e castiga non in base a un criterio noto anche a noi, in base a un vero e un falso, da noi verificabile, ma in base al suo puro arbitrio, in base al suo stesso imperscrutabile volere.

Per questo secondo loro non solo Dio non ci dice perchè predestina questo e non quello – e questo effettivamente è al di sopra della nostra comprensione -  ma Dio non  fa sapere ad ognuno di noi il motivo del suo giudizio su di noi, così che noi possiamo verificare la sua lealtà e fedeltà ai patti e renderci conto della  giustezza di tale giudizio, sapere cioè  perché premia questo e castiga quello. Ora, questo invece lo sapremo al giudizio universale, così da lodare in eterno ad un tempo la sua giustizia e la sua misericordia.

Invece i volontaristi affermano che noi ignoriamo anche questo, per cui, in caso di delusione delle aspettative, non ci è lecito protestare. In tal modo essi vengono a dire che possiamo aspettarci da lui delle amare sorprese che ce lo mostrano balzano, incoerente, inaffidabile e sleale. Ma è evidente che queste sono bestemmie che dimostrano l’empietà della teologia volontarista, che col pretesto della fede e del mistero, offende la ragione e fa di Dio un mostro.  

Secondo loro infatti noi non possiamo verificare la ragionevolezza dell’attuarsi della giustizia divina nei singoli casi perché non ne conosciamo il criterio. Se ci manda all’inferno non sappiamo il perchè. Tuttavia se lo fa, vuol dire che è giusto, anche se a noi non pare. Ma ciò è falso, perché Dio è un Dio fedele che sta ai patti, come narrano le parabole del Vangelo che ci parlano del padrone che paga gli operai secondo il compenso pattuito o assegna al peccatore la giusta pena.

Al riguardo è importante notare la confusione che Hegel fa tra opposizione logica ed opposizione reale. Come mai Hegel non ammette un puro essere, una pura verità, un puro bene, una pura vita, ma ha sempre bisogno di congiungere o abbinare o accompagnare questi valori col loro opposto e contrario? Perché ha bisogno di negare ciò che afferma? Perché  confonde questi valori nella realtà con questi valori in quanto concettualizzati.

Infatti, mentre nella realtà il bene può stare senza il male, nel pensiero bene e male formano una coppia dove l’uno richiama all’altro. Allora succede che se io confondo logica e realtà, devo affermare simultaneamente che esiste un bene assoluto (pensando al reale) e che non esiste bene senza male (pensando ai miei concetti).

Anche San Tommaso nota che medesima è la scienza dei contrari: la scienza medica conosce il sano e il patologico, il normale e l’anormale, la scienza morale conosce le virtù e i vizi. È nella realtà, invece, che può esistere un essere libero dal non-essere, ossia dal limite, un vero libero dal falso, un bene libero dal male, una vita immortale.

L’esito agnostico della dialettica trascendentale di Kant

La critica kantiana della ragione sembrerebbe essere del tutto estranea alla problematica teologica se Dio è o non è il principio del male. Kant in modo molto semplicistico, tipico del razionalismo illuminista, si limita a constatare che ogni uomo è peccatore, per cui l’origine del peccato va attribuita soltanto all’uomo[1].

Ma siccome l’uomo è dotato di ragione e libera volontà, mettendo in pratica i dettami della ragione, con la sua buona volontà, può far trionfare in lui il bene sul male. Tutto qui. 

La dialettica trascendentale, dal canto suo, fa sì, secondo Kant, che la ragione speculativa s’illuda di provare a posteriori o per causalità l’esistenza di Dio, perchè la ragione, partendo dall’esperienza sensibile, non riesce a trascendere i fenomeni per elevarsi al sovrasensibile e al mondo dello spirito. Con tutto ciò Kant non negava affatto l’esistenza e la dignità dello spirito e della persona, come attesta il suo interesse per i valori dello spirito: l’autocoscienza, la ragione, l’intelletto, la verità, l’ideale, il pensiero, la scienza, la volontà, la libertà, la legge morale, la virtù, la filosofia.

Quello che stupisce e che lascia perplessi è come Kant potesse avere le sue certezze morali, senza il supporto della ragione speculativa, tanto che vien da domandarsi se le certezze morali kantiane, che si presentano nella veste dell’assoluta obbligatorietà, dell’universalità, incondizionatezza e necessità, e quindi eterne ed immutabili, prive di qualunque ragione esterna o trascendente, siano certezze veramente fondate ed oggettive o non piuttosto effetto di un inflessibile volontarismo soggettivo.

D’altra parte il Dio di Kant, pur postulato dalla ragion pratica,  non è un Dio reale e personale, creatore dell’uomo, un Dio che parla all’uomo in Cristo rivelandogli il mistero del suo essere e la sua volontà salvifica sull’uomo e gli dona i mezzi della grazia, ma è un ente di ragione, l’idea suprema della ragione, che unifica tutto il sistema delle idee della ragione, certo un’entità suprema e spirituale, ma che  non trascende la ragione e quindi non ne è affatto la causa creatrice, come conviene al vero Dio.

In tal modo in Kant la ragione prende il posto di Dio come ragione dell’esistenza umana e regola dell’agire umano. Da qui il totale disinteresse ed anzi disprezzo, tipico dell’illuminismo massonico per i contenuti della fede cristiana, considerati una puerile mitologia, racconti ridicoli o assurdi e tutt’al più dei simboli della verità della ragione e della filosofia.

Ma se la ragione speculativa nel tentare di dimostrare l’esistenza di Dio rimane per Kant impigliata in un’irresolubile dialettica, come non vedere nel Dio della dialettica un Dio sofistico o kabbalistico o böhmiano del sì e del no? Del bene e del male? E che cosa è questo Dio se non il Dio della Kabbala? Anche se tuttavia questo Dio lo si può ricavare anche dalla sofistica e dallo scetticismo greci, che probabilmente Kant ha davanti.

Così il kabbalista Hegel tiene conto anche di Kant. La dialettica hegeliana è una sublimazione ed una sacralizzazione della dialettica trascendentale della quale parla Kant a proposito del problema dell’esistenza di Dio. Hegel trasforma in scienza la dialettica, anzi pone la dialettica in Dio stesso, mentre Kant continuava ad intendere la dialettica nel suo senso aristotelico come opposizione di opinioni contrarie senza che sia decidibile la scelta fra il sì e il no.

Nell’escatologia kantiana è ancora ammessa una separazione fra giusti e ingiusti nell’oltretomba. Invece Hegel in forza del suo panteismo del Dio tutto in tutti o del Dio Uno-Tutto, del Dio-mondo, autore del bene come del male, estende all’intera umanità e a Dio stesso la condizione dello justus et peccator che Lutero riservava soltanto ai credenti come li concepiva lui. La visione balthasariana del paradiso e dell’inferno interni a Dio ha qui il suo primo avvio.

Così Hegel riconosce sì l’esistenza della dialettica trascendentale della quale parla Kant. Tuttavia per lui non esiste e non è necessario che esista un sapere del puro sì opposto al no, che debba superare l’oscillazione fra sì e no tipica della dialettica. Per Hegel il sapere stesso, anzi la scienza assoluta, la stessa scienza divina è dialettica, perché per Hegel il sì non esclude il no, ma lo include. Per lui non c’è un terzo escluso, ma anche il terzo è incluso.,

La verità in Hegel non sta nell’affermazione del sì escludendo il no, ma nella congiunzione del sì col no. Ma ciò, come è noto, è proprio ciò che Cristo proibisce chiamandolo «servizio a due padroni». Invece Hegel ne fa il principio della scienza e lo pone addirittura in Dio stesso. Per questo per Hegel, secondo il principio kabbalistico, che poi corrisponde esattamente alla sofistica e allo scetticismo protagoreo già confutato da Aristotele, in Dio c’è l’essere e il nulla, il vero e il falso, il bene e il male.

Quindi Dio esiste e non esiste, è concettualizzabile e non è concettualizzabile, è buono e cattivo, fa il bene e fa il male, è veritiero e bugiardo, è fedele e infedele, gioisce e soffre, è onnipotente e impotente e così via. Questo per Hegel è il vero Assoluto, che secondo lui è stato esattamente intuìto da Böhme. Questa è la «totalità hegeliana», quella che poi Bontadini chiamerà l’«Intero», riferendosi a Parmenide, ma è chiaro che nell’essere parmenideo è implicita la totalità panteistico-nichilista hegeliana.

Quanto ad Hegel, per lui Dio non è un semplice affermarsi, ma è un porsi e negarsi ed è un vincere l’opposizione a se stesso. Il Dio di Hegel sorge dalla dialettica trascendentale di Kant, il quale lascia indeciso se Dio esista o non esista, giacchè per lui la ragione, davanti alla questione dell’esistenza di Dio, s’impiglia in una perplessità dialettica, dalla quale non riesce ad uscire.

Ma siccome il sì e il no sono divini, Dio resta per essenza opposizione del sì e del no. La riaffermazione di sé dopo l’autonegazione o l’alienazione non toglie la polarità del no, perchè anch’essa è divina: è Dio contro Dio. Quindi l’immutabilità di Dio deve includere il teismo e l’ateismo, che si completano nel panteismo in un’identità di Dio col mondo.

Anche grandi teologi possono cadere in gravi errori

Che cosa è successo a Von Balthasar? Come mai un così grande teologo, sensibile ai valori della santità, della carità, della verità, della giustizia, della bellezza, della grazia, della gloria, della mistica si è lasciato ingannare da errori così gravi in campo escatologico? Secondo Andereggen, per un’insufficiente vigilanza critica nei confronti dell’immaginazione e dell’emozione. Il suo estetismo teodrammatico gli ha giocato un brutto scherzo.

Così è successo che per lui, erede attraverso Hegel della tenebrosa e contorta mistica di Böhme, dove gli sprazzi di luce celeste si mescolano con gli orrori dell’angoscia, tutti sono perdonati e tutti sono dannati, tutti godono ad un tempo della gioia del paradiso e soffrono per le pene dell’inferno, perché Dio stesso, nel quale c’è il bene e il male, vuole per tutti il bene e il male, il peccato e la giustizia, la vita e la morte, la misericordia e il castigo.

Per Cecchetti, che segue in ciò Von Balthasar, il Logos di Dio è la causa con la sua volontà non solo di ogni forma di bontà, gioia e bellezza nell’universo, ma anche di ogni malvagità, dolore e bruttezza: «Il Logos-Figlio di Dio comprende non soltanto le bellezze dell’ordine cosmico, ma anche le brutture della cattiveria, del dolore e della morte...».

Cecchetti con queste espressioni empie offende gravemente l’infinita bontà divina. Infatti, è assolutamente falso che Dio voglia la cattiveria. Se ha ordinato la natura animale e vegetale così che essa comporti l’uccisione del debole da parte del più forte o la selezione naturale, ciò non deroga affatto alla bontà divina, se è bontà volere l’ordine della natura. E neppure deroga alla bontà divina il fatto che Dio abbia punito l’umanità discendente da Adamo assoggettandolo agli sconvolgimenti e calamità della natura.

Non deroga affatto alla bontà divina il fatto che Egli punisca eternamente chi muore in stato di peccato mortale. Crudele Dio sarebbe se si compiacesse di questi mali e li volesse come tali, per il gusto di far soffrire. Ma ciò è assolutamente impensabile e blasfemo il solo pensarlo.

Se è vero che la misericordia allevia e toglie la sofferenza, quando Dio infligge un castigo, una pena o manda la sofferenza non contravviene alla misericordia, ma pratica la giustizia, cosicchè se non inducesse quei mali di pena, peccherebbe contro la giustizia, cosa che sarebbe blasfemo il solo pensarla.

È chiaro che bene e male si escludono l’un l’altro. Tuttavia occorre tener presente che il male di pena, ossia la giusta punizione è un bene ed è solo il peccato che non può mai dimostrare un bene. E per questo, se Dio può operare o permettere il male di pena, non può assolutamente volere il peccato o male di colpa.

Per questo è gravissimo l’errore di attribuire a Dio la malvagità o la cattiveria. La Chiesa ha definito altresì orribile bestemmia la tesi della predestinazione all’inferno inventata da Godescalco nel sec. IX[2] e stupisce e amareggia molto che Lutero abbia osato riesumarla.

Egli considerava se stesso predestinato al paradiso e i cattolici predestinati all’inferno. Successivamente nell’’800 il luterano Schleiermacher pensò di allargare misericordiosamente la predestinazione al paradiso a tutta l’umanità e fondò la corrente dei buonisti, oggi fiorentissima, alla quale aderiva anche Von Balthasar, ma con una precisazione, che propriamente egli non fu un sostenitore, come corre voce, dell’inferno «vuoto», ma della sua esistenza non fuori di Dio, bensì in Dio, beato e sofferente, principio del bene e del male, nella linea di Böhme ed Hegel. Quindi, tutti al contempo sono beati e dannati, giusti e peccatori.

Cecchetti aggiunge: «la crudele spietatezza della selezione naturale è parte della creatività di Dio, ma non ne rivela la natura di Dio». Non ha senso parlare di spietatezza, che è una categoria morale, per quanto riguarda il comportamento dei viventi inferiori all’uomo, benchè  tale comportamento comporti l’uccisione o la deficienza dei più deboli. Non ha senso definire «crudele» il leone che uccide la gazzella, come se esso commettesse una colpa morale, giacchè esso in ciò non fa che obbedire alle leggi della sua natura, poste in lui dallo stesso creatore. E quindi non ha senso neppure negare che il comportamento del leone riveli la natura del Creatore.

Al contrario, la natura di un’opera rivela la natura dell’autore che l’ha prodotta. Il comportamento del leone che assale, uccide e divora una gazzella è improntato a ben precise leggi neurologiche, fisiologiche, psicologiche, fisiche e dinamiche del comportamento dello stesso leone, leggi che rivelano la sapienza della mente divina che le ha ideate e la potenza divina che le ha create e le fa mettere in pratica.

Hans Urs von Balthasar nella Teologia dei tre giorni afferma:

«C’è un calvario lassù, da cui tutto è derivato». Aveva appena scritto che «il sacrificio di Cristo è iniziato prima che venisse nel mondo e la sua croce era quella dell’“agnello sgozzato fin dalle origini del mondo”»[3].

Questa tesi di Von Balthasar è assolutamente falsa. È assurdo pensare che la morte possa corrompere la natura divina, che è vita eterna per essenza. Si può tutt’al più parlare di morte di Dio nell’evento della croce in forza della comunicazione degli idiomi, riferendosi al sacrificio della croce. Ma parlare della morte di Dio in quanto Dio («in cielo») e di «agnello sgozzato fin dalle origini del mondo» è una pura assurdità e insensatezza.

Continua Cecchetti:

«Allora forse solo la mistica può entrare nel “profondo” di una redenzione cosmica se, come notava ancora Balthasar: “Dio solo va fino in fondo all’abbandono di Dio, Dio porta la privazione di Dio, Dio lascia Dio affondare nella derelizione”».

Altra affermazione insensata. Che senso ha che Dio abbandoni se stesso? Come fa Dio a portare alla privazione di se stesso? La privazione di Dio è il peccato: Dio istigatore del peccato? Dio che spinge ad andare contro Dio? Che cosa è questo Dio che si sdoppia e lascia andare il suo duplicato nella derelizione?

Il problema della salvezza è una cosa seria

e non un affare di dialettica

Ora, diciamoci francamente: non ne abbiamo abbastanza di questi deliramenti oggi abbondantemente in circolazione che dalla Kabbala portano a Böhme e ad Hegel? Questo è un abuso della comunicazione degli idiomi.  Qui non si tratta di mistica, ma di farneticazioni blasfeme, che nulla hanno a che vedere con la vera mistica, ma dimostrano una fantasia incontrollata, dominata da un uso sregolato della creatività poetica, che conduce una pseudoteologia poetizzante a sorprendere il lettore con immagini sconcertanti e assurde.

Ma quello che possiamo tollerare nella poesia, diventa inammissibile se si pretende di far teologia. In teologia infatti non si tratta di creare o inventare immagini originali e sorprendenti, ma di conoscere e far conoscere cose non escogitate o inventate da noi, ma realtà oggettive necessarie al bene e alla salvezza dell’uomo. La teologia è una scienza, come lo è la scienza medica.

Il medico non deve inventare niente, ma semplicemente conoscere il disturbo del paziente, fare una giusta diagnosi ed offrigli una cura adatta. Il teologo che vuol sorprendere e fare l’originale, non sarà mai un medico delle anime, ma un esibizionista che vuol dar spettacolo e che vuol tutt’al più sparare fuochi d’artificio, quando non diventa pericoloso, se si prendono sul serio le sue stranezze o enormità, simpatiche forse come esternazioni poetiche, ma dannose come medicine dello spirito.

Quali vantaggi infatti quei discorsi di Von Balthasar offrono alla vita spirituale? Che cosa egli spera di ottenere con queste offese al Mistero di Dio, con questa mistificazione del suo santo Nome? Quale pietà religiosa, quale luce su Dio, quali spunti di carità suscitano queste espressioni ripugnanti? Quale saggezza si ricava da queste balordaggini?

Dove la Scrittura si esprime in questo modo? Dove i Padri e i Santi? Dove il Magistero? Dove nei mistici cattolici troviamo queste espressioni? Che razza di teologia è questa? E non è da dire che Von Balthasar, nella sua immensa produzione, non abbia anche ottime cose. Fermiamoci a queste e qui chiudiamo un occhio con senso di compassione per le boutades di un grande teologo del secolo scorso, maestro di spiritualità, uomo di fede, anima di poeta, ammiratore dei Santi, riformatore della Chiesa e precursore del Concilio Vaticano II.

Dobbiamo dunque dire che non c’è solo il bello, ma anche l’orrido; non solo il quod visum placet, ma anche il quod visui repugnat. Non c’è solo la gloria, ma anche l’ignominia. Non c’è solo l’ordine, l’armonia, la proporzione, il ben formato, il moderato, l’equilibrato, ma c’è anche il disordine, la disarmonia, la sproporzione, il deforme, lo smodato, lo squilibrato. E le due cose non possono stare assieme. Cristo è venuto a pacificare ma anche a portare una spada. Si deve separare ciò che è separato e unire ciò che è unito. Unire il separato e separare ciò che è unito non è opera divina ma del diavolo.

Lasciamo i terremoti e le catastrofi al di fuori della divinità. Le tempeste sono alla superficie dell’oceano, non nel fondo. Se anche la Trinità è nei guai, chi ci tira fuori dai guai? Se non è in pace la Trinità, chi ci donerà la pace? Se neppur in Dio troviamo la pace, dove la troveremo? Nel gusto di far la guerra?

Non trasformiamo la Trinità nella tragedia di tre scalzacani come noi. Non esponiamola al ridicolo. Manteniamo il senso del sacro. Manteniamo la serietà delle cose sante. Abbiamo rispetto per i sofferenti. Non prendiamoli in giro. Se anche il medico è malato, chi guarisce il malato?

Non c’è solo la bellezza del paradiso, ma anche l’orrore dell’inferno, la bellezza dell’angelo e la bruttezza del demonio, come ci insegnano millenni di arte iconografica di tutte le religioni, benché anche nell’inferno siano presenti la sapienza e la misericordia di Dio. Come non esiste un male senza il bene, così anche le cose orribili mantengono un bagliore di bellezza.

La missione del teologo

Von Balthasar è certamente uomo di fede, dalla profonda intelligenza, di larghe vedute, di ricca spiritualità, coltissimo, dalla produzione letteraria prodigiosa, evidentemente pratico di un metodo di lavoro perfetto e perseverante, dal cuore largo, entusiasta per Cristo, amante della Chiesa e del Papa, eccezionale scrittore, esteta finissimo, animo di poeta e di mistico.

Tuttavia ha un modo di intendere la teologia basato non sul sapere, ma sul sentire, non sulla analettica ma sulla dialettica, non sull’univoco ma sull’equivoco, non sul coerente ma sul sorprendente, qualità che fanno l’opera d’arte, ma che in teologia danneggiano l’interesse e il rispetto per la verità. Il pulchrum perfeziona il verum  ma non può contrastarlo.

La gloria della quale parla San Giovanni non è lo scintillìo paradossale dell’ estro poetico, ma è la verità diamantina, luminosa e misteriosa del Logos. Questo è il difetto fondamentale della teologia di Von Balthasar.

Dovere del teologo non è creare, ma indagare; non è inventare, ma scoprire; non è sorprendere, ma illuminare; non è la retorica ma il ragionamento; non è il paradosso ma la coerenza; non è l’oscurità ma il chiarimento; non è la suggestione ma la spiegazione; non è l’esibirsi, ma il servire; non è l’angosciare, ma il consolare; non è l’affascinare ma il responsabilizzare; non è il farsi ammirare, ma il guidare all’ammirazione.

Semmai la creatività e l’inventiva va posta nel linguaggio o nel modo di esprimersi al fine di rendere attraenti e comprensibili i contenuti da trasmettere o da insegnare, ma non negli stessi contenuti, che sono quello che sono e non possono essere cambiati o creati da noi senza con ciò stesso recar danno a chi ci ascolta.

Nessuno nega che il teologo può far uso dell’immagine, del simbolo, del paragone, dell’allegoria, della similitudine, dell’analogia, della parabola, del mito, del racconto, della metafora, della sineddoche e dell’ossimoro. Ma a patto che tutto ciò serva ad elevare il pensiero e l’affetto dal sensibile all’intellegibile, dal concreto all’astratto, dal fisico al metafisico, dal materiale allo spirituale, dal visibile all’invisibile, dalla terra al cielo, dal naturale al soprannaturale, dall’uomo a Dio.

Il teologo deve sì far gustare, ma deve far gustare ciò che ha fatto vedere. Deve sì entusiasmare ma per ciò che ha dimostrato esser vero. Deve sì far innamorare, ma ciò che ha dimostrato esser buono. Non deve far leva sulla simpatia, ma sulla ragione. Deve saper farsi credere, più che ammirare. Deve scuotere, certamente, tuttavia scuotere la coscienza più che l’emotività.

Il teologo può essere anche un mistico, un poeta o uno scrittore, ma se si ferma a fare il teologo, ha già fatto il suo dovere. Deve invece cercare di farsi santo; se no rischia di non essere un buon teologo.

Il suo organo non è la fantasia, ma l’intelletto. Il suo metodo non è impressionare, ma il far ragionare; non è il sedurre, ma il condurre; il suo scopo non è non è l’emozionare, ma il far vedere.

Non deve confondere la fede con l’esperienza.  Non deve confondere la ragione col sentimento, il sapere col poetare, la mitologia con la teologia. Suo dovere non è la ricerca del bello fine a se stesso, ma mostrare la bellezza della verità e della bontà.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 22 febbraio 2024


Mentre nella realtà il bene può stare senza il male, nel pensiero bene e male formano una coppia dove l’uno richiama all’altro. Allora succede che se io confondo logica e realtà, devo affermare simultaneamente che esiste un bene assoluto (pensando al reale) e che non esiste bene senza male (pensando ai miei concetti).

Anche San Tommaso nota che medesima è la scienza dei contrari: la scienza medica conosce il sano e il patologico, il normale e l’anormale, la scienza morale conosce le virtù e i vizi. È nella realtà, invece, che può esistere un essere libero dal non-essere, ossia dal limite, un vero libero dal falso, un bene libero dal male, una vita immortale.

La verità in Hegel non sta nell’affermazione del sì escludendo il no, ma nella congiunzione del sì col no.

Quindi Dio esiste e non esiste, è concettualizzabile e non è concettualizzabile, è buono e cattivo, è onnipotente e impotente e così via. Questo per Hegel è il vero Assoluto, che secondo lui è stato esattamente intuìto da Böhme. Questa è la «totalità hegeliana», quella che poi Bontadini chiamerà l’«Intero», riferendosi a Parmenide, ma è chiaro che nell’essere parmenideo è implicita la totalità panteistico-nichilista hegeliana.

Hans Urs von Balthasar nella Teologia dei tre giorni afferma: «C’è un calvario lassù, da cui tutto è derivato». Aveva appena scritto che «il sacrificio di Cristo è iniziato prima che venisse nel mondo e la sua croce era quella dell’“agnello sgozzato fin dalle origini del mondo”». Questa tesi di Von Balthasar è assolutamente falsa. 

Immagine da Internet: L'Agnus Dei. L'agnello mistico sorretto da angeli, mosaico, San Vitale (Ravenna)

 

[1] La religione entro i limiti della sola ragione, Editori Laterza, Bari 1985.

[2] Al Concilio di Quierzy dell’853 (Denz.621).

[3] Cit. da Andereggen in Inferno e dintorni, op.cit.

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