Trattato sugli Atti umani - P. Tomas Tyn - Lezione 1 (1/3)


Trattato sugli Atti umani

P. Tomas Tyn

Lezione 1 (Parte 1/3)

P.Tomas Tyn, OP - Corso “Atti Umani” - AA.1986-1987 - Lezione n. 11 (A-B)

Bologna, 13 gennaio 1987 - Fine Ultimo n. 11 (A-B)

http://www.arpato.org/corso_attiumani.htm

Nella prima lezione di questo anno 1987 incominciamo il Trattato sugli Atti umani. Se vi ricordate bene, quasi, anzi senza quasi, tutto il primo trimestre abbiamo svolto l’argomento del Fine Ultimo, proprio perchè è assolutamente basilare per la fondazione stessa della morale. È la finalità che fonda ciò che è il rapporto dell’atto umano alla norma della legge.

La moralità, se è correttamente definita, si definisce appunto in questi termini: è la relazione trascendentale dell’atto umano alla norma della legge. Ebbene, sia l’atto umano che la norma morale derivano dalla finalità. Se l’ente non fosse finalizzato, non potrebbe costituirsi nè soggetto di azione nè sorgente di doveri. Solo tramite i fini ci sono sia le azioni sia ciò che l’azione deve avere, e deve possedere come pienezza dell’essere, che le è dovuta.

Quindi, sia l’atto umano, sia il dovere morale si fondano sul fine, il quale è per così dire comune a entrambi i poli tra i quali si costituisce la moralità come relazione. Entrambi i termini della relazione hanno il loro fondamento metafisico nel fine. Ecco perchè era necessario proprio iniziare da questa considerazione del finalismo e in ultima analisi del fine ultimo.

Abbiamo visto che subito, dal primo articolo della prima questione, S.Tommaso si chiede se conviene all’uomo agire per un fine. Se vi ricordate bene la prima questione, vedete come S.Tommaso  come restringeva la domanda, per poi allargare nel secondo articolo, cioè se all’uomo compete agire per un fine e poi se ad ogni agente competa agire per un fine.

E abbiamo visto come la differenza fondamentale è appunto quella tra gli agenti non dotati di ragione e l’uomo agente dotato di ragione, e nell’uomo stesso la differenza che esiste tra l’atto detto dell’uomo e l’atto invece propriamente definito come umano. . Vi ricordo ancora che S.Tommaso dice che l’atto umano non si dice di un qualsiasi atto che capita all’uomo di elicitare, ma l’atto umano è proprio, propriamente quell’atto nel quale l’uomo agisce in quanto formalmente è uomo, cioè in quanto si differenzia specificamente da tutte le altre creature.

Ora, l’uomo si differenzia da tutti gli esseri inferiori tramite la sua razionalità. Quindi l’atto umano è quell’atto che procede dall’uomo secondo la volontà deliberata. Dicendo volontà deliberata, S.Tommaso praticamente immette nell’atto umano due condizioni, cioè praticamente la piena avvertenza e il deliberato consenso, che si trovano nel Catechismo di S. Pio X, il quale è quasi tutto fondato su S.Tommaso, ed è per questo che è ben fatto. Quindi c’è sia il consenso della volontà sia l’avvertenza dell’intelligenza. S.Tommaso parla più semplicemente di volontà deliberata, cioè una volontà che procede da una deliberazione.

Dopo avere trattato del fine, S.Tommaso, da bravo moralista concentra la sua attenzione su quello che è il soggetto della moralità, ossia appunto l’atto umano al quale compete essere moralmente qualificato. E anche riguardo all’atto umano ci saranno ancora due considerazioni: una, si potrebbe dire, psicologica, cioè il lato psicologico dell’atto umano; e la seconda considerazione sarà la considerazione ex parte obiecti, ossia la considerazione della qualifica morale.

Quindi ci sarà, diciamo così, un gruppo di questioni che riguarderanno l’atto umano nel suo costituirsi psicologico, soprattutto con attenzione particolare alla libertà, che è la qualifica più importante in ordine alla morale dell’atto umano, la libertà dell’atto umano, che ovviamente si pone ex parte subiecti, una qualifica dell’atto umano in quanto procede dal soggetto. E poi la qualifica morale, le fonti della moralità, che sono ovviamente fonti oggettive.

In tal senso iniziamo appunto dalla parte soggettiva dell’atto umano. Nella questione 6 S.Tommaso si chiede se nell’atto umano ci sia il volontario e l’involontario. In sostanza distingue questo duplice termine, cioè il volontario e l’involontario. Che cosa è esattamente il volontario? Vedremo che il volontario si distingue in perfetto e imperfetto. Volontario quindi che potrà essere realizzato in maniera più perfetta e in maniera più generica e meno perfetta.

Ora, anzitutto negli atti umani, che quindi procedono dall’uomo in quanto è uomo, negli atti procedenti dalla volontà deliberata, vi è il volontario perfetto. Ora qui bisogna riprendere il tema, non facile certamente, ma molto importante, del tipo di agente. Cioè quali sono i vari tipi di agente causale efficiente?

Anzitutto c’è quell’agente che non ha in se stesso il principio del suo movimento, ma l’ha in qualche cosa d’altro. E questo non è un agente propriamente detto, perchè è piuttosto è un paziente che un agente, perchè subisce violenza da qualcos’altro. Quindi agisce non da sé, ma subendo l’azione di qualche cosa d’altro.

Poi ci sono gli agenti, che hanno il principio della loro azione in se stessi. Questi sono gli agenti naturali. Tra gli agenti naturali poi ci sono alcuni che non sono in grado di muovere se stessi, ma muovono solo qualche cosa che è al di là di essi stessi. Insomma, sono degli agenti che producono delle azioni transtive. Questi agenti sono appunto i non viventi. Quindi esercitano un’azione naturale, ma un’azione che ha il suo effetto al di là dell’agente: la pietra che cade non muove se stessa, è mossa dalla gravità della terra, che l’attira.

Quindi, in questi agenti c’è in qualche modo, un moto naturale, interiore all’agente, però l’agente non muove se stesso, è mosso ancora dall’altro. Però non più con violenza, non subisce la mozione, ma ha in qualche modo in sè la mozione, mozione però che termina a un qualche cosa di diverso dall’agente.

I viventi si definiscono come degli enti, o meglio degli agenti che sono in grado di muovere se stessi. E’ la famosa autocinesi di Platone, il quale definisce appunto il vivente in termini di autocinesi, cioè in termini di ciò che muove se stesso. Viventi sono quegli agenti che sono in grado di muovere se stessi. Cosa vuol dire, questo? Naturalmente non è una deroga al principio di causalità. Non vuol dire che c’è qualche cosa che dia a se stesso il proprio atto, insomma non esiste una causa sui, checché ne dicano Spinoza e Cartesio,

Quindi ogni causa produce un effetto distinto da sè. Vuol dire però che ci sono delle cause che hanno il principio motore nello stesso soggetto in cui si produce anche l’effetto. Vedete come l’azione comincia a diventare immanente. Nei viventi l’azione ha un effetto immanente allo stesso soggetto.

Cioè lo stesso soggetto, sotto aspetti ovviamente diversi - è chiaro, perché sennò il principio di causalità crollerebbe -, lo stesso agente sostanzialmente identico, è agente e paziente, cioè muove se stesso. Se io, per esempio, mi metto a camminare, a correre, eccetera, ebbene, sono io che sono mosso, ma sono mosso da me. Il principio del mio, del mio agire è in me stesso. Quindi io subisco la mia stessa azione. Questo per quanto riguarda i viventi.

Ora, nei viventi di vita vegetativa, il principio diciamo del moto immanente è ancora molto imperfetto, perchè gli effetti, diciamo così, del moto vitale, per esempio l’accrescersi della pianta, non permangono nella stessa facoltà, ma si diffondono un po’ su tutta la sostanza. Quindi è tutta la pianta che cresce. Il moto vegetativo in qualche modo è, diciamo, non procede da una facoltà, ma si riversa su tutta la sostanza[1].

Invece l’azione immanente più perfetta è quella i cui effetti non solo terminano allo stesso soggetto sostanziale, ma alla stessa facoltà, che elicita l’azione. E questo è proprio praticamente della vita sensitiva, con la quale comincia questa azione vitale particolare, che definisce gli agenti di vita sensitiva, che è appunto la conoscenza. E’ a livello della vita sensitiva che inizia la conoscenza.

Fin qui c’è una certa interiorità, del principio della mozione al fine. Quindi c’è questo agente, che possiede in sè il principio del suo muoversi, la sua tendenza al fine. E, come vedete, più perfetto è l’agente, più interiore, più intimo gli è questo principio. Si potrebbe dire che la perfezione degli agenti è direttamente proporzionale all’interiorità del principio del movimento.

Ora, questi agenti hanno in sè il principio della loro tendenza al fine, ma - questo è il punto, che è molto importante da capire - ma non hanno in sé - notate bene, questo è importante -, non hanno in sé il fine stesso. Ciò che è presente all’agente è la tendenza al fine, già tutta bella e fatta. Non il fine, non il fine stesso. Non c’è una rappresentazione del fine, in quanto è fine, nell’agente. C’è solo la tendenza radicata ovviamente nella forma[2].

In questi agenti c’è solo la forma[3], non c’è la presenza del fine, ma c’è la forma, che è radice della tendenza al fine. Questo è molto importante. Quindi in questi agenti, che sono agenti naturali, a diversi gradi di perfezione, c’è la tendenza al fine, senza però che il fine sia presente. Poi ci sono gli agenti, e questi sono solo i conoscenti, che hanno una certa presenza del fine, cioè non solo hanno presente la mozione, la tendenza al fine, ma anche il fine stesso, da cui poi scaturisce la mozione.

Quindi praticamente avete questa dualità di casi. Cioè ci può essere un agente che non ha nessunissima conoscenza del fine, che però ha in sè, nel suo soggetto sostanziale, tramite la sua essenza o la sua forma, che poi è la forma che determina l’essenza ovviamente, ha nella sua struttura formale, chiamiamola così, ha in essa un principio della inclinazione al fine, non il fine, ma l’inclinazione al fine. Questi sono gli agenti naturali.

Gli agenti volontari sono invece quegli agenti, che, al di là della inclinazione naturale al fine, hanno anche presente il fine stesso, così da ordinare almeno in qualche modo se stessi al fine. Non sono solo passivamente ordinati al fine, ma in qualche modo ordinano se stessi al fine. Non solo eseguono una inclinazione già data a loro, ma in qualche modo si danno la propria inclinazione.

Quegli agenti che non hanno il dominio del proprio fine, che non possiedono intenzionalmente il fine, hanno solo la tendenza al fine e poi la eseguono e la eseguono anche con un movimento naturale, che scaturisce dal di dentro. Un movimento vitale addirittura, cioè muovono se stessi a quel fine. Però, non possono che muoversi a quel determinato fine.

Invece ci sono degli agenti che hanno in sè non solo il principio della mozione al fine, ma anche il fine stesso e quindi ordinano in qualche modo se stessi al fine; non eseguono solo passivamente un’inclinazione al fine, ma danno a se stessi quell’inclinazione al fine. Questo è possibile solo in quegli agenti che appunto hanno presente il fine, quindi in grado di rappresentare il fine. Ora, questa rappresentazione ovviamente è conoscitiva.

Quindi, gli agenti volontari sono quegli agenti che hanno il principio intrinseco delle proprie azioni con l’aggiunta di una certa quale preconoscenza del fine. Questa è la definizione del volontario. L’agente volontario è quell’agente che ha in se stesso il principio della sua azione, e questo l’agente volontario l’ha in comune con l’agente naturale, quindi ha in se stesso il principio della sua azione, della sua mozione, non subisce insomma l’azione di qualche cosa d’altro.

In pratica la sua azione gli è propria, scaturisce da esso stesso, con l’aggiunta di una certa quale conoscenza, meglio preconoscenza del fine. E questo è molto importante, questo secondo elemento è specifico, la differenza specifica. Questa definizione S.Tommaso la ottiene da diverse fonti: sia da Aristotele, sia da Gregorio Nisseno, da S.Giovanni di Damasco. C’è, come si può dire, un certo accordo tra coloro che si sono dedicati a questa approfondita antropologia in chiave ovviamente non semplicemente psicologica, fenomenistica, ma in chiave metafisica.

Quindi il volontario è ciò che ha in sè il principio della propria azione con una certa quale preconoscenza del fine. Ora, è evidente che l’uomo conosce perfettamente il fine, ossia conosce il fine non solo come quella realtà che di fatto è fine, ma ha il concetto universale e formale del fine, in quanto è fine, ha la nozione teorica del fine, se volete.

L’uomo ha una teoria rispetto al fine, non solo una conoscenza materiale di ciò che è fine, ma proprio un afferrare la ratio finis, l’essenza del fine. Dato che l’uomo possiede questa perfetta notizia o conoscenza del fine, nel volontario nell’uomo, nelle azioni umane in quanto umane, nell’uomo appunto, nelle azioni umane, risiede il volontario perfetto.

Quindi si può dire che l’atto umano è l’atto dotato di un volontario perfetto. Cioè procede dall’uomo intrinsecamente e procede dall’uomo secondo la conoscenza del fine, non una qualsiasi conoscenza, non la conoscenza sensitiva, perchè l’uomo ovviamente ha anche quella, ma secondo quella conoscenza del fine che è propria all’uomo, ossia secondo la conoscenza intellettiva, astratta del fine.

Sia notato solo tra parentesi, miei cari, come, come l’antropologia classica, a differenza di certe insipienze contemporanee, giustamente prediliga l’astrazione, in sostanza. L’astrazione è l’attività dell’uomo. La dignità dell’uomo sta nel fatto che sappia astrarre, che sappia formulare degli universali. Ahimè, al giorno d’oggi ci siamo disaffezionati agli universali.

Invece, invece, vedete, la grandezza dell’uomo è la capacità di afferrare l’universale. Solo in base a questa capacità dell’universale l’uomo possiede anche la padronanza dei suoi propri atti, cioè possiede il volontario perfetto e possiede poi in ultima analisi anche la libertà, cioè il dominio del proprio atto e dell’effetto del proprio atto. Bene. Prego, caro. Dimmi tutto.

la conoscenza del fine … come avviene nell’uomo …

Sì. Coraggio, qual è il senso della domanda. Dimmi un po’.

… la conoscenza del fine … in se stesso … tendenza …

Certo. Inferiori. Ah, su questo non c’è dubbio. Appunto, no? Non c’è dubbio su questo. Cioè, il fatto è questo, che praticamente la stessa padronanza, che l’uomo ha sul proprio atto, non è una padronanza assoluta, altrimenti saremmo proprio Dio stesso, in sostanza.

E’ questa, vedete, la grande seduzione dell’antropologia, che può in qualche modo prevaricare in questo duplice modo. E’ molto, molto facile da intuire, questo duplice scoglio, insomma. Uno è lo scoglio del banale concretismo. Cioè, in sostanza, si dice che tra l’uomo e gli animali non c’è che una differenza di grado.

E’ la teoria materialistico-darwinistica, evoluzionistica, tanto per non fare i nomi. Allora, si dice: tra l’uomo e l’animale c’è una sola differenza di grado, non c’è ovviamente una conoscenza astrattiva, cioè quello si sognano gli Scolastici, ma c’è semplicemente una inclinazione assolutamente determinata al fine ed eventualmente con una pia illusione di essere liberi.

Questa è anche un po’ la concezione spinoziana. Cioè Spinoza dice che, in sostanza, la libertà è una grande illusione. L’uomo non è che sia più intelligente degli altri esseri. Semmai è uno che si illude di più degli altri esseri, nel senso che non conosce le sottigliezze delle sue determinazioni, in sostanza. E’ un po’ più complicato degli altri esseri, ma è tutto lì, insomma. Essendo più complicato e non avendo la capacità di afferrare questa complicatezza, pensa di essere libero, mentre di fatto è solo una questione appunto di complessificazione, se volete. E in questo c’è una specie di Teilhard de Chardin ante litteram.

Questo è uno scoglio. Esso consiste, diciamo così, nel non prendere in sufficiente considerazione la differenza tra il tipo di conoscenza umana e il tipo di conoscenza sensitiva, propria degli animali. E’ uno scoglio su cui si infrange assai spesso una buona parte della filosofia e, ahimè, anche della teologia contemporanea.

L’altro scoglio è altrettanto pericoloso, ed è lo scoglio di sopravvalutare, diciamo così, la spiritualità umana dimenticandosi che, c’è certamente un’apertura infinita, proprio grazie all’astrazione. Anima est quodammodo omnia. Quando S.Tommaso dice questo, seguendo Aristotele, dice una verità profondissima. Cioè, in qualche modo, l’anima intellettiva, dotata di intelletto, diventa ogni ente, è ogni ente in potenza. Perchè non c’è nessun ente, che si sottragga all’intelligenza. Si sottrae purtroppo alla nostra intelligenza umana, nel senso che siamo legati ai sensi. Ma abbiamo in noi una facoltà che di suo supera gli stessi sensi Quindi, in qualche modo non c’è ente, che si sottragga all’intelligenza.

Invece ovviamente la conoscenza sensitiva è anch’essa quodammodo omnia, ma omnia sensibilia. Cioè la conoscenza sensitiva è limitata all’insieme delle forme che sensibilmente si manifestano, all’insieme dei fenomeni, in sostanza. Invece l’intelligenza va al di là dei fenomeni stessi, si estende a ogni ente. Ecco perchè nell’uomo c’è questa dualità dell’oggetto formale proprio. Uno che gli compete, in quanto è semplicemente intelligente; e l’altro in quanto è intelligente, ma umano, razionale e quindi legato anche ai sensi.

E quindi c’è questo, questa dualità della quidditas rei materialis e dell’ens ut ens, in sostanza. Entrambi, sia la quidditas rei materialis che l’ens ut ens sono oggetti della intelligenza umana. Uno in quanto è intelligenza, l’altro in quanto è ristretta a essere intelligenza umana. In questo senso potrebbe succedere che qualcuno, pensando alla grandezza del pensiero umano, che effettivamente diventa in qualche modo ogni cosa, passasse ad affermare che allora l’uomo è in qualche modo il dominatore stesso del criterio del bene e del male, se volete, che non sia sottomesso a un ordine oggettivo di fini.

E questa è per esempio la teoria, se di teoria si può parlare, perché sono deliri poetici, bisogna pur dirlo, ma, sempre deliri, di Friedrich Nietzsche, il quale, lancia per così dire questo grido, poeticamente anche gradevole, ma filosoficamente alquanto inattendibile, dell’autonomia assoluta dell’uomo.

Fine Prima Parte (1/3)

P.Tomas Tyn, OP

Trascrizione da audio di:
Prima parte (A) Sr. Matilde Nicoletti, OP – Bologna, 16 febbraio 2014 e
Seconda parte (B) Amelia Monesi – Bologna, 1987
Testo rivisto con note da P. Giovanni Cavalcoli, OP - Varazze, 25 luglio 2015

 

La stessa padronanza, che l’uomo ha sul proprio atto, non è una padronanza assoluta, altrimenti saremmo proprio Dio stesso, in sostanza.

È questa la grande seduzione dell’antropologia, che può in qualche modo prevaricare in questo duplice modo. È molto, molto facile da intuire, questo duplice scoglio. Uno è lo scoglio del banale concretismo. Questo è uno scoglio. Esso consiste, diciamo così, nel non prendere in sufficiente considerazione la differenza tra il tipo di conoscenza umana e il tipo di conoscenza sensitiva, propria degli animali. È uno scoglio su cui si infrange assai spesso una buona parte della filosofia e, ahimè, anche della teologia contemporanea.

 

L’altro scoglio è altrettanto pericoloso, ed è lo scoglio di sopravvalutare la spiritualità umana. C’è certamente un’apertura infinita, proprio grazie all’astrazione. Anima est quodammodo omnia. Quando S.Tommaso dice questo, seguendo Aristotele, dice una verità profondissima. Cioè, in qualche modo, l’anima intellettiva, dotata di intelletto, diventa ogni ente, è ogni ente in potenza. Perchè non c’è nessun ente, che si sottragga all’intelligenza. 

Si sottrae purtroppo alla nostra intelligenza umana, nel senso che siamo legati ai sensi. Ma abbiamo in noi una facoltà che di suo supera gli stessi sensi. Quindi, in qualche modo non c’è ente, che si sottragga all’intelligenza.

Invece ovviamente la conoscenza sensitiva è anch’essa quodammodo omnia, ma omnia sensibilia. Cioè la conoscenza sensitiva è limitata all’insieme delle forme che sensibilmente si manifestano, all’insieme dei fenomeni, in sostanza. Invece l’intelligenza va al di là dei fenomeni stessi, si estende a ogni ente. Ecco perchè nell’uomo c’è questa dualità dell’oggetto formale proprio. Uno che gli compete, in quanto è semplicemente intelligente; e l’altro in quanto è intelligente, ma umano, razionale e quindi legato anche ai sensi. 

Immagini da Internet: L'Onda, Paul Gauguin - Scogliera, Monet


[1] Il potere accrescitivo della pianta emana dalla pianta e si estende su tutta la pianta. Invece nell’animale il potere conoscitivo è proprietà di un’apposita facoltà, dotata di un suo ambito specifico di azione.

[2] Dell’agente.

[3] Dell’agire secondo il fine. Si tratta delle piante.

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