Sostanza e relazione nella filosofia della persona - Seconda Parte (2/3)

 Sostanza e relazione nella filosofia della persona

Seconda Parte (2/3) 

Bisogna distinguere nella persona la relazione dall’azione

La relazione è un esser ad che non dice necessariamente un esser con o un esser per, e neppure esser contro. Queste forme di essere conseguono all’agire. Ma la relazione riguarda semplicemente l’essere. Essa di per sé non ci dice se l’agente sia a favore di un altro o contro un altro, se lo ami o lo odii, se viva con lui in pace o se siano in guerra, se vanno o non vanno d’accordo.

Semplicemente la relazione mette in campo in logica due cose, per cui io so che cosa è l’una solo se so che cosa è l’altra. Si noti bene: non dico che debbano esistere entrambe, ma parlo solo della concepibilità di quelle due cose. Per sapere per esempio che cosa è il bene, bisogna che si sappia che cosa è il male; ma il bene, per esempio Dio, può esistere benissimo senza il male.

Certamente, quando parliamo di relazioni fra persone, supponiamo per lo più che si tratti d’amore o di concordia. Così, se diciamo che due persone hanno relazioni, intendiamo che si vogliano bene o quanto meno vanno d’accordo o vi è tra loro un dialogo. E così parliamo di relazioni affettive o di amicizia. Se due persone rompono un’amicizia, diciamo che interrompono le relazioni. Non parliamo mai di una relazione di odio o d’invidia. Così se due Stati sono in guerra, se due persone sono in conflitto fra di loro, se una fa violenza all’altra, se un tiranno opprime il popolo, non diciamo che le due parti sono in relazione. Tutt’al più diciamo che intercorrono cattive relazioni. Così distinguiamo le buone dalle cattive relazioni.

Non bisogna dunque confondere nella persona la relazione con l’azione. L’azione genera una relazione, ma l’essere in relazione o l’avere una relazione con altri non significa necessariamente l’esecuzione di qualche azione nei loro confronti.

Nella persona esistono relazioni stabili, trascendentali, naturali, necessarie ed inevitabili, che entrano nella costituzione stessa della natura umana, delle sue facoltà, dei suoi abiti ed inclinazioni naturali, dei suoi fini intrinseci e del suo fine ultimo che è Dio. In tal modo la persona non può esistere senza queste relazioni che concrrono a costituirla come persona.

Ma la cosa che i relazionisti non comprendono è il fatto che queste relazioni sono accidenti realmente distinti dall’essenza, dall’essere e dalla sussistenza della persona stessa, la quale è il soggetto di queste relazioni, relazioni necessarie al soggetto, ma che non sarebbero possibili senza questo soggetto, che è presupposto alle relazioni.

Il concetto di sostanza è un concetto inevitabile del pensiero. Sostanza è un ente completo singolare che sussiste in sé. Voler quindi sostituire il concetto di sostanza con quello di relazione non porta ad altro che ad ipostatizzare la relazione trasformandola in un ente immaginario che degrada e non sublima affatto il concetto di persona.  La relazione non costituisce l’essere della persona, ma un essere accidentale, che esiste solo in quanto inerisce alla persona, ed è di valore inferiore alla persona.

Perché la persona è una sostanza? Perché la persona è la sussistenza di una natura umana singola, e la sostanza è appunto la sussistenza di una natura o essenza singola completa, qual è appunto la natura umana sorretta dal sussistere della persona. La personalità, quindi, dice esistere nel senso di sussistere, prima ancora di far riferimento alla natura umana che sussiste come persona.

La persona, quindi, non è direttamente connessa né all’essenza o natura (essenzialismo) né all’esistenza (esistenzialismo), ma al sussistere, che è l’esistere in sé, congiunto all’inerire, che è proprio degli accidenti essenziali e contingenti, ossia della concretezza, delle inclinazioni, del divenire, delle attitudini, delle disposizioni, delle dimensioni, delle modalità, delle situazioni, delle condizioni, delle proprietà, delle potenze, delle facoltà, degli atti, degli abiti e della storia della persona.

La persona, quindi, non è la collezione di un gruppo di fenomeni o apparenze sensibili o psichici stabili o mutevoli, che io raccolgo attorno a un centro immaginario, utile per dare un nome comune all’insieme raccogliticcio: Paolo, Giovanni, Pietro …, come avviene nell’antropologia nominalista empirista o buddista. No. La persona è un centro o nucleo o principio sussistente ontologico unico con una ben precisa irripetibile identità[1], immutabile ed eterno, nascosto sotto le apparenze fenomeniche proprie di quella persona e non di altre, un soggetto dal quale si diramano o emanano molteplici proprietà o che dà impulso alle manifestazione, ai poteri, alle facoltà, alle inclinazioni, agli abiti e agli atti di quella data persona lì e adesso.

Il suddetto nucleo ontologico attingibile dall’intelletto e non dal senso, fa da supporto, sostegno, sostrato o soggetto o come dir si voglia, alle proprietà contingenti o essenziali della persona, che la determinano nella sua individualità irripetibile e concretezza esistenziale.

Differenza fra la persona umana e la persona divina.

La risoluzione della persona nella relazione deriva anche da un’applicazione sbagliata alla persona umana della nozione trinitaria della persona come relazione sussistente. Infatti, nella Santissima Trinità, come sappiamo dal dogma, esiste la relazione reale. Per questo in Dio si distingue la sostanza dalla relazione non però come sostanza da accidente, ma come sostanza da relazione sussistente, per cui in Dio sussiste tanto l’una quanto l’altra e l’una è un solo essere divino con l’altra. Ciò vuol dire che iI Dio cristiano non è solo assoluto, ma anche relativo[2], relativo tuttavia non ad altro da sé, ma a se stesso, perché in Lui esistono tre persone in relazione fra loro, come tre relazioni sussistenti.

Ciò significa che nella Santissima Trinità la relazione non dice dipendenza, ma dice origine. Il Figlio è detto Figlio non perché dipenda dal Padre, ma solo perchè ha origine dal Padre, «esce» dal Padre, come dice Gesù stesso. L’effetto dipende dalla causa efficiente ed è inferiore alla causa. Ma il Figlio non è causato dal Padre ed è uguale ed identico al Padre nella divinità, benché da Lui realmente distinto come Figlio. Il Padre si può dire principio della Trinità perché dà origine al Figlio e allo Spirito Santo. Si può dunque parlare della monarchia del Padre come fanno gi Orientali, a patto che si riconosca l’uguaglianza delle Persone che sono un solo Dio.

Da notare quindi che dire che il Figlio è generato non vuol dire che sia causato, ma solo proveniente dal Padre in unità di natura, peraltro non specifica come avviene in noi, ma di natura singola qual è la natura divina. Infatti in Dio l’individuo coincide con la specie, il concreto coincide cin l’astratto, perché in Dio l’essenza coincide con l’essere. In noi invece la natura individuale del padre è distinta dalla natura individuale del figlio e sono identici solo nella specie umana. Invece in Dio, Padre e Figlio sono identici nella medesima natura individuale divina.

Non bisogna inoltre insistere troppo sulla distinzione delle persone, evidenziando diverse proprietà che in realtà appartengono tutte all’unica natura divina, come fanno gli Ortodossi[3], come se si trattasse di un gruppo di amici, ognuno con la sua volontà e le sue proprie mansioni, seppure in accordo fra di loro.

Ora invece la volontà in Dio non è spartita fra le tre Persone, come se ognuna avesse una volontà diversa da quella delle altre due e si trattasse, come avviene in una riunione fra di noi, di parlarsi, discutere e mettersi d’accordo. Al contrario, la volontà di ciascuna Persona è numericamente la medesima volontà divina dell’unico Dio che ciascuna Persona è. Non bisogna quindi paragonare i rapporti fra le Persone divine a come avverrebbe tra noi, in un’assemblea di collaboratori per la realizzazione di un fine comune  o  del medesimo progetto.

Nella Santissima Trinità l’unica distinzione reale tra due diverse volontà è quella tra la volontà umana del Verbo incarnato e la volontà divina, unica nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Da noi ogni persona ha la sua volontà, ha sue proprie iniziative, che discute con altre persone in vista di trovare un accordo.

Non così nelle Persone divine: tutte e tre hanno ontologicamente la medesima volontà, hanno deciso il medesimo piano di salvezza, lo eseguono con un’unica volontà, alla quale certamente obbedisce la volontà umana di Cristo. Ma la volontà delle Persone non è altro che la volontà dell’unica natura o sostanza divina, dove peraltro il volere coincide con l’essere. Per cui il relazionarsi di Dio col mondo è un puro atto libero del suo amore per quel mondo che ha liberamente creato e tale atto coincide con lo stesso essere divino, sebbene Dio per essenza non sia relativo al mondo, ma esista da sé ed a sé, anche se il mondo non ci fosse.

Sant’Agostino, basandosi su quanto insegna la Scrittura a proposito della differenza e dell’identità propria di ciascuna delle tre divine Persone, fa un riferimento metafisico molto interessante, anche se noi possiamo propriamente distinguere le Persone solo secondo l’origine. Ha paragonato la sacra Triade alla triade spirituale esse-nosse-velle.  Ed effettivamente l’essere è principio come il Padre è il Principio, è l’Origine delle altre due Persone, sicchè il sapere e il volere emanano dallo spirito come origine di queste due potenze. Nel contempo possiamo dire che il volere (lo Spirito Santo) procede dallo spirito (Padre) e dal sapere (Figlio).

C’è chi disdegna questa interpretazione definendola «psicologica». In realtà l’anima umana non c’entra niente. Agostino parla del puro spirito, che è l’orizzonte d’essere proprio anche degli angeli, puri spiriti.  

La dottrina dei Latini, i quali insegnano il mistero trinitario sul presupposto dell’unità della natura divina è più vera e meglio fondata di quella dei Greci, che partono dalla considerazione delle Persone e su questa base affermano l’unità della natura divina. Infatti, nella visione dei Latini qui non c’è rischio di sminuire l’importanza e l’autonomia ontologica delle Persone, mentre si fa presente che esse non sono sostanze, come noi persone umane, ma relazioni. Lo so che il concetto di relazione può apparire ontologicamente troppo povero e quindi lasciare insoddisfatti; esso può addirittura apparire non biblico, considerando la diversità di mansioni ed uffici che la Scrittura assegna alle tre Persone.

Eppure la Chiesa ha scoperto che se vogliamo evitare il triteismo non c’è altra via che rinunciare a concepire la persona divina come sostanza, eppure dobbiamo concepirla come persona. D’altra parte, il termine ypòstasis usato dai Greci per la persona divina è rischioso, perché fa pensare alla sostanza, sub-stantia (l’ypokèimenon di Aristotele).  Il nome latino persona[4] tiene lontano noi Latini da questo rischio. I Greci dovrebbero usarne uno equivalente, come per esempio pròsopon, che significa appunto maschera.

In base a quanto detto, occorre dire che la comunione fra le tre Persone divine non va intesa come un accordo di tre volontà, ma come relazione di origine del Figlio e dello Spirito Santo dal Padre e dello Spirito Santo dal Figlio. Non bisogna immaginare in questa comunione degli atti d’amore delle Persone fra di loro, simili a come avverrebbe tra noi ossia tra amici, ma nella Santissima Trinità l’Amore, oltre ad essere lo stesso essere divino, è la Persona dello Spirito Santo, che è il nesso d’amore fra il Padre e il Figlio[5]. L’essenza divina è l’amore come espressione dell’infinita bontà di Dio.

Nella Santissima Trinità l’Amore è la persona dello Spirito Santo in quanto nesso fra Padre e Figlio, distributore di tutti i doni spirituali della salvezza e della santificazione del mondo, della Chiesa e delle singole anime. In Dio invece e precisamente nella persona trinitaria il relativo ovvero la relazione non è accidentale, ma sussistente, e si identifica con la sostanza ovvero la natura divina.

Questo è esclusivamente proprio della persona divina, mentre nella persona umana il relazionarsi è accidentale e facoltativo e non costituisce affatto l’essenza della persona. Una persona umana si relaziona con l’altra se vuole, come e quando vuole. Ma sarebbe ridicolo, per quanto possa venir spontaneo, pensare che una Persona divina si relazioni con l’altra a questo modo. Dobbiamo togliere assolutamente dall’idea di Persona divina qualunque immaginazione che possa farci credere che essa agisca usando il libero arbitrio.  

Ciò vuol dire che nell’applicare al Dio Trinitario il concetto di persona occorre operare degli adattamenti che sono richiesti dalla necessità di affermare tre sussistenze, perché chiaramente la Scrittura parla di Padre, di Figlio e di Spirito, che sono sempre Dio e non possono essere tre dèi; ma d’altra parte, persone che noi non possiamo concepire se non in analogia alla nostra persona.

E nel contempo bisogna che noi togliamo a queste tre Persone la soggettività, con il conseguente possesso come in noi dell’intendere del volere e ci fermiamo a concepire queste misteriose Persone solo in riferimento alla loro origine. Il Padre genera il Figlio e spira lo Spirito, il quale è spirato dal Padre e dal Figlio.

Non abbiamo altri elementi per definire queste Persone, se non questi. E quindi bisogna che ci fermiamo a questi senza aggiungere altro, per quanto, pensando alla persona umana, ci parrebbe necessario aggiungere le potenze spirituali. Naturalmente non è che il Figlio non ami; non è che lo Spirito non sappia; non è che il Padre non sappia e non ami. Ma questi atti dello spirito appartengono alla natura e non alla Persona, se non in quanto è Dio. Le Persone come Persone non si conoscono né si amano reciprocante, come avviene in noi, ma sono un solo intelletto e una sola volontà: quelli dell’unica natura divina.

Mentre la relazione completa la persona creata (angelo e uomo) sul piano accidentale, soprattutto nell’agire, la relazione definisce la Persona divina senza che occorra aggiungere un agire, che la metta in relazione con le altre e col mondo. La persona umana, invece, in forza del libero arbitrio, può relazionarsi con le altre mediante la volontà.

Ora, la relazione è l’essere verso altro (esse ad alterum). Il suo sussistere, nella sostanza creata, è un essere in (esse in), ossia è un essere accidentale. L’essere dell’accidente è un sussistere in quanto inerire alla sostanza. Invece l’essere della sostanza è il sussistere in sé e per sé (esse in se). L’apprendimento del mistero trinitario ci ha fatto scoprire che l’essere verso, ossia l’essere relativo o la relazione, non dice necessariamente essere in, ma può anche dire sussistenza in sè, che nell’ente creato è proprietà solo della sostanza.

Ora può sorprendere che nella Santissima Trinità, sommo e perfettissimo Essere, la relazione abbia tanta importanza. Infatti, dal punto di vista metafisico, nei gradi dell’essere l’esse ad occupa il penultimo gradino verso il basso. L’ultimo è la materia prima, il posse esse. E tuttavia l’esse ad può essere spirituale. E la fede ci dice che in Dio è divino: è la Persona trinitaria. Vediamo allora quel Dio a proposito del quale Maria dice: exaltavit humiles. Dio ha scelto di unire il suo essere massimo, l’ipsum Esse, all’essere minimo, certo non poteva scegliere la materia prima, perché Egli è Spirito, sebbene ne sia il creatore e la contenga virtualmente-eminentemente nella sua Essenza.

Dunque il mistero trinitario ci ha fatto scoprire una dimensione relazionale dell’essere, che Aristotele non ha immaginato né poteva immaginare. Non si tratta, beninteso, di relativismo alla Auguste Comte, che nega l’assoluto, ma del fatto che l’essere è effettivamente relazionale, ossia che l’assoluto non esclude ma comporta la relazione reciproca.

Caratteri generali del relazionismo idealista

La metafisica relazionista è quella metafisica che nega il principio di non con-contraddizione, per cui concepisce l’ente non come unum, ma come una polarità di positivo-negativo in relazione reciproca alla pari.  Di conseguenza il pensare non è monodirezionale verso l’ente, ma si sdoppia oscillando fra l’essere e il non-essere e ponendosi in mezzo fra i due termini senza decidere né per l’uno né per l’altro, ma assumendoli entrambi a seconda delle convenienze, ora sposando la verità, ora sposando l’apparenza.

Nell’idealismo, come appare chiaramente in Spinoza, il rapporto Dio-mondo e quindi persona divina-persona umana, è concepito nei termini del rapporto sostanza-accidenti oppure ragione-ente-di-ragione. Questo espediente serve a concepire il reale come un unico Soggetto assoluto e sostanziale, che sono io. Il mondo, quindi, che mi sta davanti, le altre persone non è un insieme di sostanze esistenti al di fuori di me indipendentemente da me, ma sono accidenti della mia esistenza e precisamente enti di ragione della mia ragione in relazione di ragione fra di loro e con me. Così noi comprendiamo come nell’idealismo panteista e monista tutto si risolve in un sistema di relazioni logiche e scompare totalmente l’idea della molteplicità delle persone, ciascuna intesa come sostanza che si relaziona alle altre secondo un relazionarsi che è accidente della sostanza.

Il relazionista monista intende la persona come totalità del reale, sostanza unica, infinita, divina ed assoluta, unificazione dei molti individui che da lei promanano e verso di lei convergono. Gli individui umani non sono persone intese come sostanze, ma sono accidenti della Sostanza o Soggettività o Idea assoluta o Pensiero puro o Io trascendentale o Io assoluto o Intero o Totalità o Esserci, a seconda di come viene chiamato dai singoli filosofi.

Nel linguaggio religioso questo Io assoluto dell’idealismo è Dio, nel linguaggio antropologico sono io, in quello cosmologico è l’uomo, in politica è lo Stato, nel linguaggio della logica è il concetto, in filosofia è lo spirito, nel concreto della vita è la Storia, in metafisica è l’essere, in psicologia è l’io.

Nell’idealismo la persona finita, il singolo uomo si considera sotto un duplice aspetto: come molteplice io empirico è totalmente relativo all’Assoluto; come Io assoluto pone il molteplice io empirico. Qui abbiamo il personalismo relazionista. In esso il soggettivismo si sposa col panteismo, la soggezione assoluta dell’io empirico al Tutto si congiunge con la libertà assoluta dell’io come Tutto. Come io empirico sono relativo al tutto; come Io Assoluto tutto è relativo a me.

Nel relazionismo, il pensiero, per usare il linguaggio di Cristo, non è al servizio di un solo padrone, la verità, ma di due padroni: il vero e il falso. Non è che il soggetto non ami il bene e non fugga il male, ma riserva a sé e non a Dio la decisione di ciò che è bene e ciò che è male. Nel relazionismo l’ente quindi non è sostanza ma relazione reciproca di due opposte polarità: il sì e il no. La certezza del relazionista non è la certezza di sapere, ma la certezza di dubitare. Egli dirige il pensiero simultaneamente verso il proprio io e verso il reale esterno. Egli pretende così di stare in mezzo fra l’autocoscienza e la scienza, la quale conduce a Dio in base al principio di causalità. È chiaro che il relazionismo gnoseologico-metafisico conduce al relativismo morale.

L’agire morale non è un rapporto fra persone e con la persona di Dio, ma, posto che gli altri e Dio sono posti dal mio pensarli, il valore morale è l’espressione della mia volontà come Io assoluto, che è l’innalzamento  ultimo trascendentale del mio io empirico, funzionale e relativo al mio Io assoluto.

Nel medioevo abbiamo un esempio di relazionismo in Averroè, il quale, come è noto, sostiene che esiste per tutti gli individui un unico Intelletto trascendente i singoli individui, del quale i singoli intelligenti sono una attuazione e manifestazione particolare ed empirica. Tutti pensano la medesima verità non in forza dell’intelletto di ciascuno attuato dalla verità, ma perché in loro c’è il medesimo intelletto, uno per tutti e al posto di tutti, che pensa la verità. La verità è universale non perché ogni intelletto sa conoscere l’universale, ma perché c’è un unico intelletto, per tutti ed in tal senso è universale, unica sostanza, una di numero, rispetto alla quale gli individui sono relativi ed accidenti di quella sostanza.

Vediamo adesso alcuni filosofi particolarmente significativi in questo riduzionismo della persona alla relazione.

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 18 febbraio 2023

Nella Santissima Trinità l’unica distinzione reale tra due diverse volontà è quella tra la volontà umana del Verbo incarnato e la volontà divina, unica nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo.

La volontà delle Persone non è altro che la volontà dell’unica natura o sostanza divina, dove peraltro il volere coincide con l’essere. Per cui il relazionarsi di Dio col mondo è un puro atto libero del suo amore per quel mondo che ha liberamente creato e tale atto coincide con lo stesso essere divino, sebbene Dio per essenza non sia relativo al mondo, ma esista da sé ed a sé, anche se il mondo non ci fosse.

Sant’Agostino, basandosi su quanto insegna la Scrittura a proposito della differenza e dell’identità propria di ciascuna delle tre divine Persone, fa un riferimento metafisico molto interessante, anche se noi possiamo propriamente distinguere le Persone solo secondo l’origine. Ha paragonato la sacra Triade alla triade spirituale esse-nosse-velle.  

C’è chi disdegna questa interpretazione definendola «psicologica». In realtà l’anima umana non c’entra niente. Agostino parla del puro spirito, che è l’orizzonte d’essere proprio anche degli angeli, puri spiriti.  

Ora può sorprendere che nella Santissima Trinità, sommo e perfettissimo Essere, la relazione abbia tanta importanza. Infatti, dal punto di vista metafisico, nei gradi dell’essere l’esse ad occupa il penultimo gradino verso il basso. L’ultimo è la materia prima, il posse esse. E tuttavia l’esse ad può essere spirituale. E la fede ci dice che in Dio è divino: è la Persona trinitaria. Vediamo allora quel Dio a proposito del quale Maria dice: exaltavit humiles. Dio ha scelto di unire il suo essere massimo, l’ipsum Esse, all’essere minimo, certo non poteva scegliere la materia prima, perché Egli è Spirito, sebbene ne sia il creatore e la contenga virtualmente-eminentemente nella sua Essenza.

Dunque il mistero trinitario ci ha fatto scoprire una dimensione relazionale dell’essere, che Aristotele non ha immaginato né poteva immaginare. Non si tratta, beninteso, di relativismo alla Auguste Comte, che nega l’assoluto, ma del fatto che l’essere è effettivamente relazionale, ossia che l’assoluto non esclude ma comporta la relazione reciproca.

Immagini da Internet: Beato Angelico


[1] Quella che il Beato Duns Scoto chiama haecceitas.

[2] Come insegna il Concilio di Firenze del 1442: «in Deo omnia sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio» (Denz.1330).

[3] La Scrittura effettivamente parla delle tre Persone attribuendo a ciascuna diverse mansioni come se fossero proprie ed esclusive di ciascuna Persona, come avviene nelle persone umane. Ma in realtà la Scrittura con queste espressioni intende appropriare in modo eminente a quella data Persona attributi operativi che appartengono alla comune natura divina come tale. 

[4] Come si sa il termine, introdotto daTertulliano, è preso dalle rappresentazioni teatrali. Ha il senso di per-sonare, suonare forte, ed era la maschera teatrale. Si tratta di un concetto utile, perché maschera dice in qualche relazione al pubblico che ascolta.

[5] Sum.Theol.,I,q.37.

2 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    lei ha scritto:
    «[…] nella Santissima Trinità l’Amore, oltre ad essere lo stesso essere divino, è la Persona dello Spirito Santo, che è il nesso d’amore fra il Padre e il Figlio […] Le Persone come Persone non si conoscono né si amano reciprocamente, come avviene in noi, ma sono un solo intelletto e una sola volontà: quelli dell’unica natura divina».

    È comprensibile la sua preoccupazione affinché si abbia sempre presente quanto l’Amore divino, attenendo eminentemente alla sostanza dell’Unico Dio, superi infinitamente e incommensurabilmente l’amore umano, e non si debba proiettare sulle Persone/ipostasi della Trinità, modalità antropomorfiche dell' amarsi reciproco.
    E tuttavia non si può non ricordare quanto Cristo abbia insistito nel comunicarci, stando alla lettera del Vangelo, in un certo senso… più che l’amore del Dio Uno, proprio l’amore intercorrente tra Padre e il Figlio:

    «Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa» (Gv 3,35).
    «Il Padre infatti ama il Figlio, gli manifesta tutto quello che fa e gli manifesterà opere ancora più grandi di queste, perché voi ne siate meravigliati» (Gv 5,20).
    «Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo» (Gv 10,17).
    «ma bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre […]» (Gv 14,31).
    «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,10).
    «Padre, […] mi hai amato prima della creazione del mondo» (Gv 17,24).

    Commenterà Sant’Agostino:

    «Il Padre ama il Figlio, ma lo ama come il Padre ama il Figlio, e non come il padrone ama il servo. Lo ama come Figlio unigenito, non come Figlio adottivo. Per questo, gli ha dato tutto in mano. Cosa vuol dire tutto? Vuol dire che il Figlio può quanto il Padre... Essendosi dunque degnato di mandare il Figlio, non si pensi che sia stato mandato uno inferiore al Padre; mandando il Figlio, il Padre ci ha mandato un altro sé stesso» (Agostino, In Johannem 14,11: PL 35, 1509).

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Caro Bruno,
      quando Gesù parla dell’amore che egli ha per il Padre e dell’amore che il Padre ha per lui, non dobbiamo pensare che il Figlio ami in quanto Figlio e il Padre ami in quanto Padre, perché il Figlio, in quanto Figlio, è relazione di figliolanza nei confronti del Padre e il Padre, in quanto Padre, è relazione di paternità nei confronti del Figlio.
      Quanto alla natura divina, che è una singolare sostanza spirituale, come dice il Concilio Vaticano I (Denz. 3001), possiamo ricordare che Dio è una Persona in senso metafisico e quindi intende ed ama.
      In base a ciò dobbiamo dire che Dio ama Se Stesso. Questo amore divino è identico nelle Tre Persone divine. Quindi noi non possiamo utilizzare l’atto d’amore della natura divina per rappresentare l’amore tra il Padre e il Figlio. Per questo, per rappresentare questo legame d’amore occorre citare lo Spirito Santo.
      Per questo l’amore del quale parla Cristo, amore che proviene dal Figlio e dal Padre, non è un atto delle Persone distinto dalle stesse Persone, come avviene in noi, ma è lo stesso Spirito Santo, che ha origine dal Padre e dal Figlio.
      Inoltre dobbiamo dire che Gesù, quando parla dell’amore del Figlio per il Padre, si riferisce anche alla sua umanità, per cui qui l’amore è atto della sua umanità. Invece l’amore col quale il Padre ama il Figlio è lo Spirito Santo.

      Elimina

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.