Il sacrificio espiatorio - Seconda Parte (2/3)

 Il sacrificio espiatorio

Seconda Parte (2/3) 

La concezione rahneriana della morte

Nel suo libro Sulla teologia della morte[1] Rahner definisce la morte in modo chiaramente dialettico come momento della massima passività e della massima attività: nel momento in cui sembriamo sconfitti, vinciamo: nel momento in cui tutto è perduto, tutto è guadagnato; nel momento della massima dipendenza, ecco il trionfo della libertà; nel momento, come dice Hegel, della «massima devastazione», tutto è conquistato e recuperato.

Dice Rahner:

«La morte non può essere soltanto un incidente che viene accettato passivamente (sebbene sia evidentemente anche questo), un evento biologico di fronte al quale l’uomo come persona si trova inerme ed estraneo, ma è pure da intendere come atto dell’uomo dall’interno e, beninteso,  proprio la morte stessa, non soltanto una presa di posizione dell’uomo nei suoi confronti, che rimanga fuori di essa» (come potrebbe essere il dare un valore espiativo alla morte).

«Così come l’uomo è spirito e materia, libertà e necessità, persona e natura, anche la sua morte deve essere caratterizzata da questa dialettica» - si noti bene la parola - «ontologico-reale, che accompagna l’essenza più intima dell’uomo, vale a dire, se la totalità dell’uomo viene in certo qual modo ad una conclusione di quella temporalità che è caratteristica per la  vita dell’uomo e viene finita appunto nella morte, questa fine deve allora interessare l’uomo nella sua realtà totale, quindi anche la sua anima. Naturalmente non nel senso che essa cessi di essere, ma nel senso suaccennato che nella morte essa» (=la totalità dell’uomo) «raggiunge il compimento della sua personale autogenerazione e questo non soltanto attraverso un passivo subire un incidente derivante dalla sua vita biologica, ma attraverso il proprio atto personale.

La morte deve essere dunque queste due cose:» prima, «il fine dell’uomo come persona spirituale è attivo compimento dall’interno, un attivo portarsi-a-compimento, generazione crescente e comprovante il risultato della vita e», seconda, «totale prendersi-in-possesso della persona, è un aver-realizzato-se-stessi e pienezza della realtà personale attuata liberamente»[2].

È evidente come qui Rahner carica il significato della morte di una valenza superiore, completiva e perfettiva, che assolutamente di per sé non le appartiene, essendo di per sé la morte nient’altro che la conseguenza del dissociarsi dell’anima dal corpo, che l’anima cessa di animare. Per cui, mentre l’anima sopravvive, il corpo si dissolve nel materiale che lo componeva.

E invece Rahner presenta surrettiziamente, come filosofico quel significato completivo della morte, che invece di fatto deriva dal cristianesimo e solo dal cristianesimo, un significato di fede che non si può assolutamente ricavare da una semplice analisi filosofica del morire come tale.

Solo che qui Rahner non intende parlare del significato cristiano della morte, ma semplicemente della morte. È evidente allora come egli, con quel metodo gnostico che è già presente in Hegel e in Heidegger, ruba alla rivelazione cristiana il significato della morte e ne fa una categoria semplicemente dell’umano.

Tutto quello che Rahner dice sopra ha certamente una risonanza cristiana, giacchè la stessa liturgia ci dice che «Cristo morendo ha sconfitto la morte»; eppure, se osserviamo con attenzione, ci accorgeremo che qui Rahner non sta parlando della morte di Cristo e della nostra morte in Lui, ma sta parlando della morte come tale, la quale non è ancora per ciò stesso la morte cristiana.

Infatti il morire cristiano non è il semplice morire ut sic. Anche il peccatore impenitente muore, ma il suo morire è ben diverso dal morire del giusto e assai differenti sono le conseguenze. Dunque, nel morire cristiano, nella morte di Cristo c’è qualcosa in più che non è contenuto nel semplice morire fisico, ma è un qualcosa che ci è rivelato nella fede, ed è il valore espiativo del morire, ossia il morire in sconto dei nostri peccati, fondandoci sulla morte di Cristo, morto per la remissione dei peccati.

È questa la morte che dà la vita, ma per il cristiano non la dà in quanto morte. La morte produce solo la morte, ma, in quanto è la morte di quell’uomo, il quale può espiare efficacemente, perché è anche Dio, il quale solo in quanto tale può dare efficacia salvifica all’espiazione; dunque un uomo, Cristo, il quale, in quanto Dio e sempre in quanto Dio, può far risorgere l’uomo dalla morte e renderlo partecipe di quella vita eterna che Dio possiede per essenza.

Ora, questa intenzione espiatrice è proprio quella che Rahner nega, sostenendo che per avere la vita eterna, basta morire e voler morire, perchè la morte già di per sé ottiene la vita. È quello che Hegel chiama il «potere immane del negativo»[3] o il fatto che l’«accidentale guadagni il sostanziale»[4] .

Ne viene allora che Rahner, nello spiegare la croce di Cristo, evacua la croce di Cristo; proprio lui che in tante occasioni esalta il mistero anche fino all’eccesso, qui, dove dovrebbe mostrare di rispettarlo, lo sostituisce con una mentalità puramente dialettica ispirata ad Hegel con la mediazione di Heidegger.

Allora per Rahner la croce espiatrice di Cristo ai fini della salvezza e della conquista della vita è superflua, giacchè la vita proviene dalla morte stessa. Non occorre la vita, ma basta la morte a garantire la vita. Secondo lo schema hegeliano, è il negativo stesso, che negando se stesso, ristabilisce il positivo. La cristologia di Rahner è una cristologia che fa a meno della croce di Cristo, perchè per ottenere il superamento della morte basta la dialettica hegeliana.

Così Rahner rifiuta il dato rivelato dell’espiazione considerandolo un mito primitivo e superato, per spiegare il dogma della redenzione non in base alla morte di Cristo, ma semplicemente in base alla morte come tale, che egli intende peraltro hegelianamente come principio della vita, quindi in modo assurdo e sbagliato.

Rahner così non capisce che per comprendere il significato della morte di Cristo non basta una pura e semplice riflessione filosofica sul significato della morte, oltre a tutto frainteso in senso hegeliano, ma occorre capire il senso che Cristo stesso ha dato alla sua morte nell’interpretazione del dogma ecclesiale, in particolare quello tridentino.

Succede così che tutta la misteriosa e sublime vicenda di giustizia e di misericordia della nostra redenzione, privata del suo aspetto proprio, così come risulta dalle parole e dalla passione di Cristo, nonchè dall’esplicitazione proveniente dal Concilio di Trento, si risolve in un meccanismo dialettico e peraltro della peggior specie, giacchè fosse ancora la dialettica anselmiana, che salvaguarda il nostro atto di fede, mentre invece la dialettica hegeliana toglie a Dio la libertà del volere e riduce l’azione divina alla conclusione di un sillogismo, del quale poi Hegel vorrebbe mostrarci la necessità.

Rahner ha un bel parlare della libertà divina e della nostra nei confronti della morte, ma nel momento in cui per lui la vita è posta dalla morte come tale, è chiaro che per lui non occorre mettere la morte in relazione con alcuna volontà umana o divina che sia, ma basta la morte stessa, come «definitività della libertà» nuova dea della teologia rahneriana, come l’Odino della mitologia germanica, ad assicurare la vita. Una vita peraltro che non è senza morte, perchè vita e morte si richiamano a vicenda, come è richiesto dalla dialettica hegeliana: la vita nella morte e la morte nella vita. La morte non è esclusa dal divino, ma è un ingrediente della stessa divinità. Si ammette sì il potere divino sulla morte, ma nel contempo si dà alla morte un potere divino.  C’è qui sottinteso un duplice principio metafisico sbagliato, per cui non è il bene che toglie il male, ma è il male che toglie se stesso diventando bene e che il male è necessario al bene per essere bene.

Ora, sull’importantissimo argomento del valore espiativo della morte di Cristo e per conseguenza del valore espiativo del sacrificio della Messa e in generale della sofferenza, Rahner ha una posizione che contrasta con l’insegnamento della fede cattolica, avanzando l’idea che l’attribuire alla morte di Cristo un valore espiativo risponderebbe ad una vecchia concezione del suo sacrificio, non più attuale e propone come alternativa delle idee morbose del tutto inaccettabili, che egli riprende da Heidegger, influenzato a sua volta da Hegel, il quale a mio modo di vedere formalizza filosoficamente la concezione della morte che troviamo nell’antica mitologia pagana tedesca.

La via rahneriana per spiegare la Redenzione, sembra infatti avere un referente o sottinteso pagano nell’antica mitologia germanica della divinizzazione ed esaltazione della morte, non intesa come irrimediabile distruzione, ma, diremmo oggi con Hegel, in modo «dialettico», ossia come morte che produce la vita, il che comporta però per converso una vita che si protende alla morte ed aspira alla morte. Un «essere-per-la morte», verrebbe fatto di dire con Heidegger. 

La stessa vita divina è qui concepita non come pace, perfezione, bellezza e armonia, caratteristica della divinità greco-romana. ma come sproporzione, scontro, conflitto, tormento e angoscia. La cusaniana coincidentia oppositorum suggerisce forse l’idea di un Dio pacifico e sereno? Ricordiamo l’inquietudine religiosa luterana. Böhme, mistico luterano del sec. XVII, parlerà del divino come «tormento».

Ricordiamo lo Sturm und Drang del romanticismo tedesco. Il bisogno di armonia di Hölderlin e di Goethe non trova pace nel mondo greco. Nietzsche andrà a pescare nella religione greca, non il solare, limpido e composto Apollo, ma il sotterraneo, oscuro, sensuale torbido Dioniso, probabile infiltrazione orientale nella religione romana, giustamente malvisto dalle autorità come suscitatore di trasgressione, di eccesso, di violenza e di disordine.

La morte di Cristo secondo Rahner

Leggendo questo brano di Rahner tratto dal Corso fondamentale sulla fede il Lettore potrà verificare la fondatezza della critica che faccio a Rahner circa la sua concezione del significato della morte di Cristo.

«Se diciamo che il “sacrificio” di Cristo va inteso come libero atto di obbedienza, che Dio mediante la sua libera iniziativa attraverso la quale rende possibile questo atto di obbedienza dà al mondo la possibilità di soddisfare alla giusta santità divina e che la grazia donata per amore di Cristo è proprio la condizione per redimere se stessi afferrando liberamente la salvezza di Dio, abbiamo certamente detto delle cose giuste, ma allo stesso tempo abbiamo non solo chiarito, bensì anche criticato l’idea della vittima espiatrice.

… Sotto il profilo storico non è ineccepibilmente stabilito se il Gesù prepasquale abbia già Lui stesso interpretato la sua morte (a partire dal Servo di Dio, presente nel Deuteroisaia, che soffre in espiazione e a partire dal giusto, presente nella tarda teologia giudaica, che soffre ed espia senza colpa) come sacrificio espiatorio; né oltre a ciò è ancora chiaro che cosa debba esattamente significare questo[5].

Una teologia della morte può collegare più strettamente l’evento della morte di Gesù con la struttura fondamentale dell’esistenza umana. La morte è l’azione unica, che domina l’intera vita, in cui l’uomo in quanto essere libero dispone di se stesso nella sua totalità e precisamente in maniera tale che questo disporre è (deve essere) l’accettazione del venir totalmente disposto nell’impotenza radicale che si manifesta e viene subìta nella morte.

Ora, se la libera e pronta accettazione dell’impotenza radicale da parte dell’essere libero che dispone e vuole disporre di se stesso non dev’essere quell’accettazione dell’assurdo che potrebbe poi, con altrettanto buon diritto, venir rifiutata protestando, allora questa accettazione implica nell’uomo – che nel suo profondo non dice di sì a norme o idee astratte – l’aspettativa presaga o il sì a una tale morte (già esistente o sperata come futura), nella quale venga conciliata la dialettica – che in noi è costante – di azione e passione impotente, che ha luogo nella morte. Ma questo succede solo se questa dialettica reale viene “superata” mediante il fatto che essa è la realtà di colui stesso che è il fondamento ultimo di tale duplicità»[6].

Osserviamo, anche in base a quanto ho citato da Teologia della morte, che  il concetto rahneriano della morte qui esposto, soprattutto la morte come «atto dell’uomo», che nella morte la totalità dell’uomo «raggiunge il compimento della sua personale autogenerazione» e che la morte è un «attivo portarsi-a-compimento, generazione crescente e comprovante il risultato della vita e totale prendersi-in-possesso della persona, è un aver-realizzato-se-stessi e una tensione al compimento»[7], queste affermazioni sono totalmente sbagliate.

La morte non è affatto un atto, una tensione al compimento, un’autogenerazione, una piena autorealizzazione, un totale prendersi in possesso, una tensione al compimento. Queste sono pure e semplici fantasie, sono affermazioni deliranti, che inneggiano a una specie di idolatria della morte, a un morboso culto della morte, ad un’apologia del masochismo e del suicidio. Sono tuttavia in linea col concetto hegeliano ed heideggeriano della morte, come potremo verificare dai brani che citerò dei due filosofi.

Per stare aderenti alla realtà e non giocare con le idee, in una materia così seria, delicata ed importante per la nostra esistenza e il senso della nostra vita, diciamo intanto che la morte non è per nulla un agire, ma un patire; non è un’azione, ma una passione. Il morire non ha nulla a che vedere con non si sa quale «compimento» dell’agire volontario.

Ben lungi dall’essere il «momento definitivo della libertà», la morte è la conclusione finale di un lento ma inesorabile processo di decadenza, devitalizzazione, disgregazione, disorganizzazione e, nonché di corruzione, di accentuazione di difetti, antinomie, sproporzioni[8] e squilibri già innati al momento stesso del nascere e vorremmo dire dell’essere concepito del soggetto: i segni delle conseguenze del peccato originale, tendenze antivitali che permangono per tutta la vita del soggetto e si rafforzano nel periodo dell’invecchiamento, fino ad essere così insopportabili per l’anima, la quale, trovatasi incapace di vitalizzare ulteriormente il corpo, lo abbandona. Questo è il momento della morte. Altro che perfezionamento e vertice della libertà!

Una morte, certo, può essere voluta e qui abbiamo la possibilità del sacrificio o del martirio da una parte o del suicidio o del masochismo dall’altra, a seconda che vogliamo o non vogliamo ordinare la nostra vita a Dio, al nostro bene e al bene del prossimo.

Ma esiste anche la morte non voluta, imprevista e inaspettata. E qui la volontà non c’entra nulla. Tutto sta a vedere se siamo pronti a morire e a presentarci davanti a Dio.  Ed esiste anche la morte odiata e rifiutata e qui non c’è nessun compimento o perfezionamento, ma solo fallimento e disperazione.

C’è chi si ribella alla morte e non l’accetta assolutamente. C’è chi non sopporta la vita o non sa apprezzarla, non sopporta l’onta, la sconfitta, il disonore, la schiavitù, l’insuccesso, la delusione, o la sofferenza e si suicida. C’è chi si uccide semplicemente per affermare la propria libertà. C’è chi ha un gusto morboso per la morte. Ed è normale che la natura istintivamente abbia orrore o paura della morte. C’è chi stoltamente trascura la propria salute mettendosi a rischio di morire, o dando la stessa importanza al vivere come al morire; chi non cura di mantenersi dignitosamente in vita abbandonandosi alla dissolutezza, che gli rovina la salute e lo conduce alla morte.

Ma c’è anche chi si consuma e non bada a fatiche per il bene del prossimo, mettendo a rischio a volte la sua stessa vita. C’è chi accetta la morte pur di non andare contro la propria coscienza, chi sacrifica la propria vita per proteggere o salvare gli altri o per far capire che obbedire a Dio è cosa più importante della stessa vita.

Quali abissali differenze nell’atteggiarsi davanti alla morte! Dunque il morire non va confuso con un atto della volontà. Il morire è un fatto materiale ed ontologico oggettivo, nei confronti del quale il volere può e deve prender posizione, può essere virtuoso o vizioso, salvo che non si tratti di morte improvvisa e imprevista, nei confronti della quale il soggetto non ha il tempo per decidere.

Di ciò Rahner non dice nulla. Infatti la sua definizione della morte e del suo significato, nel suo astratto e falso ottimistico fissismo, non tiene conto di questa vasta gamma di possibilità. Il solo caso preso in considerazione ed elevato irragionevolmente al rango di paradigma assoluto, è quello offerto dall’hegelismo, che interpreta in modo rigidamente meccanico e dialettico il morire, qualunque morire come polo negativo della dialettica della vita.

Ma la morte non corrisponde affatto a un culmine, a un vertice di tipo morale, ma al contrario sta al compimento della corruzione e della dissoluzione del soggetto, anche se è vero che si suppone e si auspica che essa sia preceduta da un cammino di progresso morale. Ma non sempre è il caso, data la varietà e contradditorietà delle scelte e delle evenienze umane.

Infatti, la morte come tale segna solo il momento dell’inizio della disintegrazione della persona o della frattura dell’unità della persona sotto la spinta di un duplice movimento ontologico: l’anima ha perduto la forza di dominare il corpo, perchè giunta ad una tale decrescita della sua forza animatrice, che non riesce più ad animare e governare le forze corporee divenute sempre meno governabili per il sopraggiungere di fattori o forze contrarie incompatibili con l’animazione. Questo avviene non solo per cause traumatiche o patologiche, ma anche, sebbene più lentamente, ma inesorabilmente, nel normale processo dell’invecchiamento.

Il momento della morte giunge quando l’anima, ormai incapace di governare un corpo ingovernabile, lo abbandona e lascia che sopravvengano al suo posto a guidare il materiale corporeo quelle forze chimico-fisiche che hanno concorso alla costituzione e alla vita del corpo.  Tenute fino ad allora soggette dall’anima a se stessa per l’organizzazione del soggetto, adesso riprendono la loro autonomia secondo le leggi chimico-fisiche della loro natura.

Per Rahner, inoltre, che si mostra anche qui ignaro dell’insegnamento biblico, non occorre intendere la morte come espiazione del peccato, perché la morte per lui hegelianamente ha in se stessa il principio del proprio toglimento, salvo a restare un ingrediente della vita.

La morte. per acquistar valore positivo, non ha bisogno di un intervento dall’esterno, ossia il renderla espiatrice, innocua e benefica, perché essa provvede già da sé a togliere se stessa e a generare o rigenerare la vita. E questo perchè secondo Hegel non è il bene che toglie il male, ma il male toglie se stesso e ristabilisce il bene. Ma ciò comporta un altro principio, che il bene non può esistere senza il male.

Rahner arriva a dire che non occorre togliere il peccato, perchè il peccato toglie se stesso in quanto azione «malriuscita» e quindi «fallita»[9]. Purtroppo certe imprese criminose o certe diffusioni dell’eresia riescono benissimo e certe azioni scandalose hanno un enorme successo. Ed occorre del bello e del buono, quando lo si trova, per rimediarvi, non ultima cosa l’offerta di sacrifici espiatori.

Fine Seconda Parte (2/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 1 novembre 2021 

 

Nel morire cristiano, nella morte di Cristo c’è qualcosa in più che non è contenuto nel semplice morire fisico, ma è un qualcosa che ci è rivelato nella fede, ed è il valore espiativo del morire, ossia il morire in sconto dei nostri peccati, fondandoci sulla morte di Cristo, morto per la remissione dei peccati.

È questa la morte che dà la vita, ma per il cristiano non la dà in quanto morte. La morte produce solo la morte, ma, in quanto è la morte di quell’uomo, il quale può espiare efficacemente, perché è anche Dio, il quale solo in quanto tale può dare efficacia salvifica all’espiazione; dunque un uomo, Cristo, il quale, in quanto Dio e sempre in quanto Dio, può far risorgere l’uomo dalla morte e renderlo partecipe di quella vita eterna che Dio possiede per essenza.

Rahner rifiuta il dato rivelato dell’espiazione considerandolo un mito primitivo e superato, per spiegare il dogma della redenzione non in base alla morte di Cristo, ma semplicemente in base alla morte come tale, che egli intende peraltro hegelianamente come principio della vita, quindi in modo assurdo e sbagliato.

Ben lungi dall’essere il «momento definitivo della libertà», la morte è la conclusione finale di un lento ma inesorabile processo di decadenza, sproporzioni e squilibri già innati al momento stesso del nascere e vorremmo dire dell’essere concepito del soggetto: i segni delle conseguenze del peccato originale, tendenze antivitali che permangono per tutta la vita del soggetto e si rafforzano nel periodo dell’invecchiamento, fino ad essere così insopportabili per l’anima, la quale, trovatasi incapace di vitalizzare ulteriormente il corpo, lo abbandona. Questo è il momento della morte. Altro che perfezionamento e vertice della libertà!

Immagini da Internet:
- Harry Anderson
- Franz Skarbina


[1] Morcelliana, Brescia 1972. Il titolo stesso del libro è infelice: sembra quasi che la morte sia un attributo divino. E difatti, come vedremo, è proprio a ciò che tende la sinistra concezione rahneriana della morte, sulla scorta del dialettismo hegeliano. Il titolo avrebbe potuto essere: La concezione cristiana della morte.

[2] Teologia della morte, op.cit., p.30.

[3] Fenomenologia della Spirito, op.cit., p.26.

[4] Ibid.

[5] Corso fondamentale sulla fede, Edizioni Paoline 1978, pp.364-365.

[6] Op.cit., p.382.

[7] Ibid., p.30.

[8] Per esempio la bruttezza, comportante disarmonia e sproporzione, che è proprietà di certi soggetti sin dalla nascita, benché sia compatibile con la salute e con una lunga vita, è indubbiamente è un segno e un evidente presagio di morte, perché che cosa c’è di più brutto del cadavere? Certamente è meglio una persona brutta ma buona che una persona bella ma cattiva. Santa Caterina da Siena era bruttina. Lucrezia Borgia era bellissima. Ma quello che ho detto resta. E perché la Madonna è rappresentata come donna bellissima? Ricordiamo anche che di Cristo dice il Salmo: «tu sei il più bello dei figli dell’uomo» (Sal 45,3).

[9] Cf il mio libro Karl Rahner. Il Concilio tradito, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2009, p.234.

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