Luigino alle prese col Dio di Giobbe

 Luigino alle prese col Dio di Giobbe

Su Avvenire del 29 maggio scorso è apparso un articolo di Luigino Bruni dal titolo Il Dio di Giobbe. Ferita e benedizione, che, nel tentativo maldestro di rendere accettabile, affidabile ed amabile Dio in certi suoi strani comportamenti, in realtà finisce per fargli fare una pessima figura, e renderlo odioso o quanto meno difficilmente sopportabile, per cui alla fine ci si domanda per quale motivo continuare a dargli fiducia.

L’unica cosa per cui vale la pena di sopportare un Dio di questo tipo, continua Luigino, è che ci lascia fare tutto quello che vogliamo, senza infastidirci o spaventarci con minacce di castighi, perché ha promesso in Cristo di salvarci tutti.

Per converso, Giobbe per Luigino emerge come un personaggio gigantesco, un ragionatore ineccepibile dagli argomenti decisivi ed inconfutabili, che mettono Dio alle strette senza che Egli sappia che cosa rispondere. Viceversa, Dio, dopo tutta la requisitoria di Giobbe e la sua dura protesta, colto sul vivo, appare alla fine molto irritato per questa impertinenza di Giobbe.

Dio pertanto, sul momento, reagisce con sdegno rimproverando ed accusando Giobbe di essere un gran presuntuoso, quasi a volere citare Dio in giudizio, o con la pretesa di erigersi a giudice dell’operato divino.

Giobbe, davanti a questa sfuriata, s’impressiona e si spaventa, si rende conto di avere trapassato i limiti, umilmente chiede perdono e si chiude la bocca accettando le parole di Dio, senza tuttavia capirle. Infatti Dio non gli dà spiegazioni, ma semplicemente gli ordina di fidarsi di quello che ha fatto in nome della sua divina sapienza e potenza. Giobbe, dal canto suo, con un moto di improvviso pentimento, si fida, perchè comunque capisce e si rende conto che Dio sa quello che fa e che è giusto e buono anche quando non lo sembra.

Se no che Dio sarebbe? Non è che Dio giudica ingiustamente da prepotente, ma semplicemente che noi, con la nostra limitata ragione, non possiamo scandagliare le ragioni profonde ed ultime dei suoi voleri, che comunque, almeno alla fine, appaiono sempre benèfici e ancor più benèfici di quanto ci saremmo attesi all’inizio.

Davanti alla sottomissione di Giobbe Dio rimane soddisfatto ed anzi più che soddisfatto per questo atto di umiltà fiducioso e sincero di Giobbe e lo premia ponendolo ad un livello straordinario di benessere molto superiore a quello già tanto alto del precedente. Ma Luigino a questo punto, con un enorme capitombolo, mostra di aver capito ben poco l’esito finale del confronto di Giobbe con Dio, che invece dà la chiave di volta per capire tutto il senso teologico, parenetico ed educativo dell’avventura di Giobbe con Dio.

Secondo Luigino, infatti, alla fine Giobbe, conscio di aver vinto contro Dio, ha pietà di un Dio così sprovveduto, dittatore meschino ed ipocrita, ma se lo tiene lo stesso, anzi lo benedice perché, tutto sommato gli fa comodo, perché non è un Dio come gli altri, che chiedono conto dell’osservanza o non osservanza delle leggi da loro imposte.

È stupefacente la disinvoltura di Luigino nell’inventare il suo Dio frustrato e frescone, in contrasto totale col Dio biblico e proprio di tutte le religioni, che incute rispetto, fiducia e timore, premiando i buoni e castigando i malvagi.

E ancora più stupefacente  è la motivazione che Luigino cerca di fornire per dare una parvenza di legittimità al suo fraintendimento della Parola di Dio: il Dio remuneratore starebbe alla base nientedimeno che del moderno principio della meritocrazia, per il quale nelle società capitalistico-liberali vanno avanti i più ricchi, potenti, fortunati e colti, in barba al principio dell’uguaglianza, che deve assicurare a tutti i cittadini pari opportunità di salire ai massimi gradi della scala sociale indipendentemente dalla nascita, dalle doti personali, dalla cultura, dal censo, dagli appoggi politici, dalla fortuna  e cose del genere.

Il che però naturalmente non deve voler dire - obiettiamo a Luigino, che pare dimenticarsene -, ignorare il valore del reale merito morale e civile di ciascuno, quando è fondato e motivato, come fattore ed effetto indispensabile di giustizia sociale e progresso umano, morale e civile della società democratica.

Giobbe, nella visione di Luigino, fa la figura dell’uomo superiore e magnanimo, pronto a perdonare Dio, fa la figura dell’uomo giusto, che, esigendo un Dio compassionevole nei confronti di chi soffre, si trova invece davanti a un Dio geloso del suo potere, prepotente e senza pietà, che lo fa soffrire da innocente senza rispondere alle sue domande e alle sue proteste.

La conclusione alla quale giunge Luigino è che comunque Dio è misericordioso. Ma in che senso? Non nel senso che, nella sua onnipotenza, ci solleva dalla nostra sofferenza, perché è evidente che questo non lo fa, ma nel senso che soffre con noi senza sapere perché esiste la sofferenza e come rimediarvi e quindi senza essere un grado di toglierla. Noi dobbiamo accontentarci di un Dio siffatto, perché di più di tanto Dio non può fare.

Inoltre la misericordia divina in Luigino suppone non un Dio che stabilisce per noi la legge del bene e del male, per cui noi, in base a questa legge, dobbiamo render conto a Lui delle nostre opere, onde ricevere il premio per le buone e il castigo per le cattive.

Noi non abbiamo meriti nel nostro operare. Il crederlo favorirebbe la meritocrazia.  Dobbiamo lavorare e basta. Non è giusto che chi lavora di più e rende di più sia considerato più meritevole. No. Merita come gli altri, se no non ci sarebbe l’uguaglianza.

D’altra parte, secondo Luigino, siamo noi che liberamente decidiamo di ciò che è bene e ciò che è male e ci comportiamo di conseguenza. Dio semplicemente prende atto di ciò che facciamo e approva tutto, perchè il presupposto è che in fondo tutti, anche i malvagi, sono in buona fede e quindi tutti in fondo sono buoni e si salvano.

Anche coloro che maltrattano od opprimono il prossimo, al massimo possono essere soggetti alla giustizia umana, ma Dio comunque ha misericordia anche di loro e non punisce nessuno, perché non è un Dio remuneratore o, come dice Luigino, «commercialista». Nessun prezzo da pagare per salvarci. La salvezza è gratuita. Si viaggia a scrocco.

Semmai, secondo Luigino, dobbiamo essere noi uomini ad adoperarci a rimediare ai difetti di Dio, a sopperire alla sua debolezza ed impotenza, a colmare le sue insufficienze, a praticare la giustizia laddove Egli lascia impuniti i malvagi e lascia soffrire gli innocenti.

Sta a noi soccorrere i poveri, consolare gli afflitti, liberare gli oppressi. Ma potremmo anche chiederci: che ce ne facciamo di un Dio così? È veramente Dio? o forse Dio siamo noi? Che cosa si può ottenere da un Dio così? Se Dio non ci può aiutare, se è un Dio che non fa il suo mestiere, tanto vale che ci arrangiamo da soli, vada come vada.

Un Dio il cui operato dev’essere corretto da noi? Come fa un Dio così a restare Dio? Evidentemente Luigino non ha il concetto giusto di Dio. Lo concepisce in modo magico o pagano, simile a Pachamama, Giunone, Cerere o Bacco, come fosse un dio che non opera su di noi, ma sul quale viceversa siamo noi ad operare per modificarlo o migliorarne la condotta e correggerlo dai difetti, affinché si accordi con le nostre esigenze per quanto gli è possibile.

La fiducia che possiamo riporre in questo Dio è simile a quella che un droghiere può riporre nel suo garzone di bottega, che ogni tanto gli combina qualche guaio; lo fa arrabbiare, ma, tutto sommato, gli è di utilità. Certo, non gli è di piena soddisfazione. Lo deve sopportare così com’è. Tuttavia, se lo sgrida richiamandolo al suo dovere, alla fine obbedisce.

Due cose stupiscono nella storia di Giobbe. La prima. Stupisce la sua insistenza nel proclamare la sua innocenza. Non pare considerarsi per nulla un peccatore come tutti i figli di Adamo. I suoi amici non hanno tutti i torti a ricordargli che è un peccatore. Ma egli non vuole ascoltar ragione. Sarà solo Cristo il perfetto innocente. Ma chi poteva allora pensare ad un uomo così?

Giobbe sembra ignorare completamente le conseguenze del peccato originale. Non sa un po’di farisaismo? La seconda: non aveva mai letto il c.53 di Isaia, la profezia del Servo di Dio, che offre la propria vita in riscatto dei peccatori? Giobbe non accenna assolutamente all’eventualità del sacrificio di un innocente per ottenere il perdono divino. Eppure esisteva il principio che la vittima dev’essere pura.

E d’altra parte, meraviglia che anche Dio, nel rispondergli, non gli ricorda queste due cose, anche se lo rimprovera per la sua presunzione. È evidente che non c’era ancora chiarezza di idee su queste cose. Non si era ancora chiarita l’idea del Messia sofferente. Tuttavia Giobbe, nel rimettersi con fiducia al giudizio divino, dà spazio a questi chiarimenti che saranno rivelati alla venuta di Cristo.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 30 maggio 2021


Due cose stupiscono nella storia di Giobbe. La prima. Stupisce la sua insistenza nel proclamare la sua innocenza.

Giobbe sembra ignorare completamente le conseguenze del peccato originale. 

La seconda: non aveva mai letto il c.53 di Isaia, la profezia del Servo di Dio, che offre la propria vita in riscatto dei peccatori? 

Eppure esisteva il principio che la vittima dev’essere pura.

Immagine da internet

2 commenti:

  1. Carissimo Padre Cavalcoli,

    Grazie per questa sua mise-au-point. Spiace molto dirlo, ma (absit iniuria verbis) le varie, variegate e variopinte declinazioni del buonismo, da lei giustamente attaccato e denunziato, pervadono gli spiriti di (quasi) tutti i figli della Chiesa. E' divenuto quasi impossibile sentire una predica che non ne sia intrisa, o in cui banalmente compaiano termini come "divina giustizia", "castigo", "giudizio". Quel che più mi stupisce, personalmente, è come spesso, per menare acqua al mulino buonista, si ricorra all'esempio di santi e mistici che vengono opportunamente purgati di ogni asperità per omologarli al paradigma del buonismo. Si prenda per esempio una santa Faustina, che ci ha fatto dono di una descrizione ben dettagliata e tremenda dell'Inferno e delle anime che sventuratamente vi sono finite, e che viene citata esclusivamente come apostola della Misericordia, quasi che quest'ultima si opponesse alla giustizia. Lo stesso dicasi di altri grandi santi come Pio da Pietrelcina, che, in riferimento al Signore, ebbe a parlare dei "rigori della Sua giustizia". Insomma caro Padre, grazie di fare chiarezza su questi temi e che la Madonna la accompagni.

    Pietro

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    1. Caro Pietro,
      la ringrazio per la solidarietà con la quale aderisce alle mie constatazioni, che si associano a quelle sempre più numerose di un’area cattolica, la quale ormai da tempo è infastidita da una predicazione buonista, che nulla ha a che vedere con la vera bontà e che invece purtroppo lascia spazio ai prepotenti, i quali si convincono di poter continuare impunemente a commettere le loro malefatte.
      Così, una malintesa misericordia finisce per rovesciarsi nel suo contrario consentendo l’ingiustizia e la crudeltà, le quali credono di averla vinta, nella convinzione che né dal cielo né dalla terra possa essere fatta giustizia.

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