Può esistere
una liturgia amazzonica?
Una buona
intenzione del Sinodo
Il documento finale del Sinodo sull’Amazzonia,
riferendosi ai riti religiosi indigeni,
in vista della elaborazione di un rito cattolico amazzonico, osserva che
la vita delle comunità amazzoniche «si riflette nelle credenze e nei riti
sull’azione degli spiriti della divinità, chiamati in innumerevoli modi, con e
nel territorio, con e in relazione alla natura» (n. 14).
L’intenzione del Sinodo di elaborare una
liturgia cattolica «inculturata», una liturgia «dal volto amazzonico», adatta
ai cattolici amazzonici è indubbiamente lodevole e necessaria; ma a tal fine occorre
un prudente lavoro di verifica, vaglio e
discernimento, alla luce del Vangelo e del magistero della Chiesa, di quelle
forme ed espressioni della ritualità e della cultura religiose indigene, che
possono essere utilizzate per la suddetta elaborazione. A tal fine, occorre però
dare una precisa risposta alle seguenti domande.
Quali sono queste credenze e questi riti? Chi
sono e che cosa sono questi «spiriti della divinità»? Dio possiede degli spiriti?
Sono spiriti che emanano da Dio? Sono assimilabili ai sette doni dello Spirito Santo?
Sono soggetti personali, sono creature o sono dèi? Sono angeli? Sono anime dei
Santi? Sono assimilabili ai «sette spiriti», dei quali parla l’Apocalisse? (Ap
1,4). Sono gli spiriti pervasi dalla sapienza? (Sap 7,23). Sono gli spiriti dei
defunti? Sono gli spiriti evocati dai negromanti? (Dt 18,11; Is 8,19). Sono gli
spiriti degli animali, secondo la credenza degli sciamani? Di quale divinità si
parla? Qual è la relazione di questi spiriti con la natura?
E la natura considerata come? Come creatura,
segno e prova dell’esistenza di Dio, governata da Dio per il bene dell’uomo,
come madre, ma anche matrigna, amorevole ma anche ostile, dolce ma anche
terribile, come giardino ma anche come deserto, tenera ma anche severa, come
ambiente naturale dell’uomo, come mondo messo da Dio a disposizione dell’uomo,
da utilizzare con sobrietà per il soddisfacimento dei i suoi bisogni materiali,
come libera dai poteri maligni, come abitazione degli angeli e dei santi,
destinata a rinnovarsi nel mondo futuro della resurrezione?
Oppure la natura rappresentata dalla
statuetta di Pachamama, la Madre Terra, come insieme unitario ed organico degli
dèi, degli spiriti, degli uomini, degli animali, delle piante, dei fiumi, dei
laghi, dei mari e delle montagne? Come Uno-Tutto, come totalità eterna,
vivente, diveniente, infinita, assoluta e divina? Senza un Dio al di sopra di
lei, che l’abbia creata e la governi, ma Dio essa stessa, sufficiente a se stessa?
È evidente che in questi argomenti
delicatissimi ed oscuri non si può restare nel vago ed occorre assolutamente evitare
la faciloneria e l’approssimazione. Occorre invece capire quanto,
nell’affrontare questi argomenti, sia necessario raccogliere un’adeguata documentazione
storica e fattuale, fare un’attenta disamina ed un’esatta interpretazione di
tutti questi elementi, sulla base di una
specifica preparazione teologico-liturgica e di un’approfondita conoscenza
degli usi, delle pratiche, delle norme, delle credenze, delle rappresentazioni,
dei simboli, delle tradizioni, dei canti, delle danze, dei gusti, dei miti,
delle formule, dei riti e delle idee delle popolazioni locali, prima di
procedere ad una loro utilizzazione per l’elaborazione di una liturgia
amazzonica.
Chi
l’avrebbe mai pensato?
Sononchè è avvenuto qualcosa di sconcertante.
La controversia attorno alle statuette di Pachamama ha portato alla luce un
fatto tragico, del quale ancora pochi anni fa non appariva riscontro o non si
aveva sospetto, e che si aggiunge ai già tanti mali che affliggono la Chiesa:
un impressionante riapparire
dell’idolatria all’interno della Chiesa, fenomeno che, dopo aver messo alla
prova la Chiesa nei primi secoli e aver dato occasione alla testimonianza di
tanti martiri, che appunto non hanno voluto piegarsi davanti agli idoli,
sembrava ormai morto per sempre. Tuttavia, dati certi precedenti di decadenza
teologica e liturgica in atto da decenni, si poteva immaginare che prima o poi
sarebbe scoppiato anche questo bubbone.
Infatti, ecco riapparire il suddetto fenomeno
e proprio là dove meno ce lo saremmo aspettato, con l’ormai famosa cerimonia
nei giardini vaticani, alla quale ha fatto seguito la presenza di Pachamama in
San Pietro e nella chiesa romana di S.Maria in Traspontina.
La cosa sconvolgente è che il Papa stesso,
con somma imprudenza o biasimevole leggerezza, si é lasciato coinvolgere e sedurre
da questo infausto ed abominevole rigurgito di paganesimo, e dopo l’episodio
significativo delle statuette gettate nel Tevere e ripescate (sempre che siano
le stesse), ha avuto parole di commento ai fatti, con le quali, con incredibile
sprovvedutezza, ha mostrato di aver equivocato completamente su quanto era
successo, venendo in pratica a sostenere la causa di Pachamama contro coloro –
e fra costoro c’erano illustri vescovi e cardinali – che avevano denunciato la profanazione
dei luoghi sacri a causa della presenza in essi dell’idolo e condannando vibratamente
il ritorno dell’idolatria.
Ecco dunque il Papa uscire in frasi del tutto
fuori luogo, come quando, dopo il fatto del Tevere, ha chiesto «perdono» agli
adoratori di Pachamama, anziché chiedere perdono ai fedeli scandalizzati per la
presenza dell’idolo in una chiesa. Oppure quando ha detto che la statuetta era
presente in chiesa «senza intenzioni idolatriche», quando si sa che in realtà in
Amazzonia è oggetto da secoli di culto idolatrico. Che cosa ci faceva la
statuetta in chiesa, luogo deputato al culto dell’unico vero Dio?
Ma il segno spaventoso di questo ritorno di idolatria
è stato il fatto che pochissime, benchè molto significative ed autorevoli, sono
state le voci di vescovi e cardinali a levarsi contro il sacrilegio e la profanazione,
chiudendosi invece la maggioranza in un riprovevole silenzio, che non si sa se giudicare
connivenza con l’empietà o meschino opportunismo e misera piaggeria di chi non vuol
perdere il favore di un Papa che dà scandalo alla Chiesa.
Pachamama è
un dea. Mons. Kraütler è un impostore
Mons. Kräutler, grande organizzatore del Sinodo
sull’Amazzonia, ha recentemente sostenuto che Pachamama non è una dea, ma il simbolo
della fertilità della terra. Per smentirlo, basterebbe la semplice considerazione
che per la religione indigena, Pachamama non
è una creatura di Dio, ma, da come è trattata dai suoi devoti, è chiaro che
per loro è una persona assoluta, esistente
da sè o autoesistente. Comunque possiamo verificare la falsità dell’affermazione
di Mons. Kräutler, attingendo alle seguenti informazioni fornite da Wikipedia.
«1. Il nome
Pachamama (anche Pacha Mama o Mama Pacha) significa in lingua quechua
Madre terra. Si tratta di una divinità venerata dagli Inca
e da altri popoli abitanti l'altipiano andino, quali gli Aymara e i Quechua.
È la dea della terra,
dell'agricoltura
e della fertilità.
2. Nascita del culto
I motivi che spinsero a venerare Pachamama oltre a Inti (Dio Sole) sembra siano i seguenti:
· la mitologia incaica prevede una
dualità: Inti divinità maschile e alta doveva avere una controparte femminile e
bassa;
· il culto di Inti era in realtà riservato ad
un'elite, mentre il culto di Pachamama era più legato al mondo rurale e,
quindi, al popolo.
3. Il culto
Nel mese di agosto le popolazioni andine, tuttora praticano il
culto del ringraziamento alla Pacha-mama, restituendo alla madre terra il
nutrimento che essa fornisce loro. Viene scavato un fosso, un'enorme buca nella
quale, tutti gli offerenti partecipanti al rito ripongono gli alimenti, il cibo
e le pietanze, che vengono appositamente cucinate. Ognuno dei partecipanti
versa una porzione di cibo, ringraziando la madre terra. Al termine la buca
viene completamente ricoperta, e ogni partecipante depone una pietra. Al
termine si forma una vera e propria montagnola di sassi denominata Apachete.
Solitamente si sceglie sempre il luogo più in alto per far sì che sia il più possibile
vicino al Sole (Inti).
Alla Pachamama vengono, a tutt'oggi, fatte offerte (ch'alla
o challa) perché il terreno possa essere maggiormente fertile e per
propiziare il raccolto.
L'offerta consiste nel sacrificio di un feto di lama spargendo il suo sangue nel
terreno. Altre volte l'offerta alla Pachamama può consistere in alcune foglie
di coca.
Il culto era presieduto da un sacerdote, detto Amauta. Ai giorni
nostri, nonostante il culto sia tuttora praticato, non esiste più questa figura
e il termine Amauta è caduto in disuso.
Nel culto moderno della Pachamama l'Amauta è sostituito da un Paqo
(saggio) colui che insegna e comunica la spiritualità alle nuove generazioni.
L'eredità spirituale del Paqo avviene in tre modi:
·
trasmissione orale da maestro a discepolo,
·
trasmissione della conoscenza della medicina
tradizionale;
· il futuro Paqo (scelto grazie a
fenomeni naturali) entra in contatto con la dea attraverso una fratellanza
spirituale, chiamata Qhapaqkanga.
4. Il mito
Pachacamac, dio del cielo, si unì a Pachamama e da questa unione nacquero due gemelli, un maschio e una femmina. Come in altri miti andini, il padre morì oppure, secondo altre leggende, sparì in mare o rimase prigioniero di un incantesimo in un'isola del litorale.
Pachacamac, dio del cielo, si unì a Pachamama e da questa unione nacquero due gemelli, un maschio e una femmina. Come in altri miti andini, il padre morì oppure, secondo altre leggende, sparì in mare o rimase prigioniero di un incantesimo in un'isola del litorale.
Pachamama rimase vedova e sola con i suoi figli. Sulla Terra
regnava l'oscurità. In lontananza videro una luce che seguirono salendo
montagne, attraversando lagune e combattendo contro mostri.
Infine arrivarono in una grotta conosciuta come Waconpahuin,
abitata da un uomo chiamato Wakon. Questi aveva sul fuoco una patata e
una pentola di pietra. Chiese ai due figli di Pachamama di andare a prendere
l'acqua. I due tardarono e Wakon tentò di sedurre Pachamama. Vistosi
rifiutato la uccise, divorò il suo corpo e mise i resti in una pentola.
I due gemelli tornarono e chiesero della madre. Wakon non raccontò
nulla e disse loro che sarebbe tornata a momenti, ma i giorni passavano e la
madre non tornava.
Huaychau, uccello che annunciava l'alba, ebbe
compassione dei due gemelli e raccontò cosa successe alla loro madre mettendoli
in guardia del pericolo che correvano rimanendo con Wakon. I bambini legarono i
capelli di Wakon, che nel frattempo dormiva, ad una grossa pietra e scapparono
in fretta e furia.
Incontrarono una volpe, Añas, che dopo aver chiesto loro
perché scappavano e dove stessero andando, li nascose nella sua tana. Nel
frattempo Wakon si liberò e si mise in cerca dei gemelli. Incontrò dapprima
vari animali a cui chiese se avevano visto due gemelli, ma nessuno seppe
aiutarlo. Incontrò, infine, Añas. Questa gli disse che i bambini erano in cima
ad una montagna e che avrebbe potuto, una volta in cima, imitare la voce della
madre in modo che i bambini uscissero allo scoperto.
Wakon si mise a correre affannosamente verso la cima e non si
accorse della trappola che nel frattempo l'astuta volpe Añas gli aveva teso.
Wakon cadde da un burrone e, morendo, causò un violento terremoto.
I gemelli rimasero con Añas, che li alimentava con il suo sangue.
Nauseati, chiesero se potevano andare a raccogliere qualche patata. Trovarono
un'oca (Oxalis Tuberosa, un tubero simile alla patata) assomigliante ad
una bambola. Giocarono con essa, ma si ruppe un pezzo. I bambini smisero di
giocare e si addormentarono.
Nel sonno la femmina sognò di lanciare il suo cappello in aria e
che questo rimanesse sospeso senza ricadere. La stessa cosa accadeva, nel
sogno, ai suoi vestiti. Una volta sveglia raccontò il sogno al fratello. Mentre
i bambini si domandavano il significato del sogno, videro in cielo una corda
lunghissima. Incuriositi si arrampicarono e salirono.
Alla cima della corda videro il loro padre, Pachacamac,
impietosito per le loro disavventure. Riuniti al loro padre, vennero
trasformati nel Sole (il maschio) e nella Luna (la femmina).
Per quello che riguarda Pachamama, essa rimase sempre in basso,
assumendo la forma di un imponente nevaio chiamato, anche oggi, La Viuda
(la vedova)».
Osservazioni
1. A
Pachamama vengono fatte offerte e sacrifici e richiesti favori, atteggiamento
caratteristico di culto divino.
2. Concezione
della natura come un Tutto vivente, nel quale il non-vivente si trasforma in
vivente e viceversa. Divinizzazione panteistica della natura.
3. Dio
maschio (Pachacamac, Inti, il Sole) e Dio femmina (Pachamama, la Terra). Qui
appare l’equivocità dell’espressione «Dio Padre-Madre», usata dall’Instrumentum laboris, che nulla ha a che
vedere con la famosa metafora del Dio «Madre», usata da Papa Giovanni Paolo I, che
non supponeva affatto un dio sessuato, ma, salvo l’attributo rivelato
essenziale trinitario della Paternità, intendeva affermare che Dio mostra la tenerezza di una madre, come è
già insinuato nell’Antico Testamento.
La débacle
liturgica
Non
c’è stato, in questo frangente, il senso del sacro, non c’è stato il senso religioso,
è mancato il senso della liturgia e del culto divino, non c’è stato il rispetto
di Dio, ma un’intollerabile scandalosa generalizzata indifferenza per non dire
appoggio agli idolatri proprio da parte di coloro che sono i ministri e custodi
del culto divino.
Tutto ciò denota un clima generalizzato di
grande smarrimento dottrinale e morale circa l’essenza e la dignità del culto
divino, per cui accade che, anche se si usa
la parola «Dio», o si prega «Dio» o si compiono atti liturgici, dietro ad essi,
dietro a quella parola «Dio» non c’è più il vero Dio, non c’è più un concetto
giusto e sufficiente di Dio, creatore, immutabile e trascendente, secondo la
sana ragione e la fede, non c’è più un sincero, sentito e convinto rapporto col
vero Dio, ma un formalismo esterno dietro al quale c’è il Dio del panteismo, il
Dio del modernismo, il Dio della massoneria, il Dio di Cartesio, di Kant e di
Hegel, insomma un falso Dio o quanto meno un concetto insufficiente di Dio, che
praticamente è uno idolo.
Oppure c’è la pura e semplice convenienza di
svolgere certe pratiche e certi riti che assicurano soddisfazioni e vantaggi
umani, sociali ed economici. La pratica liturgica, celebrata con sciatteria e
senza convinzione, non è più un bisogno dell’anima, ma una prassi convenzionale,
un po’ noiosa ma utile, perché assicura un certo prestigio sociale, come il
pagamento del biglietto per andare a teatro. Il centro della propria vita non è
la liturgia, ma l’attuazione delle proprie doti personali.
Si confonde il Dio che è nei cieli col dio di
questo mondo. Uno che per esempio prima di farsi sacerdote era insegnante o
negoziante o impresario, da sacerdote non assume una spiritualità sacerdotale,
ma conserva la sua mentalità secolaresca di prima, con l’aggiunta della
celebrazione della Messa e delle confessioni, perché altrimenti non dà segno di
essere sacerdote.
Occorre dunque ripristinare con urgenza il
concetto del sacerdozio e della liturgia. Il fatto per esempio che alcuni, con
spavalda ostinazione, nonostante la opposizione assoluta della Chiesa, auspichino
il sacerdozio della donna o intendano il sacerdote come un semplice operatore
sociale o capo della comunità, vuol dire che non sanno che cosa è il sacerdote.
Il Concilio Vaticano II ha uno splendido documento sulla liturgia e più volte i
Papi del postconcilio ci hanno dato saggi insegnamenti e richiami sulla liturgia.
Ma che è rimasto di tutto ciò, se oggi cardinali e vescovi restano indifferenti
allo sconcio di idoli pagani adorati nei giardini vaticani e introdotti nelle
chiese accanto al SS.Sacramento e alle sacre immagini della Madonna e dei Santi?
Siamo giunti al punto da non saper più distinguere
il culto divino dal culto degli idoli. La sceneggiata blasfema dell’ingresso
della statua di Pachamama in S.Pietro portata a spalla da prelati circondati da
altri prelati sorridenti, ci fa capire a quale assenza di senso del sacro e di ignoranza
liturgica siamo arrivati, se si confonde l’introduzione sacrilega di un idolo in
chiesa con la simpatica mostra dei
prodotti di un artigianato locale.
Liturgia e
idolatria
La questione della distinzione fra liturgia e
idolatria non è semplice e suppone una retta concezione della divinità, di ciò
che da essa possiamo attenderci e dei
nostri doveri nei sui confronti. Innanzitutto occorre una concezione giusta di
Dio, ossia monoteistica. Il monoteismo sa infatti che Dio non può che essere
uno solo. Dio infatti, per essere vero Dio come conviene a Dio, dev’essere
l’assoluto perfettissimo. Ma se accanto a lui ci fosse un altro dio, questo dio,
per distinguersi dal primo, dovrebbe avere qualità che il primo non ha, per cui
gli mancherebbe qualcosa e non sarebbe più l’assoluto, non sarebbe più Dio.
Che cosa è la liturgia cattolica? È l’azione
sacerdotale di Cristo Capo della Chiesa, che, alla destra del Padre, intercede
presso il Padre, presentando l’offerta di Se stesso in espiazione dei nostri peccati,
rinnovata in modo incruento nel sacrificio della Messa e nei sacramenti per le mani
del sacerdote col concorso del santo popolo di Dio.
La liturgia è un insieme di azioni sacre salvifiche
e santificanti culminanti nella Messa o derivanti dalla Messa. Ogni azione
sacra è esercitata da un ministro, ordinariamente il sacerdote a vantaggio
spirituale dei fedeli. Si compone di tre elementi: un fattore verbale formale (la formula
liturgica); un elemento gestuale simbolico; un fattore materiale, l’uso di
particolari materie od oggetti, che normalmente costituiscono la materia del
sacramento. Si svolge nel tempo e nello spazio secondo una successione ordinata
di parti fisse, detta «cerimonia». Il nucleo dell’azione liturgica è di
istituzione divina e perciò è universale ed immutabile. Tuttavia attorno al
nucleo inviolabile è concesso uno spazio accidentale, variabile e mutevole, di
libera creatività del ministro o del fedele, senza toccare la sostanza
dell’atto, senza commettere sacrilegio o invalidare l’atto liturgico.
La Chiesa può approvare, fissare o determinare
d’autorità certi dettagli o modalità o consentire o convalidare le forme meglio
riuscite, che meglio possono esprimere o interpretare le istanze, la cultura,
le preferenze, il sentire o i gusti di un dato ambiente o di un dato popolo, di
un dato ceto, o di una data classe sociale
in varie e mutevoli forme di celebrazione, chiamate «riti», nei vari
tempi e luoghi. L’azione con la quale la Chiesa fa questa operazione si chiama
«inculturazione» o adattamento della liturgia. Il Sinodo ha affrontato il problema
dell’inculturazione della liturgia in Amazzonia. Non è la liturgia che debba
ridursi a un fatto di cultura locale, ma è la cultura locale che deve esprimere
la liturgia.
Occorre fare una netta distinzione tra il culto divino e il culto cattolico dei Santi, a cominciare dalla Madonna. Su questo
punto purtroppo Lutero fece una gran confusione pensando che noi cattolici,
rendendo onori liturgici ai Santi, siamo degli idolatri. Idolatria sarebbe se
invece venerassimo i Santi come fossero degli dèi, offrendo loro sacrifici e richieste
come se da loro dipendesse la nostra salvezza. Se celebriamo una Messa in onore
di S.Domenico o S.Francesco, questo non significa che noi, come credeva Lutero,
offriamo un sacrificio a S.Domenico o a
S.Francesco, ma che offriamo al Padre in Cristo nello Spirito Santo il medesimo
sacrificio di Cristo in unione con S.Domenico e S.Francesco e ad imitazione
della devozione con le quali essi vivevano il mistero della Messa e fruito delle
stesse grazie che sgorgano dalla Messa per i meriti di Cristo, rendendoli pertanto
intercessori per noi in paradiso.
Se pertanto noi invochiamo la Madonna, non lo
facciamo come se ella fosse una specie di Pachamama, dalla quale chiediamo la salvezza,
ma – questo lo sanno anche i ragazzi del catechismo – in quanto Le chiediamo di
pregare per noi e di intercedere presso Dio, affinché per suo tramite riceviamo
le grazie della salvezza che provengono
da Cristo.
L’idolatria invece suppone il politeismo,
mostrando con ciò stesso di avere un concetto inadeguato e falso di Dio. Infatti
gli dèi non sono altro che la divinizzazione o assolutizzazione di alcuni eroi
o personaggi di spicco reali o leggendari, o di alcuni valori o ideali. La
sostanza dell’idolatria sta dunque in fin dei conti nell’adorazione della creatura
al posto del Creatore.
Segno anche di politeismo, almeno quello
popolare – prescindiamo da quello dotto pitagorico, neoplatonico ed ermetico peraltro
dualista ed antifemminista - è il
distinguere divinità maschili da divinità femminili, in relazione a ciò che si
ritiene conveniente al maschio o alla femmina. Si tratta della divinizzazione o
personificazione di particolari valori, in modo che ognuno degli dèi appare
specializzato in uno di questi valori e suo sostegno e promotore.
Questo concetto riappare, se vogliamo, purificato
dall’aspetto idolatrico, nel culto cattolico dei Santi, ognuno dei quali, per le
sue doti personali, appare il patrono di una particolare attività umana. Ma è chiaro
che mentre nel politeismo il divino si divide in una molteplicità di forze
disperse e sconnesse, nel monoteismo queste forze sono ordinate ed unificate
attorno a Dio, a Lui conducono e da Lui derivano.
Non basta quindi concepire un Dio uno, se poi
lo confondiamo con la creatura, quindi col mondo, con la natura, con noi stessi
o con i prodotti del nostro operare. Abbiamo di nuovo l’idolatria. Per esempio
il Dio di Hegel non può esistere senza il mondo. Per Fichte, Marx e Gentile è
l’uomo che produce o crea se stesso: l’uomo per mezzo della prassi in Fichte,
l’uomo per mezzo del lavoro in Marx; l’uomo per mezzo del pensiero in Gentile.
Dunque l’Uomo al posto di Dio. Ma questa è idolatria. Ancora: il Dio di Spinoza
s’identifica con la natura. Lo stesso vale per Bernardino Telesio, per i maghi
e gli alchimisti rinascimentali, per i kabbalisti, per Giordano Bruno, per
Schelling e per Goethe. Il culto di Pachamama rientra in questo tipo di
idolatria. E più precisamente è riconducibile agli antichi culti di Astarte e di
Cerere.
Inoltre c’è da considerare che l’idolatria,
quella almeno popolare, è connessa con la fabbricazione di un idolo, per cui la
statuetta di Pachamama, nell’intento di chi l’ha scolpita, in quanto devoto
della dea, non è da ritenere un semplice prodotto dell’artigianato locale, ma
un vero e proprio oggetto di culto.
Per questo, la preghiera dell’idolatra non sale a Dio, ma si ferma all’idolo stesso.
Per questo l’idolo scolpito o dipinto è chiamato
anche «feticcio», dal latino factitium,
che significa «artefatto» o «manufatto»; non si tratta quindi di una semplice
opera d’arte da ammirare esteticamente, ma si tratta di un mezzo di comunicazione con il dio. L’artista idolatrico non
confeziona la sua opera semplicemente per esprimere un suo gusto del bello, ma al
fine di ottenere appoggio dal dio rappresentato dal prodotto della sua arte, un
dio che, non essendo il vero ed unico Dio creatore del cielo e della terra, non
può che essere il suo antagonista, il demonio.
Come si
organizza l’idolatria
L’artista compie così un’opera di magia,
consistente nel produrre un idolo che sarà utilizzato dal mago per rendere
operante l’idolo. L’artista, in forza di un patto implicito anche se forse
inconsapevole col demonio, usa o modifica oggetti, prepara strani intrugli
simbolici, dà segnali misteriosi, dà forma ad una materia pronunciando apposite
formule rituali propiziatorie al fine di ottenere che il dio sia presente ed operante
nella statua e per mezzo della statua. Per questo l’operazione magica non trae forza dal potere di Dio, ma da
quello del demonio. Facilmente queste operazioni sono malefici diabolici,
colpiscono uomini, animali e raccolti.
È questa infatti l’operazione propria della
magia o della stregoneria[1], la quale
peraltro, pur in un’abissale differenza, ha un certa somiglianza con la confezione
del sacramento cattolico ad opera del sacerdote, ed è stata questa somiglianza che
ha ingannato Lutero spingendolo ad accusare il sacerdozio e i sacramenti di essere
riconducibili alla magia ed all’idolatria.
La statua di Pachamama può bensì
rappresentare la maternità o la comunione con la natura; ma resta il fatto che,
trattandosi di un idolo – checché ne dica Mons. Kräutler -, non si presta come
tale per un’inculturazione della liturgia cattolica nella ritualità amazzonica,
perché come idolo chiede per sé un culto divino illecito, mentre Dio non ammette
culti ad altri dèi al di fuori di Lui.
Per questo la liturgia cattolica ha potuto inculturarsi
nella religione romana soltanto espellendo tutti gli dèi, ed assumendo solo alcuni
concetti validi della religione romana, i quali, dovutamente adattati, poterono
essere utilizzati per esprimere la liturgia cattolica, come religio, pietas, sacerdos, minister, pontifex,
cultus, sacrum, ritus, ara, hostia, sacrificium, caeremonia, oratio, adoratio, officium,
oblatio, votum, propitiatio, satisfactio, expiatio, lex, prex, vaticinium, supplicatio,
iuramentum, miraculum, phanum, templum. A parte gli attributi della divinità che potevano essere applicati al
vero Dio. Ma il concetto del divinum o del divus dovette essere ricondotto dal politeismo al monoteismo. E
questa riconduzione costò ai martiri cristiani il proprio sangue. Vogliamo rinnegare
questo sacro sangue per una qualunque Pachamama?
La vera
inculturazione
Come ha fatto notare in un bell’articolo
Luisella Scrosati su La Nuova Bussola
Quotidiana del 2 novembre scorso, la vera inculturazione della liturgia
cattolica in America Latina l’ha fatta la Madonna di Guadalupe, assumendo addirittura
le fattezze del meticcio e gli abiti del luogo, senza bisogno di immondi
riferimenti idolatrici, assolutamente incompatibili non solo col
cristianesimo, ma neppure col monoteismo
e la sana ragione, la quale sa che Dio è uno solo.
E come noi Romani abbiamo saputo rinunciare
ai nostri «dèi falsi e bugiardi», così invitiamo caldamente i nostri fratelli amazzonici
a fare lo stesso con i loro dèi, senza trascurare nulla di quanto in essi può
essere recuperato, mentre noi cattolici esprimiamo tutta la nostra sdegnata disapprovazione
e condanna per quelli tra i nostri fratelli, laici o chierici, che dopo 17
secoli di vittoria sugli idoli, si lasciano così miseramente ingannare dal
demonio, ed avendo cominciato con lo spirito, ora sembrano voler tornare alla
carne (cf Gal 3,3).
In ogni caso si deve riconoscere che la spiritualità amazzonica avverte in modo
speciale il pregio della comunione con la natura, e le risorse che la
natura offre all’uomo; ma anche le forze terribili che la natura oppone
all’uomo. Il suo difetto è quello di non
sentirla come mediatrice di un rapporto con Dio, segno della sua bontà per
l’uomo, strumento della sua giustizia per l’uomo peccatore.
Tale spiritualità, però, che nel suo lato oscuro
sarebbe meglio chiamare superstizione, vede nel contempo nella natura e nel suo
simbolo Pachamama l’origine dell’esistenza e il termine delle aspirazioni dell’uomo
oppure appare dea crudele e minacciosa, che occorre rabbonire con sacrifici,
fino ai sacrifici umani. Ecco il culto di Pachamama.
Questa
immagine ostile della natura potrebbe essere purificata alla luce del Cantico delle creature di S.Francesco.
Questo famosissimo e bellissimo cantico insegna all’amazzonico che non deve
rivolgersi alla natura, a Pachamama, come fosse lei la meta e il culmine delle
aspirazioni umane, ma deve rivolgersi per questi scopi a Dio, sia pur mediante la
natura:
«Laudato sie
mi’ Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messor lo frate sole, lo
qual è iorno, et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande
splendore,de te, Altissimo, porta significatione. Laudato si’, mi’ Signore, per sora luna e le stelle,
in celu l’ài formate clarite et pretiose et belle. Laudato si’, mi’ Signore,
per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale a
le tue creature dài sustentamento. Laudato si’, mi’ Signore, per sor’aqua, la
quale è multo utile et humile et pretiosa et casta. Laudato si’, mi’ Signore,
per frate focu, per lo quale ennallumini la nocte, et ello è bello et iocundo
et robustoso et forte.
Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra,
la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori
et herba».
Quanto alle minacce e alle sventure che ci vengono
dalla natura, l’amazzonico deve imparare a non temere la natura come fosse la
prima responsabile dei mali che affliggono l’uomo. Deve invece vedere in quei
guai che ci sono causati dalla natura le conseguenze
del peccato originale, per cui o deve viverli in spirito di espiazione in
unione con Cristo o deve rivolgersi a Dio perché gli vengano risparmiati, se
così Gli piace. Questo è il senso delle cosiddette «Rogazioni».
Diamo
un esempio di come esse venivano celebrate fino a un recente passato: «Si celebra la Messa propria delle Rogazioni,
in paramenti violacei (ultimamente la Messa veniva celebrata dopo la
processione nella cappella o chiesa prevista, ndr.). Quindi si ordina la
processione, al canto delle Litanie dei Santi, iniziate appié dell'altare fino
all'invocazione "SANTA MARIA", e continuate per tutta la campagna,
con itinerari diversi nei diversi giorni, in modo che ogni podere, ogni
orticello, ogni zolla riceva la benedizione. Nei luoghi fissati dalla
tradizione - e i contadini li conoscono bene e li tramandano di generazione in
generazione - la Processione fa una sosta. Il Sacerdote interrompe le Litanie:
canta un brano del Vangelo. Il popolo ascolta in piedi; si unisce al celebrante
nel sollevare a Dio la preghiera formulata nell'Oremus. Quindi si prostra in
ginocchio sulla strada, sull'erba, sui sassi. Il sacerdote con la croce
benedice la campagna ai quattro punti cardinali, cantando:"A FULGURE ET
TEMPESTATE" e il popolo: "LIBERA NOS; DOMINE". Indi il
sacerdote:"UT FRUCTUS TERRAE DARE ET CONSERVARE DIGNERIS" e il popolo
risponde "TE ROGAMUS, AUDI NOS". Con l'acqua benedetta si aspergono i
campi, le messi tenerelle, i pampini, le semine delle piante: e i fedeli si
fanno il segno della croce: la processione si ricompone, si ripigliano le Litanie».
Per chi ha gli occhi aperti, libero dalle
fantasie di Rousseau, la natura non è solo madre, ma anche matrigna, come ben
notò il Leopardi. Essa, sì, ci tiene in vita, ma è anche madre precaria ed
aleatoria, si potrebbe dire balzana, di ciò che in noi è destinato alla morte.
Dunque adagio con l’ingenuità, la retorica e il romanticismo. Peggio ancora se della
natura si fa un idolo. È vero che veniamo dalla terra e torniamo alla terra, ma
per salire al cielo; e di ciò la terra non sa nulla.
Trattiamola bene, dunque, la natura, ed
usiamone con saggezza, conoscendone limiti e difetti e rispettandone le leggi.
Fruiamo pure delle sue bellezze, lasciamoci pure abbracciare dalle sue braccia
materne, sentiamoci pur parte della sua totalità, indaghiamo pure i suoi
misteri. Ma non manchiamo di accorgerci che essa non può bastare a saziare il
nostro bisogno di Infinito, non manchiamo di vedere in lei i segni della divina
provvidenza, l’occasione per una vita sobria, penitente ed ascetica, un tesoro da
condividere con i nostri simili, un bene da donare ai poveri, una voce, come
diceva S.Agostino, che ci parla di Dio, la via, per dirla con S.Tommaso, che ci
conduce a Lui.
P.Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 3 novembre 2019
[1] Significativo il fatto che l’Associazione
«La Notte delle Streghe», dopo il rito in Vaticano, abbia
espresso al Papa il suo compiacimento per il suo gesto di appoggio al «diritto alla libertà religiosa».
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