Lo scrupolo - Terza Parte (3/3)

 Lo scrupolo

Terza Parte (3/3) 

Rischi della spiritualità ignaziana

La cosa che colpì profondamente Ignazio fu lo spettacolo sconvolgente del diffondersi del luteranesimo nato dal dramma di coscienza di Lutero. Ignazio capì che si trattava di una aggressione alla Chiesa sotto colore della vera interpretazione della divina misericordia e della libertà evangelica contro il legalismo della Chiesa romana tormentatore della coscienza gettata sotto la schiavitù dello scrupolo e della paura e solleticata nella presunzione pelagiana di vantarsi davanti a Dio dei propri meriti.

Con la sua forma mentis di militare Ignazio concepì l’idea di aiutare la Chiesa assalita dagli eretici formando una milizia scelta di combattenti per la causa di Cristo e una maggior gloria di Dio sul modello delle allora ammirate compagnie di ventura, dunque una «compagnia di Gesù»[1]. E se Lutero si era ribellato al Papa, volle che i suoi combattenti giurassero totale obbedienza al Papa nel suo ufficio di vicario di Cristo e di guida della Chiesa nella guerra contro il peccato, la carne, il mondo e Satana.

Lutero aveva strappato alla Chiesa vasti territori? Ebbene, la Compagnia di Gesù li riconquisterà alla Chiesa. Lutero diffondeva l’eresia? Ebbene, la Compagnia di Gesù conquisterà nuovi popoli alla Chiesa. Lutero aveva sottratto al Papa il potere indiretto sugli affari della politica? Ebbene, la Compagnia di Gesù si sentirà in dovere di riedificare la civiltà cattolica sotto la presidenza del Papa. Lutero aveva rinunciato alla lotta contro il peccato? Ebbene la Compagnia eserciterà le anime nella lotta contro il peccato, promovendo conversione, penitenza, confessione, sacrificio, riparazione, operosità, progresso, santità.

Mossi da un ardentissimo amore per Cristo (mistica) – caritas Christi urget nos -, occorreva fare l’adunata, chiamare alla guerra (predicazione), corrispondere alla chiamata (discernimento), far voto d’obbedienza perinde ac cadaver al supremo condottiero il Papa (quarto voto), esercitarsi nell’arte della guerra (ascetica), fino alla vittoria (ad maiorem Dei gloriam). Confidare in Dio come se tutto debba dipendere da Lui. Mettercela tutta, come se tutto dipendesse da noi.

La spiritualità ignaziana, per quanto preziosa e sorgente da cinque secoli di un’abbondantissima serie di anime sante e di opere per il bene della Chiesa, resta sempre opera di un uomo e come tale ha i suoi lati deboli. Ma perché ne parlo? Perché essa ha un aspetto che tocca profondamente la tematica della coscienza morale e quindi della colpa vera o falsa, cioè lo scrupolo e dei metodi e modi di affrontare e risolvere il problema.

Occorreva rimediare alla coscienza scrupolosa in modo tale da non cadere nella coscienza lassa o nella coscienza doppia. Sorse come via di uscita il concetto di coscienza delicata, serena e premurosa, timorata e confidente, equilibrata ed oggettiva, che  risulta da un vaglio e un discernimento della propria situazione concreta alla luce dei princìpi morali. E nel contempo bisognava dare alla coscienza quella pace che invano Lutero cercava di ottenere dalla furbizia e dallo scarico di responsabilità.

Questa pace non doveva essere, come l’aveva immaginata Lutero, una specie anestetico, un calmante o uno psicofarmaco che coonestasse la fuga dalle nostre responsabilità sotto pretesto della divina misericordia. Si trattava invece di una pace che non escludeva il dolore dei propri peccati, ma anzi lo coltivava intelligentemente, a ragion veduta, come espressione spontanea e ad un tempo logica dell’amore nei confronti di quel Dio infinitamente buono, sacrificatosi per noi, e che vergognosamente e slealmente noi, da animi ingrati e superbi, abbiamo offeso.

Un punto debole della spiritualità ignaziana, comunemente riconosciuto, è il suo volontarismo di origine occamista per la mediazione dello stesso Lutero e di Cartesio, che appunto l’aveva assorbito nell’ambiente gesuitico. Tale spiritualità è in qualche modo compromessa dallo stesso nemico che essa vuol colpire. Ciò è sorgente di irragionevolezza, doppiezza e volubilità.

Il volontarismo consiste nel far dipendere la verità non dalla necessitazione dell’intelletto, ma dalla decisione della volontà. Così succede che l’intelletto non è determinato ad unum, ossia non si fissa nè si stabilizza sull’identità dell’oggetto, ma, dipendendo dal libero arbitrio, può oscillare tra il sì e il no, mettendo assieme l’uno con l’altro. L’intelletto, invece di servire ad un solo padrone – il sì -, ne segue due – il sì e il no -. Si dimentica l’avvertimento di Cristo, che questo è lo stile del demonio.

Il volontarismo nasce dal principio di Ockham, per il quale la buona volontà non è quella che vuole il bene, ma il bene è bene perché è voluto dalla volontà. La legge morale non è fissata una volta per sempre, ma è convenzionale; è quella che di volta in volta è fissata dall’autorità. La virtù dell’obbedienza tende a sostituire quella della verità. Se il Superiore comanda di dire che 2+2=5, come ha detto di recente il Padre Sosa, attuale Preposito della Compagnia di Gesù, il Gesuita obbedisce.

Anche la prudenza, il cosiddetto «discernimento», come dirà il Gesuita Rahner nel secolo scorso, non è la semplice applicazione di una legge universale a un caso particolare, ma consiste nella capacità di inventare o creare (la cosiddetta «creatività») una legge ad hoc, che completa e concretizza la legge astratta universale per un caso imprevisto in una situazione imprevista[2].

Ad ogni modo la morale dei Gesuiti, come è noto, si distinse per la casistica, un metodo di guida morale che riflette una notevole sensibilità per il variare delle situazioni, cosa che in certi casi può chiedere soluzioni adatte a quel caso. Il rischio può essere quello di far prevalere la situazione sulle esigenze della legge. Si verificò allora all’epoca di Pio XII la cosiddetta «etica della situazione» a suo tempo condannata dal Sant’Uffizio[3]. 

Nel volontarismo il rapporto intelletto-volontà si capovolge: non è la volontà che vuol il bene inteso dall’intelletto, ma è l’intelletto che vuol il bene voluto dalla volontà. Qualcosa di simile avverrà per il cogito cartesiano: il «pensare» del quale si tratta nel cogito non è la determinazione ad unum dell’intelletto necessitato dall’identità dell’oggetto, ma è il dubitare assoluto, il dubbio universale, del quale Cartesio ha parlato in precedenza.

Per questo ha ragione Padre Fabro nel sostenere che il cogito cartesiano non è un vero cogito, ma è un volo. Non esprime un’adeguazione dell’intelletto alla cosa esterna al pensiero, ma la libera decisione di far oscillare il pensiero fra il sì e il no, il che è precisamente l’atto del dubitare. Cartesio quindi erige a sistema la duplicità dell’intelletto che è precisamente quel servire a due padroni, quella doppiezza che Cristo condanna come menzogna ed ipocrisia.

È interessante come Cristo da una parte lancia ai farisei l’accusa di essere dei serpenti (MT 23,33), ma dall’altra raccomanda di essere «prudenti come i serpenti» (Mt 10,16). Non sembra, questa, una contraddizione? Che vuol dire il Signore? Che la semplicità dello sguardo e del parlare non esclude il dovere di sapersi destreggiare davanti a nemici falsi ed insidiosi, al fine di difendesi dalle loro menzogne e di smascherarli e metterli con le spalle al muro.

Ricordiamo il Salmo: «con l’uomo buono tu sei buono, con il perverso tu sei astuto» (Sal 18, 26-27). È qui che risplende e fa da maestra la virtù ignaziana della prudenza. La semplicità non va confusa con l’ingenuità e la dabbenaggine. Ma la prudenza non deve diventare astuzia e disonestà per aver trascurato la semplicità. Ma purtroppo è qui che, se lo spirito ignaziano non è rettamente inteso, saltano fuori i Cartesio, i Rahner, gli Hegel, i Gentile, i Teilhard de Chardin e personaggi del genere.

Il volontarismo è legato all’immanentismo: non Dio trovato come causa prima partendo dall’esperienza delle cose come creature di Dio (“ea quae facta sunt,  Rm 1,20), ma sentito nella coscienza per mezzo di segni illuminanti, incoraggianti, confortanti ed entusiasmanti.

Il volontarismo genera il sincretismo e l’opportunismo, la volubilità e la canna sbattuta dal vento, il trasformismo e il conformismo, l’adulazione e la sovversione, il fideismo e il pelagianesimo (vedi la controversia De auxiliis con i Domenicani, fine sec.XVI, primi ‘600), il secolarismo (vedi appoggio alla teologia della liberazione nel ‘900) e l’integrismo (soppressione della Compagnia, fine ‘700), il rigorismo (‘800 e primi ‘900) e lassismo (sec.XVII, controversia con Pascal, ed anche oggi).

Ottimi tomisti, come il Canisio, il Bellarmino, i Billot, Mattiussi, Franzelin, de Tonquédec, Siwek, Petazzi, ma anche dannosi doppiogiochisti (collusioni con l’illuminismo, con la massoneria, con i comunisti, coi protestanti, con l’induismo). sincretisti come Suarez, Molina, Maréchal, Rousselot, Rahner.

Il volontarismo nasce dall’immanentismo. Già nella narrazione dello stesso Sant’Ignazio di come egli giunse a capire come si opera il discernimento degli spiriti, si nota la sua impostazione teologica interiorista, per la quale pare che noi apprendiamo l’esistenza e la presenza di Dio non tanto partendo dall’esperienza delle cose esterne («ea quae facta sunt»), ma riflettendo sulle sensazioni o emozioni gradevoli o sgradevoli causate dall’apprendimento di eventi umani, che rivelano l’azione di Dio negli uomini e nella storia.

Questo incontro interiore con Dio raggiunge il suo apice nell’incontro mistico con Cristo reso possibile dalla lettura del Vangelo, dall’esperienza della vita della Chiesa e dalla conoscenza dell’esempio dei Santi. Tale incontro nella spiritualità ignaziana assume toni mistici, come nella devozione al Sacro Cuore. Tuttavia il rischio può essere quello di sottovalutare o relativizzare, in nome di questa esperienza affettiva, i contenuti concettuali oggettivi speculativi della dottrina cattolica.

Può sorgere allora un misticismo spurio, che non è preparato dal momento ascetico, ma che pretende di essere la condizione ordinaria della vita cristiana confondendo l’unione con Dio, che è effetto di libera scelta e del dono della sapienza, con l’orientamento necessario verso il fine ultimo, che caratterizza l’essenza e l’agire trascendentale dell’ente, uomo compreso[4]. Agire per il fine non significa necessariamente, per l’uomo, agire per Dio, perché, in forza del libero arbitrio, egli può scegliere di rifiutare Dio.

I limiti della riforma tridentina

e il correttivo apportato dal Concilio Vaticano II

La teologia morale promossa dal Concilio di Trento, in reazione al lassismo e all’anomismo protestante, non poteva non essere un forte richiamo all’austerità della vita cristiana e alla necessità di farsi meriti per il paradiso con la pratica dei divini comandamenti. Essa ha promosso l’aspetto combattivo, metodico e disciplinato della vita cristiana.

Tuttavia, nel corso dei secoli seguenti fino alla prima metà del secolo scorso, apparì sempre più evidente che la reazione tridentina contro Lutero, se da una parte aveva chiarito la differenza fra lo scrupolo morale e il senso di colpa psicologico e per conseguenza la diversità del rimedio nell’uno e nell’altro caso, se aveva ribadito il principio che occorre saper rinunciare a ciò che frappone ostacolo alla nostra piena dedizione a Cristo, se aveva chiarito che non possiamo essere perdonati se non facciamo opere di penitenza e che non possiamo salvarci senza  dolori, fatiche, sforzi e sacrifici, il Concilio di Trento limitava la sua visuale all’orizzonte della presente vita mortale. Si trattava di un orizzonte che non teneva conto dello stato edenico e della futura prospettiva escatologica, vale a dire una prospettiva di riconciliazione dello spirito con la carne e di valorizzazione degli aspetti positivi del mondo e della modernità.

In particolare, l’ascetica di questi ultimi secoli si era via via venuta a concentrare in modo preponderante sulla lotta al peccato sessuale e la sua gravità era oltremodo enfatizzata, spesso sulla base di un indiscreto dualismo spirito-sesso e di una sottovalutazione della dignità della donna. Da qui il concentrarsi degli scrupoli sui peccati di sesso. Ho avuto penitenti che ancora dopo quarant’anni dai fatti, peraltro mal ricordati, benchè confessatisi più volte, non sapevano ancora darsi pace. 

Tutta l’etica tendeva a restringersi all’etica della persona e del dominio delle passioni con la conseguenza di sottovalutare l’aspetto della giustizia sociale. È vero che si aveva anche percezione del peccato di eresia e di empietà. Ma tutto sommato non lo si sentiva così grave come il peccato di sesso. L’ateo, il miscredente o eretico apparivano tutto sommato come spiriti sì alteri e ribelli, ma pur sempre rivestiti della dignità dello spirito. Chissà, forse qualcuno di essi – si pensava – sarà stato in buona fede. Ma il lussurioso destava solo scandalo e ripugnanza.

Il peccato di sesso era diventato il paradigma del peccato. Quando si diceva «peccato», si pensava subito al peccato di sesso. Il peccatore era sempre colpevole: non si ammettevano attenuanti o scusanti. L’averlo commesso era per l’anima pia cosa inconcepibile e a volte fonte di un inestinguibile rimorso, anche dopo numerose confessioni.  Era chiaro che la situazione era da sanare.

Ecco uno dei motivi per i quali San Giovanni XXIII volle il Concilio Vaticano II. Il modernismo dei tempi d San Pio X era sorto nel tentativo di ovviare ad un’esigenza che si era fatta sempre più evidente: quella di accogliere i valori della modernità e in particolare, in campo morale, i princìpi della tolleranza e della libertà religiosa, i valori umani comuni alle varie religioni, la migliore comprensione della dignità della coscienza morale, una comprensione protologica ed escatologica del rapporto uomo-donna, al di là dei confini contingenti e temporanei della presente natura decaduta, l’aspetto psicologico della condotta morale, ed un particolare l‘esistenza dell’implicito e dell’inconscio (preconscio, subconscio) nella vita morale e nel rapporto con Dio.

In tal modo si è trattato di riprendere daccapo in termini più evangelici il problema del rapporto dello spirito con la carne e della Chiesa col mondo e superare un ascetismo che stava tornando ad essere fattore di scrupoli e, senza dimenticare i chiarimenti dati dal Concilio di Trento, promuovere una condotta morale che sappia con discernimento ed equilibrio insegnare a togliersi l’occhio quando scandalizza, ma ad usarlo quando il vedere fa bene alla vista.

Purtroppo a questo punto è scoppiata una crisi impressionante nella Compagnia di Gesù, la quale, sentendosi insopportabilmente a disagio per il suo passato rigorismo ottocentesco, ha reagito in modo così violento da cadere nel lassismo e nel buonismo attestati dalla teologia di Rahner. 

È sorto un pullulare di tesi stolte, come il moltiplicarsi del tumore un una metastasi. Ad esempio: il peccato è solo una fragilità. Bisogna accompagnare, non correggere. Bisogna ascoltare, non prescrivere. Non esiste il peccatore, ma solo il diverso. Una medesima frase si può interpretare in due sensi opposti. Tutti sono in buona fede, tutti sono in grazia, tutti si salvano, tutti sono cristiani anonimi, tutti sperimentano Dio nel preconscio, tutte le religioni sono salvifiche, ognuno è libero di decidere di ciò che è bene e male come gli pare.

Con l’avvento del Concilio la Compagnia di Gesù, per una malintesa volontà di riforma, ha realizzato una svolta impressionante, per la quale ha trionfato in essa la teologia di Rahner, che si presenta come interpretazione delle dottrine nuove del Concilio, ma che in realtà è una forma subdola e insidiosa, molto pericolosa, di quel modernismo che a suo tempo era stato condannato da Pio X, aggravato dall’influsso di Hegel. di Darwin, di Freud, di Marx e di Heidegger.

Già col modernismo era iniziata questa svolta della Compagnia di Gesù verso un’impostazione immanentistica ed evoluzionista. Se fino ad allora, a partire dai primi Ottocento, era prevalsa una spiritualità di tipo ascetico preferita alla mistica, con fortissima accentuazione dell’obbedienza e rigorismo morale, ora sorgeva una reazione, la quale, respingendo l’ascetica come rigorismo, risolveva la vita cristiana nella mistica, assumendo, come appare dalla proposta del Gesuita inglese George Tyrrell, una visione del rapporto Dio-uomo, Dio-mondo, corpo-spirito non dalla dottrina cattolica, ma dall’immanentismo e soggettivismo protestante ed idealista tedesco.

Questa svolta mistica o meglio pseudomistica, sempre improntata al volontarismo tradizionale nella Compagnia, era sta promossa soprattutto da teologi gesuiti come Pierre Rousselot e Joseph Maréchal. Il teologo che ha raccolto tutte queste istanze idealistiche, sensiste, materialiste, panteiste e mistiche, è stato, come tutti sanno, Karl Rahner, la cui teologia fu sostituita dall’orientamento prevalente fra i Gesuiti, a quella di San Tommaso, raccomandata da Sant’Ignazio ai suoi figli, e ciò nel succedersi di tre Congregazioni Generali della Compagnia: quella del 1966 (la XXXI), quella del 1974 (la XXXII) e quella del 1978 (la XXXIII).

Queste vicende tumultuose e conturbanti, non certo di buon esempio, che comportarono uno scontro prima con Paolo VI, poi con Giovanni Paolo I e infine con Giovanni Paolo II, sono narrate con abbondanza di dati da due dotti Gesuiti nei loro rispettivi libri[5]. Così nella Compagnia di Gesù è accaduto un fatto sconvolgente e scandaloso: essa, che nacque come volontà di obbedienza al Papa, agli ordini del Papa, per riconquistare e conquistare il mondo a Cristo, ora, inquinata dalla massoneria, ingannata dalla falsa idea di libertà messa in giro da Rahner, aveva l’audacia di opporsi apertamente o nascostamente ai Papi a cominciare da Paolo VI accusandoli di frenare il progresso della Chiesa e di voler tornare al Concilio di Trento[6].

Se Paolo VI sopportò soffrendo questa umiliazione e questa tendenza scismatica, Giovanni Paolo II non fu affatto disposto ad accettare questi affronti e questa inaudita ribellione. Dopo aver a lungo pazientato, depose il Padre Arrupe nel 1981 sostituendolo col Padre Dezza. Prima di lui Giovanni Paolo I stava preparando un severo rimprovero alla Compagnia in procinto di riunirsi per la XXXIII Congregazione del settembre 1978, quando morì improvvisante e misteriosamente[7].

Giovanni Paolo II, come riferisce Martin, venuto a sapere delle preoccupazioni di Giovanni Paolo I e del suo atteggiamento nei confronti della Compagnia,  all’inizio del suo pontificato aveva l’intenzione di abolire la Compagnia, se non fosse stato distolto dal Card. Casaroli, Segretario di Stato.

In tal modo il Santo Pontefice affrontò con coraggio, come narra Martin, la ribellione opposta dai Gesuiti e il loro tentativo di conferire al rahnerismo un ruolo guida nella teologia cattolica. Da notare che il rahnerismo è lo sfondo idealista, dal quale trae fondamento sia l’evoluzionismo di Teilhard de Chardin come la teologia politica di Johann Baptist Metz, ispiratrice della teologia sudamericana della liberazione di Gutierrez e Boff, tutte correnti largamente appoggiate dai Gesuiti.

Giovanni Paolo II rispose all’insidia rahneriana, una forma di raffinato neomodernismo, in collaborazione col Card. Ratzinger, allora Prefetto della CDF, con due poderose encicliche, una sulla teologia morale, la Veritatis splendor del 1993 e l’altra la Fides et Ratio del 1998, dove è confutato il trascendentalismo idealista rahneriano e riproposto il realismo tomista.

Conclusioni

 Per i modernisti il senso di colpa è un disturbo da curare con la psicanalisi, il sacrificio è masochismo, la regola della morale non è la legge, ma il piacere. Basta con l’ascetica, fonte di frustrazioni, crudeltà e nevrosi: ogni uomo è un mistico, perchè tutti tendono a Dio, che è il vertice supremo dell’uomo.

Che cosa fare? Bisogna realizzare veramente il progetto morale del Concilio Vaticano II non in rottura ma in continuità con quello di Trento. Al riguardo dobbiamo osservare che la separazione tra uomo e donna è un provvedimento d’emergenza per chi è chiamato alla vita religiosa relativamente allo stato presente, giacchè nella futura resurrezione non occorrerà più la pratica dei voti religiosi, essendo i beati liberati per sempre dallo stato di miseria proprio della vita presente, che rende consigliabili i voti, per una vita spirituale più alta. Essi pertanto non corrispondono alla volontà originaria ed escatologica di Dio, il quale viceversa vuole l’unione dell’uomo con la donna. E per questo Dio nel Genesi comanda all’uomo: «Non divida l ’uomo ciò che Dio ha unito».

Oggi occorre però recuperare un sano ascetismo dannosamente abbandonato dall’attuale edonismo modernista e attuare veramente la prospettiva escatologica proposta dal Vaticano II, così come essa è stata esplicitata, per quanto riguarda il rapporto uomo-donna, dagli insegnamenti di Giovanni Paolo II.

È giunto il momento di un recupero prudente del vero senso di colpa, di una ritrovata coscienza dell’aver peccato, di un sincero dolore dei propri peccati[8]. Occorre tornare a rendersi conto di che cosa vuol dire peccare, e delle conseguenze che questo agire comporta, senza ricadere  nella malattia dello scrupolo e dei falsi sensi di colpa, mantenendo o acquisendo quindi i sani apporti della psicanalisi, nonché gli apporti che ho elencato della teologia morale postconciliare, per un nuovo passo avanti della coscienza morale nella pace e nella serenità, nel santo timor di Dio, nell’esperienza consolante ed incoraggiante della divina misericordia, nella pratica della giustizia e nella lealtà di Cristo, nel quale «non c’è stato il sì e il no, ma solo il sì» (II Cor 1,17).

Il tema della sinodalità, importante ma purtroppo strumentalizzato dai modernisti, non deve essere pretesto per annullare l’autorità del Papa e per concepire la Chiesa come una specie di Assemblea costituente sul modello della Rivoluzione Francese, ma è una comunità di fratelli sotto la guida di un medesimo Padre, il Papa.

L’ecumenismo, dal canto suo, non dev’essere, contro gli intenti dell’Unitatis redintegratio il pretesto per concepire l’insieme delle varie confessioni cristiane, sul modello di una società civile con a capo il presidente della Repubblica, ma dev’essere, giusta la direttiva conciliare, il lavoro paziente e sistematico fatto in comune fra i cristiani delle varie confessioni al fine che in esse i cattolici, sotto la guida del Papa, aiutino i fratelli separati ad entrare nella piena comunione con la Chiesa cattolica.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 febbraio 2023

 

Nella narrazione dello stesso Sant’Ignazio di come egli giunse a capire come si opera il discernimento degli spiriti, si nota la sua impostazione teologica interiorista, per la quale pare che noi apprendiamo l’esistenza e la presenza di Dio non tanto partendo dall’esperienza delle cose esterne («ea quae facta sunt»), ma riflettendo sulle sensazioni o emozioni gradevoli o sgradevoli causate dall’apprendimento di eventi umani, che rivelano l’azione di Dio negli uomini e nella storia.

Oggi occorre recuperare un sano ascetismo dannosamente abbandonato dall’attuale edonismo modernista e attuare veramente la prospettiva escatologica proposta dal Vaticano II, così come essa è stata esplicitata, per quanto riguarda il rapporto uomo-donna, dagli insegnamenti di Giovanni Paolo II.

È giunto il momento di un recupero prudente del vero senso di colpa, di una ritrovata coscienza dell’aver peccato, di un sincero dolore dei propri peccati. Occorre tornare a rendersi conto di che cosa vuol dire peccare, e delle conseguenze che questo agire comporta.
 
Immagini da Internet:
- Sant'Ignazio
- San Francesco
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[1] Sulla storia della Compagnia di Gesù, vedi Enrico Rosa, SJ,I Gesuiti dalle origini ai nostri giorni, Edizioni La Civiltà Cattolica, Roma 1957; Guido Sommavilla, La Compagnia di Gesù,Rizzoli Editore, Molano 1985; Malachi Martin, I Gesuiti. Il potere e la segreta missione della Compagnia di Gesù nel mondo in cui fede e politica si scontrano, SugarCo Edizioni, Milano 1988.

[2] Vedi la critica a questa teoria fatta da Tomas Tyn Saggio sull’etica esistenziale formale di Karl Rahner, Edizioni Fede&Cultura, Verona 2011.

[3] Istruzione del Sant’Uffizio del 2 febbraio 1956, Denz.3918-3921.

[4] Secondo la formula scolastica: Omne agens agit propter finem, et quidem finem ultimum.

[5] Malachi Martin, I Gesuiti. Il potere e la segreta missione della Compagnia di Gesù nel mondo in cui la fede e la politica si scontrano, SugarCo Edizioni, Milano 1988; Antonio Caruso, Tra grandezze e squallori, Edizioni VivereIn, Monopoli (BA), 2008.

[6] Il Preposito della Compagnia che l’ha capeggiata in questo burrascoso periodo rivoluzionario dal 1966 al 1981 è stato il Padre Pedro Arrupe, uomo che si era distinto in atti di eroismo in occasione della distruzione di Hiroshima, dove allora si trovava, ma che poi, forse psichicamente indebolito a seguito della terribile esperienza, fraintese il rinnovamento conciliare della Compagnia prendendo per progressi e quindi evitando di correggere gli errori filomarxisti di Cardenal, quelli darwiniani di Teilhard de Chardin e quelli hegeliano-heideggeriani di Rahner.  

[7] Ho ricevuto confidenzialmente notizia da un suo amico prete che Albino Luciani da Patriarca di Venezia ebbe un giorno a digli: «se mi fanno Papa, abolisco la Compagnia di Gesù».

[8] Mi permetto di segnalare il mio libro Perché peccando ho meritato i tuoi castighi. Un teologo davanti al coronavirus, Edizioni Chora Books, Hong Kong 2020.

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