Le prove della esistenza di Dio secondo Kant - Terza Parte (3/4)

  Le prove della esistenza di Dio secondo Kant

Terza Parte (3/4)

Nozioni metafisiche insufficienti

Un difetto della metafisica di Kant consiste nel fatto di restringere l’uso di certe nozioni categoriali o trascendentali all’orizzonte materiale, per cui lo spirito viene privato dell’apporto di quei predicati. Una di queste nozioni è la nozione di esistenza. Altre le troviamo in questo brano:

«I concetti di realtà, sostanza, causalità, quello stesso di necessità di esistere, fuori dell’uso in cui rendono possibile la conoscenza empirica di un oggetto non hanno significato, che vale a determinare un oggetto qualsiasi»[1].

Ente reale ed ente ideale. Kant distingue l’ente reale dall’ente di ragione ovvero dall’ente ideale. Distingue quindi l’esistenza reale dall’esistenza ideale. Tuttavia per lui Dio è un ente di ragione raziocinata[2]. Quindi, sotto il profilo del reale, si può dire che per lui Dio non esiste. La posizione è molto grave. Ridotto ad un ente di ragione, ad un’idea della ragione, Dio, che Dio è? Non potrà più essere il creatore della ragione, ma è la ragione che crea Dio. Si capisce bene come la strada è aperta al panteismo e all’ateismo.

Si potrà forse dire che Kant ha un concetto altissimo dell’ideale, di origine platonica. L’ideale trascende il reale ed è modello del reale, ridotto all’empirico. Ma il guaio è che l’ideale platonico in Kant è filtrato e immanentizzato dall’idealismo cartesiano, dove l’idea non è più oggettiva, ma soggettiva. Non sta più davanti alla mente (ob-jectum) e al di sopra della mente, ma nella mente, nel soggetto (sub-jectum) e prodotto della mente, del soggetto. Viene a coincidere col concetto, mentre Platone distingue chiaramente il concetto (eikòn), prodotto della mente umana e rappresentazione dell’Idea, dall’Idea stessa (eidos), ipostasi sussistente e indipendente dalla mente umana e preesistente alla mente umana.

L’eikòn platonica consegue all’eidos così come la rappresentazione suppone il rappresentato. Invece l’idea cartesiana precede e condiziona l’esperienza del reale sensibile esterno. Lo stesso per Kant: le forme dell’intelletto sono strutture apriori dell’intelletto e precedono la conoscenza dei fenomeni come condizione di possibilità della loro conoscenza. Inoltre non sono più oggetti, ma modo soggettivo della conoscenza, ovvero della formazione dell’oggetto, che pertanto Kant chiama ancora «oggetto», perché la materia viene dalla cosa in sé, ma la forma è imposta dal soggetto.

Kant distingue l’essere (sein) dall’esistere (existieren). Così egli riconosce che il termine «Dio» può essere soggetto sia del predicato dell’essere[3] e sia di quello dell’esistere. Kant conosce la differenza tra l’esistere e il non-esistere. Per dare l’esempio di un ente che non esiste egli cita la chimera. Giustamente ritiene che credere esistente ciò che non esiste è illusione.

Il trascendentale kantiano non è ontologico ma gnoseologico; non riguarda cioè l’ente, ma il modo col quale l’intelletto conosce l’ente, secondo il modulo della gnoseologia cartesiana. Ne viene che l’idea assume il primato sul reale e il pensiero sull’essere. Non è più l’oggetto che regola il soggetto, ma è il soggetto che regola l’oggetto. Dio non è più creatore dell’uomo ma è l’uomo che crea Dio.

Anche la nozione di cosa (res) in Kant è ristretta alle cose materiali – la cosiddetta «cosa in sè» -, che si manifestano ai sensi come fenomeni. Ciò porta alla conseguenza che la realtà è attribuita solo ai corpi e non agli spiriti e quindi ci va di mezzo anche la realtà di Dio. Per questo Kant ipotizza soltanto e non afferma categoricamente l’esistenza di Dio purissimo spirito. Dio è un ente ideale e non reale.

La determinazione delle cose (aliquid)[4] non dipende per Kant dall’intelletto divino, che è solo una metafora dell’ideale della ragione, ma dalla stessa ragione mediante le forme a priori della sensibilità (spazio e tempo), e le forme a priori dell’intelletto (categorie) e le tre idee della ragione (anima, mondo, Dio).

Per quanto riguarda la nozione di sostanza, Kant, la limita indebitamente alla nozione di sostanza materiale, ignorandone il significato analogico, che permette di parlare di sostanza spirituale e sostanza divina. Per questo Kant si trova in difficoltà a concepire Dio come sostanza. Ciò non gl’impedisce di possedere una nozione dello spirito, che evidentemente è una sostanza.

E quando parla di io penso, ragione, coscienza, intelletto e volontà, è evidente che fa riferimento all’anima spirituale, benchè egli, quando tratta esplicitamente dell’anima umana, le rifiuti la sostanzialità, la spiritualità e l’immortalità in quanto si ferma ad una concezione meramente empirica dell’anima, che va bene anche per quella degli animali. Ma non dice che Dio è un ente spirituale; Dio è una semplice idea. Resta il fatto che l’idea è un prodotto dello spirito umano. In tal modo Dio appare un prodotto dello spirito umano.

Trattando degli angeli, li considera come soggetti fantastici o mitologici, senza rendersi conto dell’aspetto angelistico della sua gnoseologia, simile a quella di Cartesio, dove l’intelletto e il senso non si uniscono promanando dall’unica anima spirituale, forma sostanziale del corpo, ma sembrano due soggetti distinti, senza che appaia il modo di come collegarli per formare quell’unica sostanza che è l’uomo. Kant ammette bensì forme a priori, ossia non provenienti dall’esperienza e senza base empirica; ma sono solo forme logiche o matematiche o gnoseologiche; non sono forme sussistenti ed ontologiche separate dalla materia, come è l’anima umana separata, l’angelo e Dio stesso.

Per quanto riguarda la nozione dello spirito, Kant non nega la sua esistenza ma anzi ne è certissimo: per lui è cosa scontata, per cui non si preoccupa neanche di dimostrarne l’esistenza, chiarirne la natura e la sua superiorità sulla materia. In generale lo spirito comunque, per Kant, è il soggetto delle facoltà della ragione, dell’intelletto e della volontà. Coincide con l’autocoscienza cartesiana, l’io penso.  Kant sembra avere la stessa concezione dualistica cartesiana dell’uomo: res cogitans e res extensa. Manca la concezione del composto cosmologico di materia e forma, dell’anima come forma sostanziale del corpo, che avrebbe impedito quel dualismo gnoseologico di razionalismo ed empirismo.

Secondo Kant l’esistenza del nostro spirito e dello spirito umano in generale è colta originariamente, a priori, per un semplice atto di riflessione senza che occorra farla precedere dall’esperienza sensibile delle cose esterne, come per Cartesio. Altrimenti, se Kant non avesse avuto questa consapevolezza, come avrebbe potuto speculare sull’io penso, sulla ragione, sulla coscienza, sul pensiero, sulla scienza, sulla conoscenza, sull’intelletto, sulla logica, sulla metafisica, sulla teologia, sulla morale? La cosa che meraviglia è che, con tutta questa coscienza della dignità dello spirito, Kant consideri l’esistenza di Dio come semplice ipotesi.

Come mai non ha saputo vedere nel nostro spirito l’immagine e la somiglianza dello Spirito divino? Non ha letto nel volto del prossimo una traccia del Volto divino? Come è possibile risolvere Dio in un’idea astratta e non vedere la concretissima singolarità della sua irripetibile ed inconfondibile personalità? Non l’ha trovata nella Bibbia?

Anche per quanto riguarda il concetto di persona, Kant non riesce a vederne il valore analogico, sì da poterlo applicare non solo all’uomo, ma anche a Dio. Ne consegue che anche la nozione di azione o di operazione non può essere intesa in senso analogico, sì da essere applicata all’uomo e a Dio, sebbene Kant parli della possibilità di fare questo paragone[5].  Resta sempre che pertanto Dio è un ente di ragione, è un’idea, per cui il presentarlo come sostanza, come persona o come spirito o come agente o creatore o governatore o architetto del mondo è un modo antropomorfico di immaginare o di rappresentare l’ideale della ragione, è l’ipostatizzazione di un’idea.

Così egli ritiene che se l’intelletto speculativo abbandona il piano dei fenomeni per pretendere di conoscere l’essenza della cosa in sé o di travalicare il dato del senso o ciò che può essere sensibilmente provato o verificato dalla scienza fisica, l’intelletto fuoriesce dalla realtà o dall’esistente e vaga in concetti vuoti o nelle pure astrazioni illudendosi di ampliare la conoscenza o magari di dimostrare l’esistenza di Dio.

L’ente e l’essenza. Il difetto della speculazione kantiana è l’essenzialismo. È chiaro che per lui l’oggetto dell’intelletto non è l’ente, ma l’essenza possibile. Kant crede che il filosofo non debba indagare sulla realtà esistente, sull’ente composto di essenza ed essere, ma sulle pure essenze, sulle pure possibilità. L’interesse per l’essere gli sfugge. L’ente per lui è l’ente in quanto pensato, concettualizzato. La cosa in sé lo mette a disagio. Gli piacciono i fenomeni. Crede nella scienza fisica. Eppure non rinuncia all’indagine sullo spirito, come lo dimostrano le sue tre Critiche. Ama la verità. Ha il senso del dovere. È un animo nobile ed onesto, Ama la logica. Apprezza la matematica. Ma sulla questione di Dio è preso da una penosa e sconfortante perplessità. Contraddice in filosofia morale affermando ciò che sostiene negando nella filosofia teoretica e nella dottrina della conoscenza. Non pone ma suppone che Dio esista.

Kant non capisce inoltre che il principio di causalità non vale solo per la realtà materiale, ma anche per quella spirituale, benché riconosca che la volontà è signora del proprio atto. E tuttavia, mancandogli la nozione analogica di causalità, non riesce ad applicare il principio quando sorge la domanda: se l’ente contingente non ha in sé la ragione della sua esistenza, ovvero se non esiste per essenza, chi lo ha causato? Chi gli ha dato l’essere? Occorre un ente che non possa non essere, un ente assolutamente necessario, che abbia in sé la ragione del proprio essere.

Inoltre Kant non capisce che l’intelletto speculativo, nel processo del suo conoscere,  approfondendo la conoscenza della realtà ed astraendo dal livello materiale ed immaginabile dell’esistente e dell’immaginabile, non si ferma alle cause dei fenomeni e delle sostanze chimiche, mutevoli e materiali, e quindi non si ferma al piano della scienza fisica, delle cose sensibilmente verificabili,  ma, in forza della sua potenza conoscitiva e della nozione analogica dell’ente, astratta dall’esperienza, e partendo dall’esperienza delle cose sensibili, sa salire più in alto nella scala del reale, capisce che al di sopra dell’essere materiale esiste l’ente spirituale, superiore al materiale e causa del materiale, capisce che al di sopra della terra c’è il cielo, capisce che l’intelletto al di sopra della terra è fatto per il cielo, intende l’ente puramente intellegibile, oggetto della metafisica e della teologia.

Eppure Kant ha il concetto dell’idea, ma non si domanda come fa la ragione a formarlo e se l’idea non appartenga al mondo di quel sovrasensibile, il mondo dello spirito, mondo che secondo lui non sarebbe raggiungibile dalla ragione speculativa, chiusa nell’orizzonte dei fenomeni e basata sulla verifica sperimentale.

Kant parla bensì di un Dio «creatore»[6], ma siccome non arriva a concepire ontologicamente l’assolutamente necessario come ente che ha in se stesso la ragione del suo essere, ma lo concepisce solo in senso logico come «ciò il cui contrario è per se stesso impossibile», quando si chiede quale sarebbe il contenuto di questo concetto, afferma di non capirci nulla[7].

Ma questo come mai? Perché manca in Kant la distinzione fra l’essere e l’essenza e l’essere è ridotto all’essenza. Per Kant la metafisica non ha per oggetto l’ente, ma l’essenza possibile[8]. Allora si capisce che un concetto di necessario che suppone la distinzione tra essere ed essenza non ha senso. Questo è il motivo per il quale egli non capisce l’argomento a contingentia mundi: il mondo è un ente contingente; ma contingente vuol dire ente che non ha in sé la ragione del suo esistere o essere. E dunque per spiegare l’esistenza del contingente, occorre ammettere l’esistenza di un ente che non possa non essere, ossia che abbia in sè la ragione del suo essere, nel quale quindi la sua essenza coincida col suo essere. È l’essenzialismo che blocca Kant nel cammino verso l’esistenza di Dio, perché Dio è causa dell’essere, come pure è causa dell’essenza. Ma se uno non coglie l’essere non capisce che cosa vuol dire creare dal nulla, ossia produrre l’essere dal non-essere.

Dio, pertanto, per Kant, non è realmente il creatore del mondo, ma creatore è l’appellativo che la religione dà ad una ipostatizzazione personificata dell’ideale supremo della ragione e della razionalità. Ovvero è un nome che la ragion pratica dà all’assolutezza dell’imperativo categorico e della legge morale, la quale non è per nulla effetto della volontà di un Dio creatore della ragione, ma è legge fissata e voluta dalla stessa ragione.

Essenza ed esistenza

Kant non arriva ad ammettere l’esistenza di Dio perché non distingue l’essenza dall’esistenza e non distingue bene l’ideale dal reale. Per quanto riguarda questa seconda distinzione, parla sì di ente reale ed ente di ragione; ma l’ente reale per lui è solo il fenomeno, l’ente fisico materiale, la cosa in sè. Lo spirito, Dio, la ragione, la coscienza, la morale, la religione appartengono al mondo ideale.

Vediamo adesso la questione della distinzione tra essenza ed esistenza; più avanti vedremo la seconda. Per Kant, dunque, l’esistenza non aggiunge nulla all’essenza, ma è solo la «posizione» dell’ente al di fuori della sua causa. Non può essere un predicato della cosa, perché la cosa è quello che è, sia che esista che non esista. Ma Kant non capisce che appunto l’essere non ha la pretesa di entrare nella definizione della cosa ovvero dell’essenza, ma è atto rispetto al quale l’essenza è potenza.

Kant non si accorge che l’essere è atto dell’essenza, perfeziona l’essenza, supera l’essenza, la quale nei confronti dell’essere o dell’esistere svolge la funzione di potenza di essere o di esistere. Kant non si rende conto che l’esistente, ossia la realtà non è la semplice posizione di un’essenza o di una cosa, ma è la cosa attuata o completata dall’essere o dell’esistere.

Kant afferma:

«L’ esistenza non è un predicato e il togliere l’essenza non è la negazione di verun predicato, mercè cui qualcosa venga tolta da una cosa ed un’intrinseca contraddizione possa sorgere»[9]. «Essere manifestamente non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa. Essere è semplicemente la posizione di una cosa o di certe determinazioni[10] in se stesse. Nell’uso logico è unicamente la copula di un giudizio. Il giudizio Dio è onnipotente, contiene due concetti, che hanno i loro oggetti: Dio e onnipotenza. La parolina è non è ancora un predicato, bensì solo ciò che pone il predicato in relazione col soggetto.

Ora, se io prendo il soggetto (Dio) con tutti insieme i suoi predicati (ai quali appartiene anche l’onnipotenza) e dico Dio è o c’è un Dio, io non affermo un predicato nuovo del concetto di Dio, ma soltanto il soggetto con tutti i suoi predicati, e cioè l’oggetto in relazione col mio concetto. Entrambi devono essere un contenuto identico e però nulla si può aggiungere di più al concetto, che esprime semplicemente la possibilità per il fatto di pensare l’oggetto come assolutamente dato (con l’espressione egli è). E così il reale non viene a contenere niente di più del semplice possibile»[11].

Kant intende dire che l’esistenza non è un predicato che tocchi o completi l’essenza della cosa; non vi aggiunge nulla di essenziale per definire l’essenza della cosa. Giustissimo. Ma chi pretende questo? L’esistenza o essere, infatti, nell’ente contingente, è distinta dall’essenza ed è l’atto dell’essenza, per il quale l’essenza da possibile, da non-esistente nella realtà, diventa attuale o attuata nella realtà.

In questo senso l’essere si aggiunge alla cosa, ossia all’essenza della cosa. Infatti la posizione o il conferimento dell’essere ad un’essenza possibile dipendono o dall’atto creativo divino o dalla ragion pratica, i quali pongono la cosa nella realtà. E ciò comporta l’aggiunta dell’essere alla cosa intesa come semplice essenza possibile pensata nella mente o come essenza ideale, esistenza reale, che di per sé l’essenza non possiede.

Così, entrando nell’esistenza o nella realtà, l’essenza non si arricchisce di contenuto essenziale – qui Kant ha ragione -, ma resta sempre quella. E tuttavia acquista l’essere ed è questo che sfugge a Kant, che pertanto, come osserva giustamente Maritain, non ha mai avuto l’intuizione dell’essere[12]. È questo il difetto degli idealisti. Mancano del senso della realtà. Riducono il reale all’ideale, per cui non hanno la preoccupazione di adeguare le loro idee alla realtà, ma di adeguare la realtà alle loro idee.

Quindi per loro Dio manca della sua realtà propria di ente sostanziale e personale, distinto dalla mente umana ed esterno ad essa, e diventa, appunto come crede Kant, l’ideale supremo della ragione, ossia un prodotto dell’umana ragione. Per cui non è Dio che crea la ragione, ma è la ragione che produce l’idea di Dio, come fastigio della stessa ragione e opus maximum delle sue forze e delle sue possibilità.

Ma il problema dell’esistenza in Kant è più complesso di quanto a tutta prima potrebbe sembrare. Mentre nell’opera giovanile sull’argomento ontologico[13] egli è drastico nel sostenere che l’essere o esistenza non aggiunge nulla all’essenza, nella Critica della ragion pura egli invece dà spazio all’esistenza empirica, pur rimanendo insensibile all’esistenza spirituale e per questo ci va di mezzo l’esistenza di Dio, che è evidentemente spirituale. Come in tutti gli idealisti si nota in Kant la tendenza ad identificare lo spirituale con l’ideale. Ciò comporta ad un tempo per un verso una sopravvalutazione e per un altro una sottovalutazione dello spirito. Da una parte lo spirito appare come la verità e la realtà, mentre la materia si configura come apparenza e inganno. Ma dall’altra l’esistente è solo il sensibile – ecco l’empirismo - e lo spirito è pura essenza possibile o puro concetto astratto senza atto d’essere extramentale, il che poi alla fine significa che lo spirito non esiste e si arriva al materialismo.

Rileggiamo infatti il famoso passo sui cento talleri:

«Cento talleri reali» (cioè esistenti) «non contengono assolutamente nulla» (dal punto di vista dell’essenza) «di più di cento talleri possibili» (non esistenti). «Perché dal momento che i secondi denotano il concetto e i primi invece l’oggetto e la sua posizione in sé, nel caso che questo contenesse di più di quello il mio concetto non esprimerebbe tutto l’oggetto» (se concepisco un’essenza, non vuol dire ancora che questa essenza esista nella realtà), «e però anch’esso non ne sarebbe il concetto adeguato» (invece è un concetto adeguato perché bada solo all’essenza e non tiene conto dell’esistenza). Ma rispetto allo stato delle mie finanze» (cioè se bado all’essenza) «nei cento talleri reali c’è di più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità)» (c’è appunto l’esistenza. Per questo tutti noi preferiamo possedere cento talleri reali che cento talleri possibili: l’esistente è la perfezione o atto dell’essenza). «Infatti l’oggetto, per la realtà, non è contenuto senz’altro analiticamente nel mio concetto» (nel quale considero solo l’essenza, non l’esistenza), «ma s’aggiunge sinteticamente al mio concetto (che è una determinazione del mio stato), senza che per questo esser fuori del mio concetto» (l’esistenza è «fuori» cioè è distinta dall’essenza) «questi cento talleri stessi vengano ad essere menomante accresciuti» (l’aggiunta dell’esistenza non perfeziona l’essenza ma l’ente)[14].

Senonchè ecco la discriminazione fra gli oggetti del senso e quelli spirituali o del «pensiero puro»

«Sia quale e quanto si voglia il contenuto del nostro concetto di un oggetto, noi dunque dobbiamo sempre uscire da esso, per conferire a questo oggetto l’esistenza. Negli oggetti dei sensi questo accade mediante la connessione con una delle mie percezioni secondo leggi empiriche; ma per gli oggetti del pensiero puro non c’è assolutamente mezzo di conoscere la loro esistenza, poiché questa dovrebbe conoscersi interamente a priori; ma la nostra conoscenza di ogni esistenza (o per la percezione immediatamente o per ragionamenti, che rannodano qualche cosa alla percezione) appartiene in tutto e per tutto all’unità dell’esperienza; e un’esistenza fuori di questo campo non può certo essere dichiarata assolutamente impossibile, ma è un’ipotesi che non abbiamo modo di giustificare»[15]

Per questo Kant non riesce a distinguere concettualmente l’essenza di Dio dall’esistenza di Dio, benché sia da tener presente che in Dio e solo in lui essenza ed esistenza realmente coincidono; Dio è la sua essenza e il suo essere. Dio non ha l’essere, ma è l’essere. È l’essere sussistente.  Dio esiste per essenza. Il suo essere, la sua essenza è quella di esistere.  Si può dire Dio è (Es 3.14) e Dio esiste. L’è nell’ente contingente richiede un predicato nominale (io sono un uomo), ma non lo richiede l’esistere (io esisto).

Infatti l’esistere significa semplicemente il possesso dell’esistenza e non si pronuncia sull’essenza del soggetto. Invece il predicato dell’essere con o senza predicato nominale si pronuncia sull’essenza del soggetto e in Dio l’essere può essere predicato senza predicato nominale, perché il predicato dell’essere in Dio contiene ogni possibile predicato nominale.

Infatti il predicato dell’essere in Dio è semplice copula quando si definiscono gli attributi dell’essenza o natura divina. Qui infatti congiungiamo due concetti diversi: Dio e un attributo divino. Ma quando predichiamo di Dio l’essere simpliciter (Egli È o Io Sono), non abbiamo più un soggetto e un predicato nominale, perchè nel predicato dell’essere c’è già virtualmente tutto ciò che può costituire qualunque altro predicato o attributo divino. Pertanto, dicendo che Dio È, vogliamo significare che Egli è assolutamente, infinitamente, perfettissimamente e che la sua essenza è quella di essere.

Se invece diciamo Dio esiste, non diciamo tanto quanto esprimiamo con Dio È. Infatti, quando diciamo Dio esiste ci limitiamo ad affermare l’esistenza di colui la cui essenza è quella di essere colui che è non può non esistere. Se invece diciamo Dio È affermiamo non solo che esiste ma anche il suo essere, che è l’ipsum Esse per se subsistens. Quando Dio si rivela a Mosè non dice Io esisto, perché questo Mosè lo sapeva già, ma gli rivela il suo nome, ossia qual è la sua essenza.

Kant non ha difficoltà a concepire Dio come puro spirito. Ma è proprio qui che egli incontra la difficoltà ad ammettere l’esistenza di Dio, perché per lui, come abbiamo visto, l’esistente è solo l’empirico. Lo spirito è solo l’essenza, il possibile, l’idea. Per questo dice che Dio è un ente ideale, un ente di ragione e non reale.

Kant parla bensì di ens supremum, ens realissimum o di ens necessarium. Con tutto ciò, tuttavia, egli non intende riconoscere l’esistenza reale dell’essere divino, ma solo affermare la sua essenza, che per lui è un’essenza semplicemente ideale: l’ideale della ragione.

Kant non dice che Dio esiste necessariamente perché Dio esiste per essenza o perché la sua essenza è quella di esistere. E questo perché il suo concetto di esistenza, legato alle cose materiali, non gli permette di applicarla a Dio, ente spirituale.

Fine Terza Parte (3/4)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 febbraio 2022

Kant distingue l’essere (sein) dall’esistere (existieren). Così egli riconosce che il termine «Dio» può essere soggetto sia del predicato dell’essere e sia di quello dell’esistere. Kant conosce la differenza tra l’esistere e il non-esistere. Per dare l’esempio di un ente che non esiste egli cita la chimera. Giustamente ritiene che credere esistente ciò che non esiste è illusione.

Il trascendentale kantiano non è ontologico ma gnoseologico; non riguarda cioè l’ente, ma il modo col quale l’intelletto conosce l’ente, secondo il modulo della gnoseologia cartesiana.

Trattando degli angeli, li considera come soggetti fantastici o mitologici, senza rendersi conto dell’aspetto angelistico della sua gnoseologia, simile a quella di Cartesio, dove l’intelletto e il senso non si uniscono promanando dall’unica anima spirituale, forma sostanziale del corpo, ma sembrano due soggetti distinti, senza che appaia il modo di come collegarli per formare quell’unica sostanza che è l’uomo.

«Cento talleri reali» (cioè esistenti) «non contengono assolutamente nulla» (dal punto di vista dell’essenza) «di più di cento talleri possibili» (non esistenti).

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[1] Critica della ragion pura, op.cit., p.536.

[2] I.Mancini, Kant e la teologia, op.cit., pp 209-219.

[3]Critica della ragion pura, op.cit., p. 481.

[4] Sebastian Künkler, Kant e la determinazione. Fondazione e anfibolìa nella prima Critica, Marsilio, Venezia 2009.

[5] Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza, Editori Laterza, Bari 1982, pp.126-127.

[6] Critica della ragion pura, op.cit. pp.499-502.

[7] Paolo Ceresa, Studi kantiani, Roma 1923, p.23.

[8] Cf Concetto Baronessa (ed.) La critica kantiana della «ragion pura» e la metafisica, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2018.

[9] Ibid.

[10] Künkler, op.cit.

[11] Critica della ragion pura, op.cit., pp. 481-482.

[12] Sept leçons sur l’être, Téqui, Paris 1935, p.56.

[13] Dell’unico argomento possibile per una dimostrazione dell’esistenza di Dio.

[14] Critica della ragion pura, op.cit., p.482.

[15] Ibid., p.483.

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