La lealtà del parlare del pensare e dell’agire - Seconda Parte (2/2)

 

La lealtà del parlare del pensare e dell’agire

 
Seconda Parte (2/2)

Le divisioni nel campo del sapere  e nel campo morale

Nei sensi suddetti Cristo divide e crea divisioni. Ma si tratta di divisioni salutari, per le quali si mettono le carte in tavola, doverose divisioni che, nel rispetto dovuto all’errante o allo stesso ipocrita, lo smascherano mettono in luce l’opposizione fra il vero e il falso, il bene e il male,  al fine di affermare il vero contro il falso e il bene contro il male. Questo vuol dire metter pace. La pace è il trionfo del vero sul falso, del bene sul male, dell’onestà sulla disonestà, della limpidezza sulla doppiezza.

Esiste pertanto un dividere o contrapporre sano, doveroso e costruttivo, che è opera dell’intelletto, o del discernimento, del tutto normale e necessario al suo funzionamento. È l’atto del distinguere, per cui diciamo che questo è distinto da quello, questo non è quello, la materia è distinta dallo spirito, il corpo è distinto dall’anima, l’uomo è distinto dall’animale o da Dio, il pensiero è distinto dall’essere e così via.

Ci sono distinzioni metafisiche, come l’essere dall’essenza, la sostanza dall’accidente, l’atto dalla potenza e distinzioni logiche: il genere dalla differenza o dalla specie, l’individuale dall’universale, il categoriale dal trascendentale.

Occorre dunque notare che esiste una divisione che riguarda la logica, relativa al parlare e al pensare e una divisione reale, relativa all’agire e alla morale. Un conto è dividere il genere dalla differenza e un conto è dividere una mela in due metà. Le cose infatti vanno diversamente nei due casi: se divido una mela, la mela intera non c’è più. Se invece divido un genere nelle specie, il genere resta intatto, perché le specie stanno all’interno del genere.

Per esempio prendendo il genere animale, quando ad esso aggiungo le differenze razionale e non-razionale, il genere resta intatto. Ora è interessante notare le conseguenze di questi concetti della logica sul piano per esempio dell’etica sessuale. I detti concetti, infatti, fanno riferimento alla natura animale della persona umana, per cui da qui si arguisce ciò che potrà essere secondo natura o contro natura nel campo della condotta sessuale.

Questa è la differenza fra il dividere in senso fisico, come dividere una mela, e il dividere in senso logico un genere nelle sue differenze, cosa che è possibile perché siamo nel campo del pensiero e dello spirito.

Nel mondo materiale certamente un caso come quello delle differenze logiche non è possibile. Infatti il dividere logico è cosa normale e necessaria, purchè si sappia dividere secondo le regole della logica. Invece il dividere fisico o materiale può essere cosa buona o cattiva a seconda delle circostanze e del genere o specie dell’atto che si compie.

Nel campo della vita ecclesiale le divisioni non sono una cosa buona, e dicono conflitto e discordia, in quanto deformazioni delle distinzioni di valori e di uffici o di ministeri, che invece sono necessari per il buon ordine e la pace della vita ecclesiale.

Occorre inoltre distinguere una contrarietà fisico-ontologica da una contrarietà morale. Freddo e caldo sono contrari sul piano della fisica. Ma questa è una contrarietà del tutto naturale. Invece il voto contrario ad un certo candidato nelle elezioni politiche è una scelta morale che mette in gioco il bene e il male morale.

La contrarietà nell’essere non dice necessariamente esclusione pratica del contrario. Non dice contrasto morale. Misericordia e giustizia sono due virtù contrarie sul piano dell’essenza, perché l’una toglie la sofferenza mentre l’altra infligge la pena, ma ciò non vuol dire che non possano essere esercitate alternativamente sul piano della prassi.

Esiste invece sul piano del pensiero e della ragione speculativa un’attività divisoria, che nulla ha a che vedere con l’esser divisivo sul piano delle relazioni interpersonali e sociali. Il dividere, nel primo caso, è atto naturale, costruttivo, perfettivo, benefico, organizzatore ed ordinatore dell’intelletto o della ragione: il distinguere, il cogliere differenze e diversità, la percezione dell’altro non necessariamente nemico od ostile, ma anzi fatto per congiungersi e coordinarsi con te o con me.

Così pure esiste un separare che può essere atto ontologico, e quindi operazione logica da un separare come atto morale. Un conto è l’anima che si separa dal corpo al momento della morte e un conto sono due coniugi che si separano. Il primo è un atto naturale, il secondo può essere un atto biasimevole.

Ogni cosa è distinta dall’altra, specie se è singolare. Esistono distinzioni reali e distinzioni concettuali. Distinzione reale è distinzione fra due realtà: per esempio il fegato è distinto dal cuore. Distinzione concettuale, per esempio, è quella tra gli attributi divini, perché in Dio tutto è uno; eppure bisogna distinguere per esempio l’intelletto dalla volontà.

Una cosa è differente da un’altra se si tratta di un’essenza. La differenza è differenza per qualcosa: l’uomo differisce dall’animale per il fatto che possiede la ragione. Invece una cosa è simile o diversa rispetto ad un’altra se si tratta di un ente singolare. Paolo è diverso da Giovanni per tutto stesso. Esistono poi distinzioni materiali o individuali e distinzioni formali o specifiche o essenziali. Giovanni è distinto materialmente da Paolo; l’animale è essenzialmente o formalmente distinto dall’uomo.

La distinzione formale è distinzione fra forme o essenze o gradi di essenze, che possono formare o un unico ente reale o un’unica sostanza, sia pur dotata di un’essenza individuale. Per esempio nell’anima umana noi distinguiamo tre livelli formali: quello della vita vegetativa, quello della vita sensitiva e quello della vita razionale.

Noi possiamo distinguere tra due forme o predicati astraibili presenti in un’unica realtà, natura o sostanza, come per esempio possiamo astrarre l’animalità e la razionalità nella natura umana. Ma possiamo operare una distinzione formale su base reale (ex parte rei) come sostiene Duns Scoto? Se si tratta di due forme, di due predicabili concettualizzati aventi il medesimo soggetto reale, come è possibile che la distinzione abbia base reale se il soggetto reale è uno solo?

Allora sono due realtà? No, risponde Scoto; la sostanza reale è una sola. Ma si può obbiettare: non è tale operazione un voler reificare l’ente di ragione, ossia la forma concettualizzata? Non è un confondere un’operazione logica (distinzione fra animalità e razionalità) con un atto gnoseologico che tocca il reale (uomo)? Scoto sembra voler introdurre un piano intermedio di essere tra il reale e il concettuale, quando essi si oppongono per contraddizione, per cui tertium non datur. Il reale non è l’ideale e l’ideale non è il reale.

L’altro come il nemico. L’Io di Fichte

La distinzione è il principio dell’alterità, della diversità e della molteplicità. L’errore nella concezione fichtiana dell’io è che Fichte non oppone l’io all’altro, o al tu, ma al non-io, sicchè l’altro diventa il nemico, diventa la negazione dell’io e l’io diventa la negazione dell’altro. O io o lui. Quello che dovrebbe essere un et-et, diventa un aut-aut. Non c’è posto per entrambi. Se voglio esistere io occorre che l’altro non esista. Mors tua vita mea. Ma se il diverso è il male, allora il male è il diverso e col pretesto del diverso passa ogni forma di mostruosità morale.

Inoltre, io, per Fichte, non sono in relazione con l’altro, ma «pongo» (setzten) l’altro e non lo pongo fuori di me, ma in me. Non dipendo dall’altro, cioè da Dio, ma solo da me stesso. Semmai sono io a porre Dio. Non sono ordinato all’altro, perché non posso esser ordinato al mio nemico. L’altro non è per me, ma contro di me. Vediamo qualche dichiarazione di Fichte.

 

«Io sono io, se io sono posto, sono posto. Ma poiché il soggetto della proposizione è il soggetto assoluto, il soggetto senz’altro, così in quest’unico caso insieme con la forma della proposizione è posto in pari tempo il contenuto: io sono posto perché mi sono posto. Io sono perché sono».

È evidente qui la confusione fra l’io umano è l’io divino. L’io appare una volta come divino quando è dichiarato assoluto; ma appare come umano, ossia come causato da un porre, quando dice che «sono posto»[1]. Fichte continua:

 

«Posto che l’Io sia il concetto supremo e che all’Io sia contrapposto un non-Io, è chiaro allora che quest’ultimo non potrebbe esser contrapposto senza essere posto anzi nel concetto supremo dell’Io. Quindi l’Io si dovrebbe considerare in duplice riguardo: come ciò in cui è posto il non-Io e come ciò che è opposto al non-Io e perciò stesso sarebbe posto nell’io assoluto»[2]

Qui tutto avviene nell’Io e niente fuori dell’Io. Io e non-io sono nemici mortali ed inconciliabili obbligati a coesistere entro l’Io, per consentirgli di essere io perché per Fichte l’Io non è Io se non oppone a sé il non-Io. Io e non Io, amici-nemici sono eternamente, necessariamente ed assolutamente avvinghiati in un abbraccio logico mortale che costituisce il principio stesso costitutivo dell’Io.

Ora, osserviamo che è all’io umano non a quello divino, che è contrapposto un non-io; il vero Io divino esiste assolutamente, senza che abbia bisogno di alcun non-Io per farlo esistere. C’è inoltre da osservare che se il non-Io è «posto nel concetto supremo dell’Io», allora il non-Io entrerà nell’essenza dell’Io. Ma se questo è posto, sarà un prodotto dell’Io. E quindi sarà l’io umano. E dunque l’Io è ad un tempo assoluto e prodotto dell’Io come non-Io. Siamo nel pieno dell’assurdità.

Ci potrebbe essere una concezione più orribile di questa dell’io e del suo rapporto sociale e con Dio? Il bello è che quando Fichte fu accusato di ateismo per questa concezione dell’Io, se ne sdegnò duramente e ritorse l’accusa ai suoi accusatori[3].

Questa terribile confusione fichtiana fra negazione-opposizione ed alterità-diversità passerà poi in Hegel come cardine del potere del negativo che percorre tutti i piani e gli ambiti dell’essere, concepito esso stesso come contradditorio: l’essere si afferma negando se stesso e riconciliandosi con sé ed identificandosi l’essere col non-essere nel divenire, falsa rappresentazione della vita dello spirito, che vive invece nell’identità del proprio essere come atto d’essere che si apre alla molteplicità e alla diversità.

Per camminare dunque verso la concordia, il pluralismo, la riconciliazione e la pace sia  nella società che nella Chiesa occorre liberarsi da questo equivoco gravissimo che il contrario o l’opposto coincida col diverso e viceversa, e recuperare la distinzione fra l’aut-aut del principio del terzo escluso e l’et-et basato sulla visione analogica dell’essere, ossia la concettualità uni-molteplice, che giustifica veramente l’alterità, la diversità e la molteplicità non sulla negazione dialettica univocista ed astratta del sic et non, ma secondo la proporzionalità e corrispondenza delle relazioni ontologiche simili e il paradigma dell’immagine e della somiglianza.

La contraddizione nel pensiero di Hegel

Dovere fondamentale del pensare e del parlare è quello di non contraddirsi e di essere coerenti. Alcuni, come Hegel, credono che il divenire sia contradditorio, per cui, per esprimere la verità del divenire, sia lecito anzi doveroso contraddirsi. Così, per esprimere che l’ente diviene, Hegel dice che esso è e non è. Da qui la sua famosa identificazione dell’essere col nulla o col non-essere.

D’altra parte Hegel si rende conto dell’importanza dell’identità e della necessità di essere coerente nel pensare e nel parlare, ossia nel rispetto del principio di non-contraddizione. E allora come risolve il problema? Con la sua famosa dialettica.

Siccome da una parte non vuol rinunciare ad ammettere l’unione dell’essere col non-essere, che secondo lui rappresenta la verità dell’essere, e d’altra parte capisce che ogni ente ha una sua identità, invece di respingere il contradditorio per affermare l’identico, pretende di affermarli entrambi concependo l’identico come superamento e sintetizzatore e dominatore dei contradditori, così da tenerli fermi sotto il suo dominio ed in tal modo, secondo lui, si risolve la contraddizione; chè se invece  l‘intelletto si fissa sul sì e respinge il no, si isola dal no, resta in una posizione unilaterale e non coglie il vero nella sua interezza, perchè l’essere è sintesi di essere e non-essere[4].

In tal caso, secondo Hegel l’intelletto, volendo escludere ciò che va incluso – ossia il contradditorio - non risolve la contraddizione, ossia non la domina, ma soccombe sotto di essa. Vediamo allora che la logica di Hegel è esattamente l’opposto di quella voluta da Cristo e che troviamo anche in Aristotele. La logica cristiana scioglie la contraddizione mostrando che è solo apparente creando così la concordia, l’armonia, l’unione e la pace, oppure respinge il contradditorio perché impensabile.

La logica di Hegel invece conserva il contradditorio e il conflittuale proprio come elementi necessari all’esistenza della suprema unità ed identità, che è lo stesso Assoluto, che è semplice e quieto non per sua essenza, come nella visione cristiano-biblica, che è anche quella aristotelica, ma come risultato del processo della negazione dell’affermazione, ovvero dell’identificazione dell’essere col nulla.

Egli ha ben presente che l’uno è superiore al molteplice, solo che l’uno divino per lui non è assolutamente uno; non trascende il molteplice, ma è determinato dallo stesso molteplice e si determina nel molteplice, inteso come coesistenza dei contradditori. Quindi si tratta di una superiorità che non vince né toglie il falso e il male, non esclude e non nega il non-essere e non rifiuta l’incoerente e il contraddittorio, ma è in relazione con tutto ciò e tutto ciò include, conserva, domina, supera, conclude e racchiude in se stesso. 

Hegel riconosce che l’intelletto distingue e la ragione collega. Ma ritiene che nel distinguere, l’intelletto, astraendo ed isolando dal dato reale il contenuto conoscitivo considerato in se stesso e per se stesso fisso ed immobile, l’intelletto si isoli dal reale, che è concreto divenire.

Ora per Hegel l’attività astrattiva dell’intelletto è necessaria, ma insufficiente alla conoscenza della verità. Infatti solo nella congiunzione del sì e del no per Hegel si dà la verità. Ma qui vediamo quanto egli si scosti dalla regola fondamentale del giudicare che troviamo in Aristotele e nel Vangelo.

Infatti per Hegel il vero totale o intero sarebbe colto solo dalla ragione dialettica, che supera l’esclusivismo dell’intelletto fissato solo nel sì e che rifiuta il contradditorio, mentre la ragione dialettica includerebbe quel no – il «terzo escluso» -, che invece è ciò che l’intelletto onesto esclude. Ma ciò per la logica di Aristotele e del Vangelo non è che un servire a due padroni (il sì e il no) ed è quindi doppiezza ed ipocrisia.

La giustificazione logica della conflittualità non impedisce ad Hegel di concepire la riconciliazione dell’Assoluto come un’esigenza della sua dialettica: lo Spirito si aliena da sé nell’opposizione di sé a sé. Ma proprio il negativo è l’«immane potenza» che, sempre per necessità logica, produce il positivo e quindi il ritorno dello Spirito a se stesso.

Come ciò è possibile? Che cosa avviene esattamente? Come funziona il divino processo dell’Assoluto? Il punto fondamentale da ricordare è molto semplice: l’opposizione-identità dell’essere col nulla, ricordando che questo essere è l’Assoluto. Tutto avviene nello Spirito, dallo Spirito e per lo Spirito, che però non è uno Spirito come quello dell’ontologia aristotelico-biblica, causa del mondo e indipendente dal mondo, ma è lo «Spirito del mondo», quindi nel mondo e dal mondo, essenziale e necessario allo stesso Spirito.

L’equivoco fondamentale nel quale cade Hegel e che sta alla base del suo sistema con conseguenze disastrose per la costruzione di esso, è il suo modo sbagliato di concepire il giudizio, viziato dall’identità parmenidea di pensare ed essere e nel contempo dall’identità eraclitea di essere e divenire.

Constatando che nel giudizio c’è la sintesi di due concetti che si escludono a vicenda, Hegel credette che l’ente affermato nel giudizio sia la sintesi di due polarità logiche contrapposte. Ed ecco nata la sua dialettica come sintesi dell’opposizione fra una tesi e un’antitesi.

Hegel non ha capito che il soggetto e il predicato, benché concetti opposti tra di loro in quanto concetti, in quanto invece riferiti al soggetto reale, che è uno e il medesimo e circa il quale giudicano, si identificano tra loro nel soggetto reale.

Ora, anche Aristotele concepisce il giudizio come sintesi di opposti, precisando che ciò che è unito nel pensiero non è sintetico ma monadico nella realtà. In altre parole, se io dico l’uomo è un animale, è chiaro che il concetto di uomo non è il concetto di animale. Ma perché allora associo due concetti disparati se ciò a cui li riferisco è nella realtà una e medesima cosa, cioè l’uomo? Perché l’uomo è animale.

Falso sarebbe invece se dicessi che l’uomo è una scimmia. Questo vuol dire che, affinchè il giudizio sia vero, non bisogna preoccuparsi di attribuire al soggetto concetti disparati, ma occorre verificare se gli si approprino. Il principio di identità non è A=A. Questa è una vuota tautologia che non dice nulla. Il principio di identità si formula con una proposizione, con un giudizio, quindi una sintesi di soggetto (ogni ente) e predicato (è ciò che è), nel quale si congiungono concetti diversi proprio per esprimere l’identità o medesimezza (autòtes) e non-essere-altro-da-sé di ogni ente.

In tal modo il Dio di Hegel non è l’ipsum Esse, motore immobile, causa prima, ma essere-non-essere, finito-infinito, vero-falso, bene-male. Non è Ente identico a se stesso, ma «risultato» dell’opposizione essere-non-essere.

Per questo Dio, per Hegel, è essenzialmente esteso nello spazio con la sua molteplicità e coinvolto nelle contraddizioni del mondo e nell’evolversi dei tempi; ma essendo nel contempo l’Assoluto uno e semplice, se si aliena nel mondo, non può in forza della sua essenza non tornare a sé dal mondo, ma nel contempo conservando in sé e sotto di sé il mondo; in altre parole tener ferma la contraddizione dominandola, superandola, quindi pacificandola e risolvendola nella sintesi degli opposti.

L’origine dell’odierna conflittualità sociale ed ecclesiale

e suoi rimedi

Affermati questi princìpi di condotta morale e di rigore logico e speculativo, abbiamo in mano il criterio per valutare e risolvere, per quanto può dipendere dalle nostre forze umane,  la diffusa, multiforme e drammatica conflittualità oggi esistente nella Chiesa, per cui si tratta di vedere come applicare questi princìpi nel campo dell’attuale vita ecclesiale, dove da sessant’anni questa vita ecclesiale è travagliata da una serie interminabile di contrasti in particolare fra due fazioni, quella degli indietristi e quella del modernisti.

Questi conflitti, litigi e divisioni nella Chiesa sono spesso dovuti ad una cattiva pratica della negazione o incapacità di apprezzare il diverso ispirata dall’odio o dall’invidia o dalla superbia, da uno spirito fazioso ed ideologico di contraddizione col quale proviamo gusto nel negare fedeltà od obbedienza o nel respingere il parere o il comando dell’altro, magari autorevole, soprattutto se si oppone al nostro egoismo. E tiriamo fuori come scusa magari il rispetto della diversità o delle idee altrui, il diritto di critica, la libertà di coscienza, il pluralismo e cose simili.

Sono, queste, le divisioni sciagurate che distruggono la pace e la concordia, nelle comunità e nei rapporti interpersonali, provocate o dall’egocentrismo o dall’invidia o dal voler prevalere sugli altri o dalla mancanza di carità o dalla sordità ai valori comuni o da altri sordidi motivi.

È chiaro che qui per «divisione» intendiamo qualcosa di odioso, di innaturale, di cattivo: la separazione o contrapposizione di ciò che dovrebbe essere unito ed in accordo o in armonia con l’altro. Queste divisioni nascono o dall’invidia o dall’egoismo o dall’odio e procurano sofferenza all’odiato e all’odiante, anche se questi ci mette un gusto morboso. 

A tal riguardo colpisce a tutta prima la dichiarazione di Cristo «Non sono venuto a portare la pace, ma la divisione» (Lc 12,51) e stupisce il fatto che Simeone chiami Gesù «segno di contraddizione» (Lc 2,34). Qui Gesù sembra un fautore di guerre e conflitti piuttosto che un pacificatore e costruttore di pace e conciliazione.

Eppure è proprio mediante un’opportuna negazione, un’opportuna polemica, un’opportuna opposizione che noi mettiamo d’accordo i contendenti e realizziamo la pace nella verità. Giacchè il punto è proprio questo: non c’è pace basata sull’equivoco, sull’inganno, sulla menzogna, sull’opportunismo e sulla doppiezza.

Il contraddire a un avversario non implica necessariamente inimicizia nei suoi confronti, ma può essere finalizzato al suo stesso bene. E quand’anche l’avversario ci odiasse, mai siamo autorizzati ad odiarlo a nostra volta, come Cristo chiaramente insegna inculcando l’amore per il nemico, ossia la capacità di trovare lati buoni e pensieri giusti anche in chi non ci ama.

Dal resto, non esiste vera pace se non nella verità. Essa dipende sì dalla giustizia, ma niente giustizia se non esiste la verità, perchè la giustizia è la messa in pratica della verità. La questione della verità è ineludibile. Se non si risolve questa, nulla si risolve nell’esistenza e nella vita. Da qui l’accorata raccomandazione di San Paolo:

 

«Vi scongiuro, fratelli, nel nome di nostro Signore Gesù Cristo, che tutti diciate la stessa cosa (to autò), che non ci siano divisioni (schismata) fra voi; siate invece perfetti nello stesso intendimento (en to autò noi) e nella stessa sentenza (en te autè ghnome)» (II Cor 11,8).

Il che vuol dire che non può esserci accordo fra l’onesto e il falso. Va assolutamente bandita la tendenza oggi diffusa soprattutto fra i modernisti, al doppiogiochismo, all’ambiguità, alle frasi a doppio senso. Volendo accontentare tutti, cattolici e protestanti, si finisce per scontentare tutti, giacchè, se una medesima frase può essere tirata dal cattolico al suo senso, il protestante può fare lo stesso; ma se essa sa di protestantesimo al cattolico, questi la respinge; e ugualmente, se sa di cattolicesimo al protestante, questi la respinge.

L’uomo onesto ha il dovere di denunciare il falso ed annunciare il vero con chiarezza, senza ambiguità e doppiezza, come ha fatto Cristo, a costo di ricevere opposizioni e, se è possibile, ha il dovere di correggere o di richiamare l’errante. Deve chiarire che cosa ha inteso dire, quando viene frainteso o strumentalizzato.

Questo significa essere onesti nel pensare, nell’esprimersi e nel parlare. Per questo, Cristo da una parte insegna, conferma, approva, ragiona, domanda, risponde, esorta, comanda, consiglia, consola, conforta, compatisce, ma dall’altra contraddice, nega, si oppone, sbugiarda, confuta, rimprovera, accusa, polemizza.

In ogni caso questi fini che Cristo si propone, siano di edificazione, o siano di correzione sono sempre concepiti e perseguiti dalla sua immensa carità per ottenere conversione e l’entusiasmo dei cuori, lo zelo per le virtù, il pentimento dei peccatori, l’acquisto del timor di Dio, la fiamma del suo amore, il desiderio della santità, il proposito di non più peccare, la pregustazione del cielo, la speranza della salvezza e della vita eterna.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 novembre 2023

Esiste una divisione che riguarda la logica, relativa al parlare e al pensare, e una divisione reale, relativa all’agire e alla morale. Un conto è dividere il genere dalla differenza e un conto è dividere una mela in due metà.

Per esempio prendendo il genere animale, quando ad esso aggiungo le differenze razionale e non-razionale, il genere resta intatto. Ora è interessante notare le conseguenze di questi concetti della logica sul piano per esempio dell’etica sessuale. I detti concetti, infatti, fanno riferimento alla natura animale della persona umana, per cui da qui si arguisce ciò che potrà essere secondo natura o contro natura nel campo della condotta sessuale.

Nel mondo materiale certamente un caso come quello delle differenze logiche non è possibile. Infatti il dividere logico è cosa normale e necessaria, purchè si sappia dividere secondo le regole della logica. Invece il dividere fisico o materiale può essere cosa buona o cattiva a seconda delle circostanze e del genere o specie dell’atto che si compie.

 

Hegel non ha capito che il soggetto e il predicato, benché concetti opposti tra di loro in quanto concetti, in quanto invece riferiti al soggetto reale, che è uno e il medesimo e circa il quale giudicano, si identificano tra loro nel soggetto reale.

Ora, anche Aristotele concepisce il giudizio come sintesi di opposti, precisando che ciò che è unito nel pensiero non è sintetico ma monadico nella realtà. In altre parole, se io dico l’uomo è un animale, è chiaro che il concetto di uomo non è il concetto di animale. Ma perché allora associo due concetti disparati se ciò a cui li riferisco è nella realtà una e medesima cosa, cioè l’uomo? Perché l’uomo è animale. Falso sarebbe invece se dicessi che l’uomo è una scimmia.

 

Non esiste vera pace se non nella verità. Essa dipende sì dalla giustizia, ma niente giustizia se non esiste la verità, perchè la giustizia è la messa in pratica della verità. La questione della verità è ineludibile. Se non si risolve questa, nulla si risolve nell’esistenza e nella vita.

Immagini da Internet


[1] La dottrina della scienza, Edizioni Laterza, Bari 1971, p.41.

[2] Ibid., p.51.

[3] La drammatica vicenda, che ha del grottesco, è narrata con dovizia di dettagli dal Fabro nella sua opera monumentale Introduzione all’ateismo moderno, Editrice del Verbo Incarnato, Segni 2013, pp.543-576.

[4] Severino spiega bene il modo hegeliano di superare la contraddizione nel suo libro Autotes, Adelphi Edizioni, Milano 2009.

4 commenti:

  1. Caro padre Cavalcoli, ancora una volta un suo articolo molto illuminante, di grande attualità.
    Nell'elenco delle motivazioni del conflitto sociale ("...cattiva pratica della negazione o incapacità di apprezzare il diverso ispirata dall’odio o dall’invidia o dalla superbia, da uno spirito fazioso ed ideologico di contraddizione...") aggiungerei la disastrosa formazione filosofica e teologica del clero (compresi i Vescovi), alla quale si aggiunge l'arroganza e l'incoscienza dei laici che, approfittando delle strutture oggi esistenti per chiunque di pubblicare quello che vuole sulle reti, si lanciano a pontificare da cattedre che nessuno ha loro concesso, senza alcuna preparazione scientifica, filosofica o teologica, e talvolta senza aver mai letto il Catechismo della Chiesa Cattolica.

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    1. Ross Poldark22 dicembre 2023 alle ore 09:44

      Caro padre Cavalcoli, ancora una volta un suo articolo molto illuminante, di grande attualità.
      Nell'elenco delle motivazioni del conflitto sociale ("...cattiva pratica della negazione o incapacità di apprezzare il diverso ispirata dall’odio o dall’invidia o dalla superbia, da uno spirito fazioso ed ideologico di contraddizione...") aggiungerei la disastrosa formazione filosofica e teologica del clero (compresi i Vescovi), alla quale si aggiunge l'arroganza e l'incoscienza dei laici che, approfittando delle strutture oggi esistenti per chiunque di pubblicare quello che vuole sulle reti, si lanciano a pontificare da cattedre che nessuno ha loro concesso, senza alcuna preparazione scientifica, filosofica o teologica, e talvolta senza aver mai letto il Catechismo della Chiesa Cattolica.

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    2. Caro Ross,
      concordo con la sua analisi, che dà molta tristezza.
      Ciò tuttavia non ci deve scoraggiare, ma è un motivo per noi per aumentare il nostro impegno nel mettere tutte le nostre forze per ovviare a queste difficoltà, fornendoci di una adeguata preparazione e con grande fiducia nell’aiuto del Signore.
      E’ importante inoltre collegarci con tutti coloro che sono pronti a lavorare per la soluzione di questa situazione, seguendo l’esempio di coloro che tra noi si mostrano più capaci nel promuovere nella Chiesa la concordia e la pace e aiutare il Papa nel suo delicato e stupendo compito di padre comune e di principio di unità nella Chiesa.

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