L’atteggiamento
del cristiano nei confronti della sofferenza
Prima parte
Il paradosso
cristiano della sofferenza
In questi mesi di grande prova per tutti a
causa della pandemia, è balzata più che mai alla ribalta la domanda sul perchè
e sull’origine della sofferenza, e su come vincerla, oltre che naturalmente su
come vincere il virus insidioso e mortale che ne è all’origine. Era questa
l’occasione per teologi e pastori per ricorrere al ricchissimo patrimonio della
sapienza cristiana, onde offrire risposte, rimedi e proposte, che solo lei sa
dare.
Sarebbe stata una buona occasione per esporre
la dottrina cristiana sull’origine del male e della sofferenza, sul peccato
originale e sulle sue conseguenze, sulla causa, la natura e il castigo del peccato,
sulla vittoria sul peccato mediante la croce di Cristo. E invece niente o quasi
niente. Si è lasciato il popolo di Dio affamato di verità e bisognoso di conforto
e consolazione che vengono dalla Parola di Dio senza nutrimento salutare.
Devo quindi dire che purtroppo teologi e
pastori hanno mostrato su questo importantissimi argomenti che riguardano la
salvezza gravi lacune dottrinali e una sconfortante impreparazione, non solo,
ma anche vedute errate, sconfinanti con l’eresia, una vera calamità, la quale,
come ulteriore sciagura spirituale, è venuta a dare false consolazioni, a
sviare e turbare le coscienze e ad aggiungersi alla sciagura già grave della
pandemia, come se questa non fosse già sufficiente ad abbattere e disorientare gli
animi e a mettere a dura prova gli spiriti più forti. Invece di fornire la
medicina e il conforto austeri ma salutari che ci vengono dal Vangelo, si è
distribuita una droga spirituale atta ad addormentare le coscienze e a
lasciarci nei nostri peccati e dando ragione a Marx, quando parla della religione
come oppio dei popoli.
La concezione cristiana della sofferenza ha
qualcosa di paradossale ed apparentemente contradditorio, perché pare che il
cristiano rifiuti e ad un tempo ami la sofferenza, sicché Dio stesso è un Dio
che da una parte toglie la sofferenza, ma dall’altra la manda. Tanto più
bisognerebbe trattarne, proprio per sciogliere questo paradosso, come tenterò
di fare io in questo articolo. La visione di un Dio che toglie la sofferenza
assieme al rifiuto della sofferenza risponde senza difficoltà ai bisogni
istintivi della natura umana e alla concezione naturale di Dio. L’uomo ama
naturalmente il piacere e rifugge naturalmente dal dolore ed è logico aspettasi
da Dio infinitamente buono l’elargizione o la concessione di tutto ciò che ci
arreca piacere e felicità.
Non riusciamo invece a tutta prima a capire
come si possa amare o cercare la sofferenza e come un Dio buono possa volere o
permettere cose che ci fanno soffrire o ci dispiacciono. Un Dio del genere ci
ripugna e così pure amare o cercare la sofferenza ci pare una cosa morbosa. Ci
capitano già tante sofferenze non cercate. Andare poi anche a cercarle ci pare
il colmo della stoltezza.
Per capire
il mistero cristiano della sofferenza, occorre partire dall’idea apparentemente
paradossale di un Dio buono che può mandare la sventura per il nostro bene,
partendo dall’analogia col medico che dà una cura dolorosa o dal maestro che
corregge il discepolo o dal signore che castiga il suddito. Così si
giustificano le parole di Giobbe: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo
accettare il male?» (Gb 2,10).
Come a dire:
sappiamo che Dio è buono; se decide di farci soffrire, dev’esserci un motivo
plausibile, dev’essere a fin di bene, anche se non abbiamo coscienza d’aver
peccato, per cui, anche se per il momento non sappiamo il perché di questa
sofferenza, occorre aver pazienza, e fiducia ed attendere. Passerà e sapremo il
perchè.
Tanto più dunque
riprovevoli sono stati in questi mesi di pandemia i predicatori che si sono succeduti,
i quali, come cattolici, conoscono o dovrebbero conoscere il perchè Dio manda la
sventura. «Il Signore corregge colui che Egli ama» (Eb 12,6); «chi teme il
Signore, accetterà la correzione» (Sir 32,14); «castigando il suo peccato tu
correggi l’uomo» (Sal 39,12). Per non parlare del mistero della sofferenza
redentrice. Eppure, anche su ciò hanno taciuto.
Da ciò viene che esiste un modo cristiano di considerare
cosa buona un certo soffrire, che però occorre spiegare con cura per evitare
incresciosi equivoci e non cadere nelle patologie del masochismo,
dell’autolesionismo, del dolorismo, del vittimismo, della frigidità sessuale o
dell’anoressia. Questo modo cristiano è la risorsa fondamentale dell’ascetica
cristiana e della via cristiana alla perfezione e alla santità, quel «Cristo
crocifisso», del quale parla San Paolo (I Cor1,23), «scandalo per i Giudei,
stoltezza per i pagani».
Il paradosso cristiano circa la concezione
della sofferenza sembra giungere al culmine ed allo scandalo con le famosissime
«beatitudini evangeliche» del cap.5 del Vangelo di Matteo, dove Cristo proclama
beata tutta una serie di sofferenti per vari motivi, dove facilmente potremmo
rintracciare anche i colpiti dalla sventura, nel riferimento agli «afflitti» (Mt
5,4) e nel riferimento lucano a «coloro che piangono» (Lc 6,21).
Ma piangono per che cosa? Perché colpiti dalla
calamità? Certamente. Ma non potrebbero piangere anche perchè pentiti dei loro peccati?
E come sarebbero arrivati a pentirsi? Riflettendo
sul perchè della mano pesante del Signore. Ora in tanti bei discorsi fatti per
darci conforto e consolarci della pandemia non era forse il caso di accennare a
queste parole di consolazione evangelica? E invece niente.
Certo diciamo
subito che non si tratta di amare la
sofferenza per sé stessa o come tale, perché ciò sarebbe patologico e colpa
morale, ma di amarla in quanto mezzo di
perfezionamento morale o ancor più, per un cristiano, perché fatta propria
per amor nostro e a gloria di Dio da Nostro Signore Gesù Cristo, come mezzo di espiazione e di redenzione dei
peccati, per ottenere la vita eterna e la stessa liberazione dalla
sofferenza.
Questo
infatti è il senso delle parole di San Pietro: «Portò i nostri peccati sul suo
corpo sul legno della croce» (I Pt 2,21), di quelle di San Paolo: «Cristo si è
offerto a Dio in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2) e di quelle di S.Giovanni:
«Gesù Cristo è vittima di espiazione per i nostri peccati» (I Gv 2,2). Ma il
Padre ha voluto per sua misericordia verso di noi, che anche noi a nostra volta,
in Cristo potessimo contribuire a sdebitarci dei nostri debiti e quindi a
meritare, grazie ai meriti di Cristo, la nostra salvezza.
In questa
luce San Paolo ci esorta: «offrite i vostri corpi come sacrificio vivente,
santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto ragionevole (gr. loghikòn, vulg. rationabile) (Rm 12,1). Il culto cristiano è ragionevole non nel senso
che sia un semplice culto di religione naturale, ma in quanto, pur fondato sulla
fede in Cristo, non è contrario alla ragione, benché sembri assurdo che la
sofferenza liberi dalla sofferenza
Eppure il paradosso cristiano della salvezza si
potrebbe proprio esprimere in questo assioma: occorre la sofferenza per liberarsi dalla sofferenza. Ma il
paradosso si scioglie e si rivela un piano di divina sapienza, se pensiamo che
questa sofferenza è la sofferenza di un uomo-Dio, il Quale, soffrendo come
uomo, che si offre come vittima di espiazione per i peccati del mondo, essendo
anche Dio, Che è impassibile e non può
soffrire, con la sua onnipotenza può togliere la sofferenza.
Per non cadere nell’assurdo e nell’eresia,
bisogna allora chiarire bene che la liberazione dalla sofferenza non viene da un
Dio «sofferente», come oggi purtroppo molti credono, ma dalla sofferenza umana di Cristo, che è salvifica[1]
perché Cristo uomo è lo strumento umano ipostaticamente congiunto alla divinità
del Figlio.
Ciò non impedisce di parlare con sobrietà e
prudenza, in senso metaforico, del Padre che «soffre» per i peccati dell’uomo e
per la morte del Figlio, ma guardandosi bene dall’insinuare che il sacrificio del
Figlio non sia stato voluto dal Padre. La morte come tale di Gesù è stata certamente voluta dai suoi uccisori, i quali
con ciò hanno commesso un peccato
gravissimo e incommensurabile. Ma la morte di Cristo come sacrificio
redentore è stata voluta dal Padre ed accettata da Cristo stesso per amor
nostro e voluta dal Padre per la gloria di Cristo e la salvezza dell’umanità.
Come il
cristiano affronta il problema della sofferenza
Lo sforzo principale, che la predicazione
cristiana deve fare per persuadere il mondo della bontà della visione cristiana
circa la tematica della sofferenza, si concentrerà allora evidentemente non tanto su quanto la
ragione può dettare in merito, come la sopportazione della sofferenza, la lotta
contro la sofferenza o la sofferenza come prezzo da pagare nel campo
dell’ascetica o condizione per vincere le battaglie della vita, quanto
piuttosto su ciò che la fede insegna circa la valorizzazione della sofferenza nel
senso indicato sopra.
La giusta pastorale della sofferenza deve
dunque avere un inizio ben preciso e mirare ad uno scopo ultimo ancora più
preciso: insegnare alla gente, soprattutto ai sofferenti, ma anche a coloro che
sono causa di sofferenza per il prossimo, come i peccatori, il significato e il
valore cristiano della sofferenza. Si deve cominciare col mostrare chiaramente come
per noi cristiani, come per ogni uomo e ragionevole e normale, la sofferenza è
un male dal quale ci dobbiamo liberare e contro il quale occorre lottare con le
armi della pazienza, della speranza e della medicina, soccorrendo, per quanto ci
è possibile i sofferenti, gli sventurati, i poveri, gli oppressi, gli afflitti,
gli emarginati, gl’infelici e i malati,
apprezzando nel contempo la sofferenza volontaria, propria dello sforzo
ascetico, del sacrificio e della rinuncia per servire il prossimo o per amore
di una vita spirituale superiore.
Bisogna stare attenti a non fermarsi a metà
strada e non andando oltre per timore di essere fraintesi o di suscitare una
reazione di sdegno per il fatto che il non-credente non è in grado di capire
come l’avvento di una sofferenza possa per il cristiano essere motivo di gioia
e gratitudine a Dio misericordioso. Si rischia allora, come ripiego, di fermarsi
in un solidarismo meramente umano, per quanto lodevole e doveroso, dove noi
cattolici siamo certamente chiamati a dare l’esempio, ma occorre anche che noi cattolici
troviamo il modo, con cautela e discrezione, di far capire ai sofferenti che
occorre interpretare la sventura sì come male, dal quale liberarsi, ma nel
contempo anche come occasione che Dio offre per far penitenza dei peccati ed
ottenere il suo perdono rinnovando il proposito di emendarci. Con la sventura,
ci insegna la Bibbia, «Dio vuol provare i figli dell’uomo» (Qo 3,18).
Limitarsi, come tanti pastori hanno spinto a
fare ed hanno fatto, a pregare per il sollievo o la guarigione dei sofferenti,
per l’eterno riposo dei defunti, per il personale medico ed infermieristico,
perché venga presto trovato il vaccino e a chiedere insomma a Dio la
liberazione dal morbo, è certo cosa doverosa e segno di fede, ma la preghiera
migliore sarebbe stata ed è quella di chiedere la forza di accettare questa sofferenza
dalle mani di Dio in sconto dei peccati e per il loro perdono, così da di
trasformare la sofferenza in sacrificio gradito a Dio, in unione con Cristo, che
si è offerto al Padre per noi «in sacrificio di soave odore» (Ef 5,2).
La preghiera migliore è quella circa la quale
possiamo esser certi che Dio ci esaudisce prontamente. Ora, il chiedere a Dio
di esser liberati da un male fisico non dà quella certezza di essere esauditi,
che ci dà il chiedere di essere liberati da un male che impedisce od ostacola
il cammino della salvezza della nostra anima, come il chiedere di poter espiare
degnamente le nostre colpe, di essere perdonati dei nostri peccati, di trarre
profitto da questa pandemia per fare degna penitenza e convertirci, chiedere di
poterci offrire per la salvezza dei peccatori. Invece Dio, per il bene della
nostra anima, può aver deciso di non soddisfare le nostre richieste che la
sofferenza cessi, perché questa sofferenza può servirci per purificarci dai
nostri peccati. Questi sono i discorsi che avrebbero dovuto farci i nostri
pastori: e come mai non si sono sentiti?
Evidentemente
assistiamo a un calo di fede o al timore troppo umano di esser presi per
doloristi o vittimisti, quando invece si tratta qui di conforti che vengono
dall’insegnamento e dall’esempio di Cristo e di tutti i Santi. Era l’occasione
buona per rivisitare il senso cristiano della sofferenza, eliminare equivoci,
fraintendimenti e calunnie, e dare alle anime quella consolazione, quella
pazienza, quella guarigione, quella speranza, quella pace, addirittura quella
gioia, che solo il mistero della croce può dare.
Bisogna dire
altresì che particolare stima ha l’etica cristiana per la virtù della pazienza,
e in ciò può ricordare l’ideale degli stoici «sustine et abstine», ma il
modello è Cristo, che, per amor nostro, ha sopportato da innocente il peso dei
nostri peccati per ottenerci il perdono del Padre. Alcuni passi significativi: «sappi
sopportare le sofferenze» (II Tm 4,5); «beato chi aspetterà con pazienza» (Dn
12,12); «il frutto dello Spirito è pazienza» (Gal 5,22); «prendete a modello la
pazienza dei profeti» (Gc 5,10); «la prova della vostra fede produce la
pazienza» (Gc 1,3); «è meglio soffrire operando il bene che facendo il male» (I
Pt 3,17).
Occorre invece segnalare che purtroppo su
questi temi di vitale importanza in molti discorsi ed articoli apparsi nella
stampa e nei media online di prelati,
teologi ed intellettuali cattolici non solo essi si siano fermati soltanto su
di un piano troppo esclusivamente umano, senza elevare lo sguardo alle realtà
della fede, ma addirittura abbiano in molti casi travisato lo stesso concetto
cristiano della sofferenza, insieme con altri concetti ad esso annessi, come
quello del castigo divino, della penitenza, dell’origine del male, della
misericordia e della giustizia divine, della bontà e della malvagità umana, del
rimedio al peccato, del sacrificio redentore, del rapporto della natura con
Dio.
Errori da
evitare
Facciamo un breve elenco degli errori, senza
pretesa di completezza:
1. Dio è buono,
ci ama e quindi non può mandare la sofferenza.
2. Dio ha
misericordia di tutti, salva tutti e non castiga nessuno.
3. Quindi la
pandemia non può essere un castigo divino.
4. La pandemia
è un castigo che ci viene dalla natura, perché l’abbiamo maltrattata.
5. Quindi
offendere Dio non ha conseguenze, perché Dio perdona. Invece dobbiamo stare
attenti a non offendere la natura, perché questa non perdona.
6. Quindi non
occorre temere Dio, ma invece bisogna temere la natura.
7. Dunque la
natura non agisce perché mossa da Dio, ma è una divinità autonoma. Se vogliamo
non avere disgrazie, l’importante è non offendere la natura.
8. Le
sofferenze di questa vita non ci sono mandate da Dio, ma sono solo causate o
dagli uomini o dalla natura.
9. Non è vero
che tutti coloro che soffrono, soffrono in punizione di peccati commessi,
perché c’è chi soffre da innocente.
10.Noi non soffriamo per le conseguenze del peccato originale, un peccato
realmente commesso dalla coppia primitiva e la cui colpa è trasmessa a tutta
l’umanità per generazione, perché questo è semplicemente un mito per spiegare
il male del mondo;
11.La sofferenza è un male assoluto, non può mai essere buona o
utile, tanto meno salvifica. E quindi va evitata sempre, con ogni mezzo e ad
ogni costo;
12.La sofferenza, quindi, non può essere espiativa, riparatrice,
soddisfattoria, redentrice dal peccato, perchè Dio perdona tutti gratuitamente,
senza meriti, indipendentemente da opere e sacrifici.
13.Cristo, quindi, non è morto per volontà del Padre per espiare al nostro
posto i nostri peccati, perché sarebbe crudele un padre che vuole la morte del
figlio. Cristo non merita per noi la remissione dei peccati col suo sacrificio
come uomo-Dio, ma è semplicemente il profeta escatologico martire della
giustizia e della libertà.
Sarebbe troppo lungo qui confutarli tutti uno
per uno. Ho preferito qui trattare del significato cristiano della sofferenza.
Da quello che dico qui l’avveduto lettore trarrà le ragioni per confutare gli
errori e così mettere al sicuro la salvezza della sua anima.
La
sofferenza e le sue forme
La
sofferenza rientra nella grande categoria del male. Il male in generale è la
privazione del bene dovuto in un soggetto. Questa privazione può essere causata
da un agente nei confronti di un altro, oppure può essere patita da un paziente
perché offeso dall’aggressione di un altro. Il male così può essere fatto o può
essere patito. Il male fatto dalla creatura umana è il male di colpa o peccato.
Il male patito è il dolore o sofferenza.
Il male non
esiste nelle sostanze inanimate, ma solo nei viventi. Perché? Perché in natura
le sostanze inanimate, benché abbiano un’identità che tendono a conservare,
tuttavia, per loro natura, non la mantengono a tempo indeterminato, ma evolvono
trasformandosi in altre, per cui, se sono mutate o disintegrate, non è che
abbiano bisogno o diritto a tornare come prima o ad essere reintegrate, se sono
decomposte, ad essere ricomposte, se sono distrutte, ad essere ricostruite. Se
il caldo scioglie il ghiaccio, questo non ha diritto a tornare ghiaccio. E non
si può dire che il caldo fa del male al ghiaccio sciogliendolo, o che il
ghiaccio soffre a causa del caldo, ma semplicemente che l’uno e l’altro,
incontrandosi, obbediscono alle leggi della loro natura.
Il dolore o sofferenza colpisce invece quelle
sostanze che per loro natura conservano rigorosamente la loro specie e queste
sono i viventi. Essi percepiscono le offese ricevute e reagiscono cercando di
difendersi o di rimediarvi e di guarire dalla offesa ricevuta. Un animale può far del male ad un altro
animale e questo soffre a causa di quello.
Ma tutto sommato, se il leone aggredisce l’agnello, sì, certo, lo fa
soffrire, ma in fondo obbedisce alla legge di natura, che è sempre buona e
ordinata al bene complessivo della natura. Ma il leone non compie nessuna
cattiva azione nei confronti dell’agnello. Non ha alcuna colpa.
Ben
diversamente vanno le cose nell’uomo. L’uomo
è capace di essere cattivo. L’uomo
sa compiere veramente e propriamente il male perchè, a differenza di tutti gli
agenti inferiori della natura, che mettono in pratica infallibilmente le leggi
della natura stabilite da Dio che è buono, e quindi sono sempre mossi da Dio,
operano sempre il bene, l’uomo, col suo
libero arbitrio, può disobbedire volontariamente e quindi colpevolmente a Dio,
può peccare. E il peccato produce la morte. Ecco il castigo del peccato.
La sofferenza o dolore è uno stato fisico,
psichico o spirituale sentito dal vivente come disordinato, contrario,
conflittuale, ostile, ripugnante, odioso e dannoso alle sue esigenze naturali, alle
sue normali funzioni, ai suoi bisogni e ai suoi fini. La sofferenza ha un
potere distruttivo, che mette in pericolo la salute e la stessa sussistenza del
soggetto, sicché questi normalmente reagisce respingendola e difendendosene,
per eliminarla o quanto meno alleviarla e per tornare nella pace e nel
benessere precedenti. Il sofferente
sente che gli manca qualcosa di cui ha bisogno e che solo lo rende felice e
normale. Patisce un male, ossia la privazione di un bene dovuto, utile o
necessario. Per questo la sofferenza è detta «male di pena».
La sofferenza può verificarsi a tre livelli
vitali: fisico, psichico e spirituale. Sofferenza fisica, detta specificamente
«dolore», è la mancanza di qualcosa di necessario alla salute fisica del
soggetto, è l’effetto di un trauma o di deformazione o di una disfunzione o
menomazione o patologia fisica oppure di agenti esterni nocivi di vario genere
o naturali o viventi. Qui funziona anche la possessione diabolica.
La sofferenza psicoemotiva aggredisce ed
offende il sistema neuropsichico con disturbi vari: malattie mentali, passioni
incontrollabili, eccessi emotivi o carenze affettive, assalti di panico, sensibilità
eccessiva o frigidità, incubi notturni, paure, fobie, deliri, ubriachezza, effetti
di stupefacenti, stati depressivi o maniacali, eccessi di scrupolosità,
tendenze masochistiche o autolesionistiche o doloristiche. Può essere causata
anche da offese ricevute dal prossimo. Anche in questo settore agisce
l’ossessione o la vessazione diabolica. Il livello fisico e psichico del
soggetto può soffrire se patisce violenza.
La sofferenza spirituale o morale è una
ferita o un turbamento dello spirito, che consistono nel fatto che lo spirito
viene ferito da un’offesa arrecatagli dal prossimo, o si sente a disagio in una
situazione imbarazzante o resta amareggiato per una delusione o per
l’ingratitudine degli altri od umiliato o sdegnato per un’ingiusta condanna o rattristato per un amore non corrisposto o afflitto
per la perdita di una persona amata o schiacciato sotto il peso di una
responsabilità eccessiva o sconvolto o confuso per una colpa reale o presunta
commessa, o angosciato per la morte imminente o si trova «nelle tenebre e nell’ombra della morte» (Sal 88,6) o si
spaventa e si scoraggia davanti all’insuccesso o davanti all’ira divina[2]
o all’eventualità della dannazione eterna. Lo spirito, che è libero, non può
patire violenza e non può essere costretto a fare quel che non vuol fare. E
tuttavia, se il soggetto subisce un’azione coercitiva, soffre comunque per non
sentirsi libero.
La sofferenza in genere può essere volontaria
o involontaria. La sofferenza volontaria può essere virtuosa o viziosa. È
virtuosa se si fa, come si suol dire, «di necessità virtù», sopportando in pace
con pazienza, offrendo ed espiando per i propri peccati e per quelli altrui,
oppure se la sofferenza è connessa con pratiche ascetiche o penitenziali. È
invece viziosa se è connessa con l’atto del peccato o se è cercata per sé
stessa per autolesionismo o per far soffrire gli altri.
Il peccato è un male assoluto, che va evitato
in ogni caso, ad ogni costo e senza condizioni. Invece la sofferenza è
certamente anch’essa in linea di principio un male, ma non va scansata o
fuggita in ogni caso, ad ogni costo e senza condizioni, perché invece vi sono
casi, situazioni o circostanze, nei quali essa va accolta di buon grado e con
gratitudine a Dio, Che ce la offre per la nostra purificazione e santificazione
in unione con la sofferenza redentrice di Cristo; e per questo può in certi
casi essere addirittura cercata con moderazione per scopi espiatori, ascetici o
penitenziali.
Infatti, mentre Dio non vuole assolutamente di
volontà di beneplacito il peccato, ma lo vuole solo di volontà permissiva, in
certi casi o per motivi di giustizia o di misericordia vuole la sofferenza
temporale correttiva o espiatrice nella vita presente e nel purgatorio e quella
eterna afflittiva dell’inferno.
Infatti è solo affrontando e sopportando
certe sofferenze, superando certe dolorose prove, operando certe dolorose
rinunce, affrontando certe dolorose battaglie, praticando certi dolorosi
sacrifici, che noi possiamo salvare i valori essenziali e conquistare il
paradiso.
[1] Cf la Lettera Apostolica Salvifici doloris di San Giovanni Paolo
II dell’11 febbraio 1984.
[2] Su questa delicata questione, cf Ralf
Miggelbrink, L’ira di Dio. Il significato
di una provocante tradizione biblica, Queriniana, Brescia 2005. È uno studio ricco
di citazioni bibliche, ma resta prigioniero dell’immagine psicologica dell’ira
come sfogo passionale, che porta a concepire un Dio accigliato, violento,
vendicativo e crudele. Non riesce pertanto a comprendere che l’immagine biblica
dell’ira divina è solo una metafora per esprimere un atto della volontà divina, quindi un valore puramente spirituale, alieno da
qualunque dimensione psicoemotiva, e cioè l’atto della giustizia divina che vuole il castigo del peccato e la dannazione
eterna dei reprobi. Invece Mittelbrink, per mancanza di intelligenza
metafisica, non riuscendo a superare quella metafora e d’altra parte non
volendo rinunciare al concetto della bontà divina, finisce nel buonismo di
Rahner, che «non conosce il concetto dell’ira» (p.185), per cui tutti si salvano e, come
nelle favole, tutti vissero felici e contenti.
Nessun commento:
Posta un commento
I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.