I diversi significati della giustizia

I diversi significati della giustizia

 

Pubblico questa interessante trattazione dei diversi significati o modi parlare della giustizia, tratta dalla bozza della tesi di dottorato di Padre Tyn, dedicata alla questione della giustificazione del peccatore. Sappiamo come questo concetto di giustificazione lo ricaviamo dal famoso passo di Rm 3,21, dove Paolo intende la giustizia divina nel senso della misericordia. Ciò tuttavia non toglie la differenza tra giustizia misericordia, per cui la giustizia rimane definita in un modo diverso da quello col quale si definisce la misericordia. Dunque, proprio al fine di fare questa distinzione, il Padre Tomas ci offre qui un importante discorso su come dobbiamo definire la giustizia.

Le note a piè di pagina in parte le ho curate io e sono contrassegnate da un +; in parte sono di Padre Tyn.

Cf. da pag. 319 a pag. 326 bis :

http://www.arpato.org/testi/tesi/dottorato/Bozza/3-4BozzaTesi_307-464.pdf

 

La giustificazione come moto verso la giustizia, assume il suo nome dal suo termine, che è la stessa giustizia e non solo ne assume il nome, ma ne è anche specificata. Ora, per capire bene la natura di una cosa bisogna considerarne la natura specifica, che si esprime nella definizione. Perciò, per poter definire esattamente la giustificazione e capire il significato della stessa definizione, occorre esaminare con attenzione quella giustizia che ne è il termine specificante.

La giustizia, che è il termine della giustificazione, indica una certa rettitudine che è essenziale ad ogni giustizia, ma la rettitudine si può intendere sia dell’atto dell’uomo, tanto quello ordinato ad un altro uomo singolo, quanto quello ordinato al bene comune della società, sia dell’ordine nella disposizione interna dell’uomo. La giustizia propriamente detta è quella che significa la rettitudine dell’atto umano rispetto agli altri, sia ad una persona singola (giustizia particolare), sia ad una società (giustizia legale)[1]; la giustizia nel senso metaforico (non proprio) significa invece la disposizione interna dell’uomo. Ed è solo in questo senso che la giustizia è termine della giustificazione.

Schematicamente ne risulta la seguente divisione:

GIUSTIZIA:

î  in quanto comprende un ordine retto nello stesso atto umano:

-   giustizia particolare: ordina l’atto dell’uomo secondo la rettitudine nei riguardi di un altro uomo singolo

-   giustizia legale: ordina l’atto dell’uomo secondo la rettitudine rispetto al bene comune

î  in quanto comprende una certa rettitudine dell’ordine nella stessa disposizione interna dell’uomo: in quanto cioè la parte suprema dell’uomo è sottomessa a Dio e le forze inferiori dell’anima sono sottomesse a quella suprema, cioè alla ragione (giustizia metaforica).

 

La divisione principale della giustizia secondo i diversi significati è per conseguenza quella in giustizia particolare, giustizia legale e giustizia chiamata così metaforicamente. Quest’ultima non regola gli atti particolari né di una virtù speciale, né di tutte le virtù sotto un determinato aspetto, ma consiste nella rettitudine interiore dell’anima umana ben disposta secondo la perfezione di tutte le  virtù.[2] 16)

Il diverso modo di parlare della giustizia appare di nuovo quando si tratta di qualificare moralmente gli atti umani come buoni o cattivi, secondo le differenze di merito o demerito. Infatti il concetto del merito è legato all’idea della retribuzione secondo la giustizia. Una tale retribuzione poi è dovuta a ciascuno secondo l’effetto delle sue azioni sugli altri, sia che si tratti di azioni benefiche, sia che invece si abbiano delle azioni nocive.

          Ora il bene o il male del singolo riguarda anche il bene o il male della società in cui esso vive e quindi le azioni che riguardano gli altri meriteranno ricompensa o punizione sia dal singolo sia dalla società, ma nella retribuzione vi può essere un ordine diverso: se l’atto è direttamente ordinato al singolo e solo indirettamente alla società, la retribuzione spetterà prima all’individuo e poi alla comunità; se invece l’atto è direttamente ordinato al bene comune di tutti, prima dovrà essere retribuito dalla comunità nel suo insieme e solo in un secondo tempo dai singoli membri della comunità.

Se qualcuno compie un’azione che riguarda direttamente solo il suo bene o male proprio, allora in qualche modo, ma indirettamente, la retribuzione spetterà alla comunità, di cui l’uomo in questione è membro; direttamente invece dovrebbe essere retribuito da se stesso[3], ma allora non si tratterà di una giustizia vera e propria, ma di una somiglianza di giustizia che è dell’uomo nei riguardi di se stesso ed è così che ogni atto umano buono o cattivo è meritevole o demeritevole.[4]

Evidentemente l’atto del singolo orientato direttamente al bene o al male di un’altra persona singola corrisponde alla giustizia particolare; quello ordinato immediatamente al bene della comunità riguarda strettamente la giustizia legale, ed infine l’atto orientato al bene o al male dello stesso agente, trova il suo corrispondente nella giustizia metaforica, la quale, essendo dell’uomo nei riguardi di se stesso, è solo una somiglianza della giustizia, in quanto l’uomo può considerare se stesso come suo debitore.

Sembra che qui San Tommaso ammetta che ogni atto di virtù, nessuno escluso, possa essere ordinato al bene comune e così diventare oggetto della giustizia legale, mentre in altri luoghi sostiene che vi sono degli atti particolari di virtù che non sono ordinabili al bene comune e quindi esulano dalla ragione di giustizia legale. Bisogna però distinguere bene una duplice ordinabilità di un atto virtuoso al bene comune: quella diretta e quella indiretta. Nel primo caso l’atto per natura sua è orientato al bene comune e qui San Tommaso porta generalmente l’esempio di un uomo coraggioso che combatte valorosamente per il bene dello Stato. Un atto simile non è della giustizia come virtù speciale, bensì della fortezza, ma è per natura sua orientato al bene comune della società e quindi diventa oggetto di giustizia legale.

Nell’altro caso invece l’ordine dell’atto al bene comune è indiretto; di natura sua l’atto riguarda il singolo e solo in un secondo tempo, cioè in quanto il singolo fa parte della società, è ordinabile anche al bene comune, quasi come per una risonanza (“redundat in totam societatem”) e così si spiega come in un senso derivato ed indiretto, ogni atto virtuoso riguardi in qualche modo il bene della società che è quello della giustizia legale.

Parlando della giustizia dell’uomo nei confronti di se stesso il Santo Dottore afferma che si tratta solo di una “somiglianza di giustizia”, cioè appunto di una giustzia “metaphorice dicta”. Infatti quest’ultimo significato di “giustizia” non adempie ad una proprietà essenziale della giustizia e cioè la relazione “all’altro”[5] La giustizia consiste infatti in una uguaglianza, la quale è possibile solo tra due realtà differenti, altrimenti non si dovrebbe parlare di uguaglianza, ma piuttosto di identità. Ora, siccome la giustizia regola gli atti umani, l’alterità richiesta non è quella tra due realtà qualsiasi, bensì tra due soggetti di azione.

Perciò la giustizia nel suo senso proprio regola gli atti di un uomo nei riguardi di un altro. Siccome però nello stesso agente umano vi sono differenti principi di azione secondo la diversità delle potenze operative, si può stabilire una certa somiglianza tra la differenza di un uomo rispetto ad un altro e la differenza di una potenza operativa rispetto ad un’altra. Così vi è nello stesso uomo una “giustizia” rispetto a se stesso, in quanto le singole potenze operative vengono considerate come degli agenti separati.

Una tale considerazione è però impropria, basandosi solamente su di una somiglianza, perché di fatto le azioni non appartengono alle singole potenze, ma al loro soggetto, che è la stessa persona umana (actiones sunt suppositorum). Una tale giustizia all’interno dell’uomo stesso è possibile perché vi è un ordine naturale tra le potenze che deve essere rispettato. Secondo quest’ordine la ragione deve governare la parte sensibile e questa deve obbedire ai dettami della ragione e della volontà. Oltre all’ordine delle potenze tra di loro, vi è un ordine proprio di ogni potenza secondo la perfezione che le è dovuta. Nell’uomo virtuoso si realizza quindi la giustizia metaforica in quanto il possesso di tutte le virtù porta con sé l’ordine delle potenze tra di loro e in vista della loro propria perfezione[6].   

Oltre all’alterità la giustizia nel senso più stretto della parola riguarda come sua materia propria le azioni esterne oggettivamente misurabili. Il rapporto giusto alla legge e al fine delle virtù riguarda comunemente tutte le virtù e non solo la giustizia come virtù speciale[7]. L’ordine dell’atto umano al bene comune espresso nella legge riguarda la giustizia in un senso più largo ed è così che si parla della giustizia legale.

L’ordine di un atto virtuoso alla norma della legge riguarda la giustizia legale, che è comune a tutte le virtù, anche se non regola direttamente tutti gli atti virtuosi. La perfezione dell’atto virtuoso in quanto procede dal soggetto secondo un ordine della ragione è l’oggetto della giustizia metaforica, secondo la quale tutte le potenze operative agiscono nel proprio ordine e nella subordinazione dovuta  rispetto alla ragione[8].

Solo in questo senso si può parlare di una giustizia dell’uomo verso se stesso e solo questa giustizia che consiste nella perfezione di tutta la persona umana secondo il bene della virtù si oppone ad ogni singolo atto del peccato. Così ogni atto umano ha ragione di merito o demerito secondo la sua conformità o meno alla giustizia intesa come la retta disposizione interiore dell’uomo, perché secondo questa giustizia ogni atto umano e non solo quello ordinato al bene di un altro uomo o al bene di una società acquista il diritto ad una possibile retribuzione sia come ricompensa, se si tratta di atti buoni, sia come punizione, se si tratta di atti cattivi.

La giustizia consiste in una rettitudine, non essenzialmente,

ma come un effetto che deriva da una causa.

 

S. Anselmo definisce la giustizia come “la rettitudine della volontà osservata per se stessa”. Ed infatti in tutti i significati della giustizia ritroviamo il concetto della rettitudine. La giustizia particolare ha per oggetto la rettitudine degli atti esterni riguardanti un’altra singola persona; la giustizia legale ha per oggetto la rettitudine di un atto secondo il suo rapporto al bene comune espresso nella legge ed infine la giustizia “metaphorice dicta” ha per oggetto la rettitudine morale di ogni atto umano secondo la sua conformità al bene della virtù e ai dettami della ragione, che domina le singole potenze e ne impera gli atti. La rettitudine acquista la sua estensione più grande nel caso della giustizia intesa come la retta disposizione dell’anima umana, ma si ritrova anche nella giustizia legale e nella giustizia particolare intesa come virtù speciale.

          La difficoltà consiste nel fissare il posto della rettitudine nella natura stessa della giustizia. La definizione secondo cui la giustizia è nel genere della rettitudine della volontà sembra suggerire che la rettitudine rientra nella stessa essenza della giustizia. Ora, secondo San Tommaso, la definizione della giustizia come quella di una rettitudine della volontà non indica il genere prossimo e quindi una parte essenziale della giustizia, ma ne rivela piuttosto la causa[9]. La definizione reale della giustizia, intesa in sensu stricto della giustizia particolare, è “abito secondo cui si opera e si vuole rettamente”[10]

In questo senso la giustizia si definirà come “firma et constans voluntas ius suum unicuique tribuendi”. L’abito della volontà è però causato formalmente dalla rettitudine e perciò la rettitudine rientra nell’essenza della giustizia non come una sua parte, bensì come sua causa. Ciò che vale per la giustizia come virtù speciale si può anche dire delle altre accezioni della giustizia, estendendone il concetto anche agli altri abiti di virtù.

Così la giustizia legale è l’insieme degli abiti virtuosi secondo i quali si opera e si vuole rettamente in vista del bene comune e la giustizia intesa metaforicamente come ordine interiore dell’essere umano si può applicare all’insieme degli abiti virtuosi, dai quali procedono rettamente i singoli atti rispetto ai dettami della ragione. La rettitudine[11] è quindi all’origine dell’abito virtuoso, da cui procede l’atto secondo il dovuto ordine e causa perciò la giustizia, la quale a sua volta consiste sia in una virtù particolare, sia in un insieme di virtù tanto sotto l’aspetto particolare dell’ordine al bene comune, quanto sotto l’aspetto generale dell’ordine al bene della ragione in genere.

Distinzione tra giustizia naturale e giustizia soprannaturale.

La giustizia che consiste nell’insieme delle virtù perfezionanti le potenze operative dell’uomo può essere intesa e delle virtù acquisite e delle virtù infuse. Nel primo caso la giustizia sarà imperfetta e sarà fondata sulla rettitudine puramente naturale; nel secondo caso invece la rettitudine interiore è perfetta e soprannaturale tanto nei riguardi dell’ordine interiore delle potenze dell’anima in se stesse e tra di loro, quanto rispetto alla subordinazione perfetta rispetto a Dio.

La distinzione tra la giustizia naturale e quella soprannaturale si manifesta soprattutto nella contrapposizione della giustizia al peccato. Se si tratta della giustizia naturale, il peccato non potrà distruggerla del tutto, ma la inclinerà in qualche modo al male; se invece si tratta della giustizia soprannaturale, ogni peccato grave la distrugge completamente togliendole le cause formali cioè la carità e la grazia[12].

I due tipi di “giustizia” richiedono sempre l’insieme di tutte le virtù (sia acquisite, sia infuse), ma nel caso della giustizia naturale il peccato non può distruggere tutto l’insieme delle virtù naturali, anche se lo danneggia, mentre nel caso della giustizia soprannaturale qualsiasi peccato grave toglie la grazia e la carità e per conseguenza anche tutte le virtù infuse emananti dalla grazia e formate dalla carità[13]. Ovviamente anche le virtù naturali sono in qualche modo connesse tra loro per mezzo della prudenza naturale come “recta ratio agibilium”, ma il peccato non può distruggere del tutto un abito acquisito naturale.

Ogni atto contrario corrompe ovviamente e la virtù acquisita speciale alla quale si oppone e la prudenza che ordina rettamente i mezzi al fine di ciascuna virtù, ma pur corrompendo e indebolendo tali abiti buoni, i singoli atti peccaminosi non sono in grado di toglierli del tutto, perché l’abito acquisito non si ottiene per un atto solo, bensì per una lunga serie di atti ripetuti. Inoltre anche nel caso di un vizio abituale, le disposizioni naturali buone non possono essere mai completamente distrutte, perché la natura tende di per sè al bene e il male può essere soltanto accidentale rispetto ad essa.

          Anche nei peccatori rimane quindi almeno una disposizione al bene e nulla proibisce che, pur essendo indeboliti in un determinato campo della vita morale, essi mantengano delle vere e proprie virtù acquisite in altri campi. Evidentemente il peccato, opponendosi ad una determinata virtù naturale, danneggia anche il giudizio della prudenza e quindi il suo male si ripercuote anche sulle altre virtù naturali, ma questo avviene solo indirettamente. Differente è invece il caso della giustizia soprannaturale, che consiste nell’insieme delle virtù infuse, strettamente collegate tra di loro per mezzo della carità e profluenti spontaneamente dalla grazia, come le potenze dell’anima provengono dall’essenza della medesima.

          Ora, come la separazione dell’anima dal corpo comporta anche l’assenza delle potenze operative, così la distruzione della grazia per mezzo di un peccato mortale ha come conseguenza la distruzione anche delle singole virtù infuse. E questo proprio a causa del’accidentalità e della gratuità della grazia rispetto alla natura. Infatti la perfezione naturale, essendo dovuta alla natura, non può essere completamente distrutta, perché in tal caso la privazione nella quale consiste la ragione del male sarebbe priva di soggetto e il male diventerebbe assoluto[14], il che implica contraddizione. Se invece viene meno un bene non dovuto alla natura come privazione di una perfezione accidentale, un tale male può essere “completo”[15] perché, tolta la perfezione aggiunta, rimane sempre la bontà naturale del soggetto e quindi, nonostante la totalità della privazione del bene gratuito, il male che ne segue non potrà mai essere assoluto[16].

Le virtù acquisite non possono essere corrotte da un unico atto peccaminoso, perché l’atto si oppone all’atto e non all’abito. Le virtù infuse invece si possono perdere con un unico atto di peccato, perché ogni peccato costituisce un ostacolo all’infusione della carità e delle altre virtù da parte di Dio, in quanto la grazia e la carità implicano una perfetta congiunzione con Dio fine ultimo soprannaturale della vita umana e quindi ogni grave disordine contrario al fine ultimo pone un ostacolo all’infusione da parte di Dio[17]

Dopo il peccato rimangono per conseguenza solo le virtù acquisite e le virtù teologali della fede e della speranza, ma informi e quindi imperfette. La gratuità della grazia e della carità e la loro dipendenza dall’infusione da parte di Dio assieme allo stretto legame tra le virtù infuse nel vincolo della carità e nella dipendenza dalla grazia sono le ragioni per le quali un unico peccato mortale toglie completamente la grazia[18], la carità e insieme con loro tutte le virtù morali infuse e i doni dello Spirito Santo.

Indubbiamente la giustizia alla quale termina la giustificazione deve intendersi di quella giustizia, alla quale si oppone ogni singolo atto di peccato e quindi della giustizia soprannaturale. È così che si spiega il legame tra la consecuzione della giustizia e quella della grazia. La giustificazione porta all’esclusione di ogni peccato (e perciò, nell’ipotesi di un peccato precedente, implica la remissione dei peccati), porta alla consecuzione della grazia santificante, della carità e di tutte le virtù morali infuse, delle virtù teologali formate e perfette e dei doni dello Spirito Santo. Nel presente stato dell’economia della salvezza la giustificazione arriva necessariamente alla giustizia soprannaturale emanante dalla grazia santificante.

Rimane però la questione della grazia del primo uomo. Ratramno sosteneva che Adamo aveva la perfetta rettitudine del libero arbitrio per iniziare il bene, ma non per portarlo a compimento. Per proseguire il cammino nell’esercizio delle virtù e per arrivare al termine avrebbe avuto bisogno di un’altra grazia di Dio sopraggiunta alla rettitudine originale del libero arbitrio. Cristo, il secondo Adamo, invece ci dà una grazia tanto per iniziare la retta scelta del libero arbitrio quanto per portarla al compimento perfetto.

Sia l’iniziare che il proseguire nel bene li riceviamo da colui che ci dà il dono della grazia. Il libero arbitrio in noi non è più retto, ma rettificato e restaurato dalla stessa grazia. Qui appare nettamente la distinzione, proveniente dalle dispute con il pelagianesimo, tra l’inizio e il termine perfetto di un’opera buona: mentre il primo uomo aveva bisogno solo del compimento, noi abbiamo bisogno anche dell’inizio, perché la nostra libertà non è più intatta, ma è danneggiata e inclinata al peccato. Se perciò Adamo ricevette immediatamente la grazia senza la remissione del peccato, noi, dopo il peccato, prima dobbiamo essere liberati dalle nostre cattive inclinazioni[19] per poi poter ricevere anche la perfezione della grazia.

Interessante in questa posizione è la bontà naturale attribuita alla libertà umana ante lapsum e la grazia che vi si aggiunge a quanto sembra non solo secondo l’ordine della natura, ma anche secondo l’ordine di tempo, così che Adamo non sarebbe creato in grazia, ma solo nella rettitudine connaturale delle sue facoltà operative e solo in un secondo tempo avrebbe ricevuto la giustizia strettamente soprannaturale.

Anche il Lombardo[20] espone una simile opinione secondo cui l’uomo, costituito nella giustizia originale, avrebbe avuto una rettitudine preternaturale (integrità della natura) delle sue facoltà operative e solo in seguito sarebbe stato congiunto perfettamente a Dio per mezzo della grazia santificante e della giustizia strettamente soprannaturale. Anche la prima rettitudine, quella dell’integrità naturale, è un dono di grazia, ma solo la seconda, quella della giustizia soprannaturale, è perfetta. S.Tommaso conosce le tesi di Ratramno e di Lombardo, ma non le condivide.[21]

Secondo lui infatti Adamo fu pienamente giustificato nel primo istante della sua creazione con una giustizia strettamente soprannaturale, la quale, oltre all’integrità preternaturale della natura e delle sue facoltà, conteneva anche un perfetto ordine a Dio, fine ultimo soprannaturale della vita umana. Nel primo uomo vi fu una natura distinta dalla sua integrità connaturale ma non dovuta e perciò derivante da un dono preternaturale e dal dono strettamente soprannaturale della grazia santificante, che ordinava perfettamente in Dio ed era principio di vero merito soprannaturale. I tre beni distinti secondo la natura, coincidevano secondo il tempo nello stesso istante della creazione, che terminava al bene della natura, all’integrità della medesima e al suo ordine soprannaturale verso Dio, fine ultimo della vita umana.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 10 ottobre 2022

Secondo lui infatti Adamo fu pienamente giustificato nel primo istante della sua creazione con una giustizia strettamente soprannaturale, la quale, oltre all’integrità preternaturale della natura e delle sue facoltà, conteneva anche un perfetto ordine a Dio, fine ultimo soprannaturale della vita umana. Nel primo uomo vi fu una natura distinta dalla sua integrità connaturale ma non dovuta e perciò derivante da un dono preternaturale e dal dono strettamente soprannaturale della grazia santificante, che ordinava perfettamente in Dio ed era principio di vero merito soprannaturale. I tre beni distinti secondo la natura, coincidevano secondo il tempo nello stesso istante della creazione, che terminava al bene della natura, all’integrità della medesima e al suo ordine soprannaturale verso Dio, fine ultimo della vita umana.  

Immagine da Internet:
Adamo ed Eva nel paradiso terrestre, Bottega Maestro Genesi 


[1] Oggi diremmo «giustizia sociale» +.

[2] 16) Cfr. Summa Theologiae I-II, q.113, a.1 c.a.; De Verit. q.28, a.1 c.a.

[3] Si tratta di quegli atti che noi compiamo premiandoci o punendoci di nostra iniziativa o per aver fatto del bene o per aver fatto del male+.

[4] 17) Cfr. Summa Theologiae I-II, q. 21, a.3 c.a.: “meritum et demeritum dicuntur in ordine ad retributionem, quae fit secundum iustitiam. Retributio autem secundum iustitiam fit alicui ex eo quod agit in profectum vel nocumentum alterius. Est autem consideradum quod unusquisque in aliqua societate vivens, est aliquo modo pars et membrum totius societatis. Quicunque ergo agit aliquid in bonum vel malum alicuius in societate existentis, hoc redundat in totam societatem: sicut qui laedit manum, per consequens laedit hominem. Cum ergo aliquis agit in bonum vel malum alterius singularis personae, cadit ibi dupliciter ratio meriti vel demeriti. Uno modo, secundum quod debetur ei retributio a singulari persona quam iuvat vel offendit. Alio modo, secundum quod debetur ei retributio a toto collegio. Quando vero aliquis ordinat actum suum directe in bonum vel malum totius collegii, debetur ei retributio primo quidem et principaliter a toto collegio: secundario vero, ab omnibus collegii partibus. Cum vero aliquis agit quod in bonum proprium vel malum vergit, etiam debetur ei retributio, inquantum etiam hoc vergit in commune secundum quod ipse est pars collegii: licet non debeatur et retributio, inquantum est bonum vel malum singularis personae, quae est eadem agenti, nisi forte a seipso secundum quandam similitudinem, prout est iustitia nominis ad seipsum. Sic igitur patet quod actus bonus vel malus habet rationem laudabilis vel culpabilis, secundum quod est in potestate voluntatis; rationem vero rectitudinis et peccati secundum ordinem ad finem; rationem vero meriti vel demeriti, secundum retributionem iustitiae ad alterum”.    

[5] 18) Cfr. Summa Theologiae I-II, q.58, a.2 c.a.: “cum nomen iustitiae aequalitatem importet, ex sua ratione iustitia habet quod sit ad alterum: nihil enim est sibi aequale, sed alteri. Et quia ad iustitiam pertinet actus humanos rectificare, … necesse est quod alietas ista quam requirit iustitia, sit diversorum agere potentium … Iustitia ergo proprie dicta requirit diversitatem suppositorum: et ideo non est nisi unius hominis ad alium. Sed secundum similitudinem accipiuntur in uno et eodem homine diversa principia actionum quasi diversa agentia: sicut ratio et irascibilis et concupiscibilis. Et ideo metaphorice in uno et eodem homine dicitur esse iustitia, secundum quod ratio imperat irascibili et concupiscibili, et secundum quod hae oboediunt rationi, et universaliter secundum quod unicuique parti hominis attribuitur quod ei convenit. Unde Philosophus , in V Ethic., hanc iustitiam appellat secundum metaphoram dictam”.

[6] L’uomo agisce utilizzando le sue potenze operative, che sono l’appetito sensitivo e l’appetito intellettuale, che è la volontà. La giustizia metaforica o verso se stessi coordina le potenze in modo tale da rendere al soggetto ciò che è dovuto allo stesso soggetto +.

[7]  Cfr. Summa Theologiae I-II, q. 55, a.4 ad 4: “iustitiae est propria rectitudo quae constituitur circa res exteriores quae in usum hominis veniunt, quae sunt propria materia iustitiae … Sed rectitudo quae importat ordinem ad finem debitum et ad legem divinam, quae est regula voluntatis humanae … communis est omni virtuti”. 

[8] 20) Cfr. Summa Theologiae I-II, q.100, a.2 ad 2: “iustitia proprie dicta attendit debitum unius hominis ad alium: sed in omnibus aliis virtutibus attenditur debitum inferiorum virium ad rationem. Et secundum rationem huius debiti, Philosophus  assignat, in V Ethic., quandam iustitiam metaphoricam”    

Cfr. anche Summa Theologiae I-II, q.47, a.7 ad 2: “sicut Philosophus dicit, in V Ethic., quaedam metaphorica iustitia et iniustitia est hominis ad seipsum, inquantum scilicet ratio regit irascibilem et concupiscibilem. Et secundum hoc etiam homo dicitur de seipso vindictam facere, et per consequens sibi ipsi irasci. Proprie autem et per se, non contingit aliquem sibi ipsi irasci”.

[9] La retta volontà è la causa della giustizia, per cui la giustizia è sinonimo di rettitudine+.

[10] 21) Cfr. Summa Theologiae II-II, q.58, a.1 arg. 2 e ad 2: “rectitudo voluntatis non est voluntas: alioquin, si voluntas esset sua rectitudo, sequeretur quod nulla voluntas esset perversa. Sed secundum Anselmum, in libro De Veritate, iustitia est rectitudo. Ergo iusitia non est voluntas”; “neque etiam iustitia est essentialiter rectitudo, sed causaliter tantum: est enim habitus secundum quem aliquis recte operatur et vult ”.

[11] Della ragione e della volontà+.

[12] 22) 12) Cfr. De Malo, q.2, a.11 ad 14: “habilitas ad gratiam non est idem quod iustitia naturalis, sed est ordo boni naturalis ad gratiam. Nec tamen hoc est verum quod iustitia naturalis diminui non possit. Rectitudo enim secundum hoc diminui potest, quod id quod erat rectum secundum totum, in aliqua parte curvetur; et hoc modo iustitia naturalis diminuitur secundum quod in aliquo obliquatur; puta, in eo qui fornicatur, obliquatur naturalis iustitia quantum ad directionem concupiscentiarum, et sic de aliis. In nullo tamen iustitia naturalis totaliter corrumpitur”.

IV Sent. d.17, q.1, a.1, q.la 1 sol.: “Tertio modo iustitia importat quemdam statum rectitudinis in homine quantum ad partes ipsius, prout scilicet aliqua pars animae suo superiori subditur, sive alii parti, sive ipsi Deo … Haec autem rectitudo per quodlibet peccatum tollitur et per gratiam recuperatur. Unde haec iustitia generalis etiam dicitur, inquantum omnes virtutes includit … per modum totius integralis”.

[13] Il Concilio di Trento insegna che se uno perde la grazia a causa del peccato, resta la fede, la quale però non è viva (Denz.1578). Padre Tomas non intende che si perde anche la fede, ma che la fede non è più formata dalla carità+.

[14] Quando il male distrugge il soggetto, non è che diventi assoluto, ma scompare, appunto perché gli manca il soggetto. Il male è sempre qualcosa di relativo al suo soggetto. È quindi un accidente, che esiste solo nella sostanza. Ma venendo meno questa, è chiaro che scompare. L’idea di un male assoluto è contradditoria, perché il male è essenzialmente un relativo. Per quanto esso possa crescere, è sempre finito, ossia delimitato dal soggetto nel quale inerisce+.

[15] Il male per sua natura è un’imperfezione, è un’incompletezza. Solo il bene può essere completo, e se non è completo, ecco il male+.

[16] Se è assente in un soggetto un bene ulteriore o perché viene meno o perché non è aggiunto, ciò non è un male, perché appunto il male è la privazione di un bene dovuto. Invece l’assenza di un bene aggiunto gratuito di per sé non è un male, a meno che non si tratti della grazia, in quanto distrutta dal peccato. Infatti nel regime della grazia, questa diventa dovuta da parte di Dio. Tuttavia occorre ricordare che Dio, se avesse voluto, poteva stabilire la perfezione umana nella sola natura, senza la grazia+.

[17] 23) Cfr. Summa Theologiae II-II, q.24, a.12 c.a.: “Continuatio … habitus in subiecto non requirit continuitatem actus; unde ex superveniente contrario actu non statim habitus acquisitus excluditur. Sed caritas, cum sit habitus infusus, dependet ex actione Dei infundentis; qui sic se habet in infusione et conservatione caritatis, sicut sol in illuminatione aëris … Et ideo  sicut lumen statim cessaret esse in aëre per hoc quod aliquod obstaculum poneretur illiminationi solis, ita etiam caritas statim deficit esse in anima, per hoc quod aliquod obstaculum ponitur influentiae caritatis a Deo in animam. Manifestum est autem quod per quodlibet mortale peccatum, quod divinis praeceptis contrariatur, ponitur praedictae infusioni obstaculum; quia ex hoc ipso quod homo eligendo praefert peccatum dvinae amicitiae, quae requirit ut Dei voluntatem sequamur, consequens est ut statim per unum actum peccati mortalis habitus caritatis perdatur”.

[18] La virtù infusa è un flusso di grazia, simile all’acqua di un condotto. Come sbarrando il passo all’acqua il flusso s’interrompe così il peccato mortale arresta il flusso della grazia, che non giunge più all’anima. Oppure si può fare il paragone con la vita di un organismo. Per spegnerla è sufficiente un unico colpo mortale+.

[19] In realtà nella vita presente le cattive inclinazioni restano sempre. Anche possono e devono diminuire grazie all’esercizio della virtù+.

[20] Petrus LOMBARDUS, Sententiarum Liber II, d.24; MPL 192, 701-2: “collata est / scil. primo homini / potentia per quam poterat stare, id est, non declinare ab eo quod acceperat; sed non poterat proficere in tantum, ut per gratiam  creationis sine alia mereri salutem valeret. Poterat quidem per illud auxilium gratiae creationis resistere modo, sed non perficere bonum … sed non poterat sine alio gratiae adiutorium spiritualiter vivere, quo vitam mereretur aetarnam … fuerit illud adiutorum homini datum in creatione, quo poterat manere si vellet. Illud utique fuit libertas arbitrii ab omni labe et corruptela immunis, atque voluntatis rectitudo, et omnium naturalium potentiarum animae sinceritas atque vivacitas”.

[21] 26) Cfr. Summa Theologiae I, q.95, a.1 ad 4: “Magister loquitur secundum opinionem illorum qui posuerunt hominem non esse creatum in gratia, sed in naturalibus tantum. Vel potest dici quod, etsi homo fuerit creatus in gratia, non tamen habuit  ex creatione naturae quod posset proficere per meritum, sed ex superadditione gratiae”. Appare chiaramente la distinzione natura-grazia, la giustizia strettamente soprannaturale di cui fu dotato il primo uomo dal primo istante della creazione e il dono della grazia santificante sopraggiunto alla natura come principio di merito.

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