Giustizia e crudeltà - Prima Parte (1/2)

Giustizia e crudeltà

Prima Parte (1/2)


Egli castiga e usa misericordia

Tb 13,1

 

Come è possibile confondere la giustizia con la crudeltà?

Oggi molti si domandano: è crudele un Dio che castiga il peccato? È crudele che Dio ci chieda di espiare le nostre colpe? È crudele un Dio, offeso per il nostro peccato, che chiede riparazione? È crudele un Dio creditore che esige che gli si paghi il debito? È crudele un Dio che esige la morte del Figlio perché gli si dia soddisfazione per i nostri peccati?

E sono portati a rispondere di sì. Un Dio così, dicono, non è più accettabile dall’«uomo moderno». Da qui la necessità che sentono di cambiare l’interpretazione tradizionale della condotta del Dio biblico nei confronti di noi per formare un nuovo concetto di Dio tutto misericordia, tutto dolcezza, tutto comprensivo, tutto accondiscendente, tutto permissivo, tutto e solo perdonante, che tutti porta in paradiso

A molti oggi un Dio che ci castiga, che ci rimprovera, che ci manda sventure, che esige riparazione da suo Figlio e da noi, un Dio che manda a morire suo Figlio per ricevere soddisfazione per l’offesa del peccato, un Dio incollerito che si placa se gli offriamo sacrifici, un Dio che mi fa violenza reprimendo il mio bisogno di libertà e di felicità, è un Dio crudele, odioso, inaccettabile e insopportabile. Ma – essi osservano – un Dio così non può essere Dio. Dunque io non credo in un Dio così. Nei confronti di un Dio così io sono ateo.

Il vero Dio per costoro è quello che mi fa sentire la sua compassione per me, la sua tenerezza, la sua misericordia. Il vero Dio è quello che mi lascia libero di fare quello che voglio, che non mi obbliga a sforzarmi e a soffrire, un Dio che mi salva gratuitamente senza chiedermi dei meriti, un Dio che approva quello che faccio, che mi aiuta nei miei progetti e nelle mie imprese, che non mi rimprovera, non mi manda sventure, ma mi dichiara giusto, mi consola  e mi conforta, un Dio che non m’incolpa, non mi tormenta, non mi disturba, non mi scandalizza, non mi spaventa, non mi irrita, ma mi fa sentire innocente e felice, un Dio che non mi fa soffrire, ma un Dio che mi salva, mi perdona, passa sopra, mi dà salute, mi procura successo, mi dà pace e gioia.

Ma sanno, costoro, che cosa è la vera crudeltà? Conoscono le esigenze della giustizia? Fondamentale è la definizione della crudeltà data da Seneca e riportata da San Tommaso:

 

«opponitur clementiae crudelitas, quae nihil aliud est quam atrocitas animi in exigendis poenis»[1].

Il semplice punire non è crudeltà; è crudeltà l’eccedere nella pena. L’amore, tuttavia, come osserva San Tommaso, induce alla mitigazione della pena, questa è la clemenza[2]. La stessa passione dell’ira, dovutamente moderata dalla ragione, come ne danno esempio i Santi Pastori, costituisce la modalità della giusta pena, sicchè esiste anche una giusta ira, un’ira doverosa, come vediamo nei Santi e nei profeti, da dosare con molta prudenza in quelle circostanze nelle quali essa può servire a mostrare un giusto sdegno, a richiamare salutarmente, a spaventare i peccatori, a correggere i costumi, a denunciare le ingiustizie, o a far fuggire il peccato, come fa osservare San Tommaso riportando una sentenza di San Gregorio Magno:

«bisogna sommamente fare in modo che l’ira, assunta come strumento della virtù, non domini la mente, affinchè non prevalga quasi come padrona, ma come ancella pronta all’ossequio, non si allontani mai dal seguire la ragione»[3].

Invece purtroppo i buonisti regolano la loro condotta con Dio non sulla base dell’intelligenza e del giudizio, ma sulla base delle emozioni e del sentimento. Per loro Dio non è Colui che li giudica e dice loro che cosa è bene e che cosa è male, ma è uno psicofarmaco o un tranquillante da assumere quando si è turbati.

Quando sopraggiunge loro un turbamento emotivo, a loro non viene il sospetto che sia il segnale che la loro volontà è in colpa, ossia che non è in accordo con quella di Dio. Per cui non pensano al fatto che essi otterrebbero la vera pace correggendo la volontà ed orientandola verso Dio. Viceversa, ogni stato emotivo di piacere e di soddisfazione è per loro un’«esperienza della grazia».

Non sanno che l’anima può essere nella pace anche in mezzo al dolore e nel turbamento emotivo involontario, come può essere per esempio uno stato depressivo o un esaurimento nervoso. Non pensano che il turbamento emotivo può essere benefico e salutare quando l’animo è saldo nell’attaccamento al vero e la volontà ferma nell’esercizio della virtù.

No. Essi lo considerano puramente e semplicemente un male da togliere, senza interrogarsi se esso nasca da uno stato di peccato; per cui,  senza pensarci due volte, si autoconvincono che comunque sono in grazia, anzi la sentono, e sentono «misticamente» che Dio li ama, li giustifica e li approva così come sono: nel peccato e nella giustizia allo stesso tempo. Come ciò poi sia possibile, non se lo chiedono e lo attribuiscono al «mistero» della misericordia di Dio. Dio ha promesso loro di salvarli e questo a loro basta. Se non ci credessero, mancherebbero di fede. Questa autosuggestione per loro sarebbe la «fede», ossia la certezza di essere predestinati alla salvezza, se non proprio già salvi fin da adesso.

Negando che Dio esiga riparazione e che castighi, negando il valore espiativo in Cristo della sofferenza, costoro confondono evidentemente la giustizia divina con la crudeltà, il diritto col sopruso. Siccome a loro non piace la giustizia, allora la chiamano crudeltà, che è esattamente la perversione della giustizia, perché mentre la giustizia è giudiziosa, la crudeltà è stoltezza; mentre la giustizia è equanime, la crudeltà è faziosità; mentre la giustizia obbliga in coscienza, la crudeltà coarta la coscienza; mentre la giustizia costruisce, la crudeltà distrugge; mentre la giustizia compensa, la crudeltà deruba; mentre la giustizia rispetta il diritto, la crudeltà lo calpesta; mentre la giustizia persuade, la crudeltà fa violenza; mentre la giustizia nasce dall’amore, la crudeltà nasce dall’odio; mentre la giustizia è servizio, la crudeltà è oppressione; mentre la giustizia dà gioia, la crudeltà fa soffrire.

Dunque si può fare una confusione maggiore e più nefasta di questa? Eppure costoro confondono con la crudeltà quella che è la giustizia divina. Praticamente confondono la bontà con la malvagità. Il loro Dio non è il vero Dio, ma il diavolo. Non è il Dio dei cieli, ma il dio di questo mondo. Questo è il dramma di oggi: distinguere Dio dal diavolo. È questo il punto cardine attorno al quale si gioca oggi il dramma della Chiesa.

Infatti, il sessantennale esasperante contrasto fra lefevriani e modernisti si è oggi talmente acutizzato e radicalizzato, che essi sono giunti a dissentire sul concetto stesso cristiano di Dio, per i primi un concetto fermo a quello terribilmente minaccioso e severo di alcune tonalità dell’Antico testamento, il Dio davanti al quale si muore di spavento; per i secondi, il Dio di comodo, tutto tenerezza dei buonisti, che approva tutto, copre tutto, scusa tutto e ti lascia fare tutto quello che vuoi, non hai nulla da temere, nella certezza che comunque ti salvi, secondo il Salmo 10: «Dio dimentica, nasconde il volto, non vede più nulla. … Non ne chiederà conto» (vv. 32,34), va’ tranquillo.  Gli uni sono sul punto di accusare gli altri di ateismo o quanto meno di adorare un falso Dio.

Il pomo della discordia è il concetto di giustizia divina, per il quale i lefevriani induriscono la giustizia e minimizzano la misericordia, mentre i modernisti dissolvono la giustizia in un misericordismo permissivista ed irresponsabile. Gli uni e gli altri non sanno congiungerle fra di loro di loro e capire la loro necessaria reciprocità nella distinzione.

Occorre urgentemente che ci orientiamo tutti all’unità della fede e della ragione attorno a questo concetto-cardine di tutta la vita della nostra intelligenza e del nostro agire morale, presupposto razionale della stessa esistenza cristiana. Impossibile infatti unirsi attorno a Cristo Verbo incarnato Redentore, se già sul piano della teologia naturale non sappiamo coordinare l’attributo della giustizia con quello della misericordia e sul piano pratico non recuperiamo il concetto stesso di religione naturale, presupposto della religione soprannaturale cristiana, come virtù di giustizia con la quale rendiamo a Dio il culto dovuto in riparazione del peccato con l’offerta del sacrificio espiatorio per ottenere la divina misericordia e la riconciliazione con Dio e con i fratelli.  

 

Il nostro rapporto con Dio assomiglia a quello col prossimo

La Bibbia paragona il rapporto dell’uomo con Dio a quanto avviene o a quanto deve avvenire, secondo giustizia, nei nostri rapporti umani. Come infatti esistono tra noi uomini rapporti interpersonali che devono avvenire secondo giustizia, così similmente noi abbiamo un rapporto interpersonale con Dio, giacchè noi siamo persone similmente a come Dio è persona, sebbene in modo assai diverso, come vedremo.

Così, come nella società umana esiste un ordinamento giudiziario che commina pene deterrenti per i delitti e che punisce i malfattori, li obbliga alla restituzione o alla riparazione, ed esiste un sistema rieducativo che aiuta i malfattori pentiti a reinserirsi dignitosamente nella società, così Dio governa l’umanità a somiglianza di un giudice che premia i giusti e castiga i malvagi.

Inoltre la Scrittura concepisce la dinamica interpersonale che si realizza in occasione del peccato contro Dio secondo alcune espressioni, alcune metaforiche, altre di carattere proprio. La Bibbia, prendendo spunto da quanto avviene tra noi uomini, paragona il peccato contro Dio a una disobbedienza, a un’offesa, a un furto e a danno fatto a se stessi e all’altro.

Tra di noi la persona, che viene offesa o derubata, giustamente si adira ed esige riparazione o restituzione da parte dell’offensore o del ladro e il giudice, irrogando, si suppone, una gusta pena, obbliga il reo a espiare col carcere il fio della sua colpa proporzionatamente all’entità del crimine commesso, finché non avrà riparato al danno compiuto, non avrà risarcito il derubato o restituito la merce rubata. Solo a questo punto, se la pena è stata dovutamente espiata, l’offeso si sente soddisfatto e la sua ira si placa.

A questo punto è auspicabile una riconciliazione fra l’ex-criminale e la persona dabbene che era stata offesa. Ebbene, la Bibbia paragona il nostro rapporto pratico con Dio a quanto avviene tra di noi nei termini sopradescritti. Ci sono però delle differenze.

Prima. L’ira divina è un modo metaforico per esprimere la volontà del Padre di ricevere soddisfazione. In se stessa, infatti, l’ira è una passione dell’appetito sensitivo, che posseggono anche gli animali, e che quindi suppone un vivente corporeo. Essa si accende se provocata da una forza ostile ed offensiva, e si spegne o si placa se è soddisfatta dalla vendetta[4], dalla autodifesa o dalla soddisfazione e riparazione date dal nemico pentito e rabbonito. Essa nell’uomo può essere giusta o ingiusta. È giusta, se moderata dalla ragione così da costituire un’adeguata neutralizzazione o punizione dell’azione nemica. È ingiusta, se il soggetto, mosso dall’odio, esagera nella controffensiva e nuoce al nemico danneggiandolo nella sua dignità; nel qual caso la vendetta non è più una rivendicazione[5], ma diventa crudeltà.

Ora Dio, essendo purissimo spirito, non ha evidentemente passioni come noi, persone corporee. Noi ci adiriamo perché la nostra aggressività emotiva, similmente a quanto avviene nell’animale, esprime lo sdegno per l’offesa ricevuta e la volontà di punire l’offesa o quanto meno la volontà di difenderci da un ingiusto aggressore. Tale metafora significa il fatto che Dio è contrario, disapprova, biasima, non è contento della nostra condotta, e lo fa sentire anche emotivamente mediante il rimprovero della coscienza, perché ci vuol bene e vuole che ci pentiamo e ci convertiamo.

Se a proposito di tale conflitto di volontà tra la nostra e quella di Dio, si può parlare di vera ira, bisogna dire che siamo noi che, quando pecchiamo o siamo in colpa, ad essere adirati con Lui, perché il fatto che Egli disapprova quel peccato che invece a noi piace, ci spinge ad odiarlo, fino a negare, come fa l’ateo, la stessa esistenza di Dio. Il diavolo ci persuade che Dio, rimproverandoci e castigandoci, è cattivo.

Quindi, ci dice Dio, se vogliamo sentire e gustare un Dio misericordioso, bisogna che ci pentiamo, confessiamo addolorati il nostro peccato, proponiamo di non più commetterlo, espiamo la nostra colpa, facciamo penitenza e ci correggiamo dai nostri vizi con un serio e continuativo impegno ascetico, confidando nell’aiuto della grazia. Solo così, invocando fiduciosamente la misericordia divina, saremo perdonati e torneremo in pace con Dio e con i fratelli. Dio ci ama sempre, ma siamo noi che dobbiamo tornare ad amarlo.

L’ira divina, quindi, alla fine che cos’è? È il turbamento della nostra coscienza che avverte un Dio che ci è contrario. Sente Dio come spaventoso e sente di aver disobbedito a Lui e non è in pace con lui. Non è Lui che deve riconciliarsi con noi, ma siamo noi che dobbiamo riconciliarci con Lui. Il diavolo ci presenta Dio come un Dio che ci vuol tormentare con falsi scrupoli e sensi di colpa, vuol renderci suoi schiavi e colpevoli mentre siamo innocenti, vuol impedirci di godere affliggendoci con comandi irrealizzabili o irrazionali o masochistici.

Seconda. Se Dio esige soddisfazione o riparazione per l’offesa o il furto subìto dell’onore che gli spetta, e se per essere risarcito o compensato ha voluto la morte redentrice ed espiatrice di suo Figlio sulla croce e vuole che noi uniamo la nostra croce quotidiana alla sua, ciò non comporta nessuna mancanza di misericordia, nessuna crudeltà, ma anzi esprime la possibilità che Dio, per sua misericordia, ci dà di riscattarci, di liberarci, di espiare, di riparare, di rimediare, di restituire, collaborando attivamente e meritoriamente in Cristo con la grazia che ci salva.

Il Padre ha agito giustamente nell’esigere che Gli fosse pagato il debito della colpa e gli fosse restituito l’onore, del quale a causa del peccato era stato privato. In ciò Sant’Anselmo ha ragione. Ma il Padre non era obbligato. E qui Anselmo esagera nel voler trovare una necessità, perché il Padre, se avesse voluto, poteva soprassedere.

Comunque anche in questo esigere il Padre ha agito per misericordia nei nostri confronti nel volere che fosse suo Figlio a pagare con la sua infinita ricchezza quel debito che noi nella nostra miseria non potevamo pagare, salvo però il giusto obbligo da parte nostra di fare la nostra parte così da aver il vanto – il vanto di San Paolo, ossia il vanto della Croce -  di poter contribuire con le nostre opere, le nostre sofferenze e i nostri meriti fondati su quelli di Cristo, alla nostra salvezza.

Il Padre, se avesse voluto, avrebbe potuto perdonaci ed assolverci, senza esigere compensi, riscatti, pagamenti, sacrifici, espiazioni o riparazioni. Ma ha voluto esser compensato, ha richiesto soddisfazione ed ha voluto che noi riparassimo e in Cristo ci liberassimo con le opere nostre e per la sua misericordia, perchè non ci comportassimo da scrocconi che si scaricano su di Innocente, mentre loro, che come peccatori meriterebbero il castigo, vogliono farsi il viaggio gratis col pretesto della gratuità della salvezza.

Terza. Il termine «offesa» nel caso del peccato contro Dio ha solo un significato metaforico. Il Padre non ha ricevuto nessun danno, nessuna ferita, nessuna menomazione, come invece accade a noi. Tanto meno è stato ucciso, come dice sfrontatamente Nietzsche, a meno che egli non si riferisca alla stoltezza degli atei, i quali lo cancellano dall’orizzonte del loro pensiero per loro disgrazia.

Quarta. La vittima del sacrificio, per avere sufficiente efficacia espiatrice, deve essere innocente e divina. Su ciò Sant’Anselmo ha ragione, appoggiandosi alla Lettera agli Ebrei. Le vittime dell’antico Israele, della religione islamica e delle altre religioni naturali non sono sgradite a Dio, anzi si può dire che siano da Lui volute, solo che hanno solo un valore simbolico o prefigurativo o preparatorio all’unica Vittima divina, che è Cristo.

Quinta. Volendo il sacrificio del Figlio, il Padre non ha affatto voluto un sacrificio umano. Ciò – come ho dimostrato in precedenti articoli – risulterebbe da una certa interpretazione letteralistica tradizionale del sacrificio di Abramo. Senonchè la moderna esegesi storico-critica, informata sull’esistenza di tali sacrifici in popoli confinanti con Israele, dove invece i sacrifici umani erano proibiti, non può vedere nel comando di uccidere Isacco la vera Parola di Dio, che invece si rivela chiara nel comando dell’angelo fatto ad Abramo di non uccidere Isacco.

Interpretare il sacrificio di Cristo come «sacrificio umano», come fanno alcuni, è gravissimo equivoco, giacchè si tratta invece di sacrificio divino: è la Persona del Verbo incarnato che si offre al Padre per la salvezza del mondo, ovviamente nel linguaggio della communicatio idiomatum. Diversamente cadremmo dalla padella dell’omicidio alle braci dell’idolatria.

Sesta. Il dolore del Padre per i nostri peccati e per la morte e l’ingiustizia patita dal Figlio va inteso in senso puramente metaforico. È eresia più volte condannata dalla Chiesa nei patripassiani e teopaschiti pensare che Dio possa soffrire come Dio. Cristo per amore nostro e per la nostra salvezza, ha sofferto, certamente e acerbissimamente, ma come uomo, non come Dio. Dio non sarebbe Dio se non fosse semplicissimo, immune da qualunque passibilità, imperfezione, recettività, privazione, divenire, mancanza, deficienza, fragilità, infelicità, violabilità, tutti difetti connessi o presupposti al fenomeno della sofferenza fisica e spirituale.

Al contrario, Egli è tutto perfezione, tutto pienezza, tutto inviolabile, tutto potenza, tutto forza, tutto vita, tutto beatitudine completa, infinita, eterna e perfettissima. Ciò non Gl’impedisce di sapere che cosa è la sofferenza infinitamente meglio di noi, ma col suo solo intelletto, che coincide col suo atto d’essere. E se non fosse tale, come potrebbe togliere la sofferenza? Se anche il medico è malato, come farà a guarire il malato? Se non è la Vita che toglie la morte, la morte da sola può dare la vita? Se effettivamente e prodigiosamente essa la dà, non è in quanto morte, ma perché è la morte sacrificale di quell’uomo che è la Vita.

Settima.  Ci riconciliamo col nostro prossimo da noi offeso riparando l’offesa, oppure, se siamo noi gli offesi, chiedendo riparazione, con la richiesta di perdono e perdonando. Col prossimo può avvenire un perdono reciproco. Invece nei confronti di Dio, mentre Egli non ha da convertirsi a noi, data la sua bontà infinita, il dovere della conversione ossia della correzione della volontà è solo nostro. Nei confronti di Dio, occorre allora soltanto il sacrificio sacerdotale, che offre una vittima a Dio ed è un dovere di giustizia religiosa nei confronti di Dio riparare al peccato e per ottenere grazia.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli  

Fontanellato, 1 marzo 2023

 

Ma sanno, costoro, che cosa è la vera crudeltà? Conoscono le esigenze della giustizia? Fondamentale è la definizione della crudeltà data da Seneca e riportata da San Tommaso:

«opponitur clementiae crudelitas, quae nihil aliud est quam atrocitas animi in exigendis poenis».

Il semplice punire non è crudeltà; è crudeltà l’eccedere nella pena. L’amore, tuttavia, come osserva San Tommaso, induce alla mitigazione della pena, questa è la clemenza. La stessa passione dell’ira, dovutamente moderata dalla ragione, come ne danno esempio i Santi Pastori, costituisce la modalità della giusta pena, sicchè esiste anche una giusta ira, un’ira doverosa, come vediamo nei Santi e nei profeti, da dosare con molta prudenza in quelle circostanze nelle quali essa può servire a mostrare un giusto sdegno, a richiamare salutarmente, a spaventare i peccatori, a correggere i costumi, a denunciare le ingiustizie, o a far fuggire il peccato, come fa osservare San Tommaso riportando una sentenza di San Gregorio Magno: 

«bisogna sommamente fare in modo che l’ira, assunta come strumento della virtù, non domini la mente, affinchè non prevalga quasi come padrona, ma come ancella pronta all’ossequio, non si allontani mai dal seguire la ragione».



Immagini da Internet:
- Seneca, P.P. Rubens
- San Gregorio Magno


[1] Sum.Theol., II-II, q.159, a.1.

[2] Ibid., q.157, a.1.

[3] Ibid., q.158, a.1, ad 2m.

[4] Questo termine non dev’essere necessariamente inteso come sfogo di odio, ma, come spiega San Tommaso, può essere anche una reazione giusta e doverosa, cioè la vindicatio: vedi Sum. Theol., II-II. q.108.

[5] Cf San Tommaso, Sum. Theol., II-II, q.108.

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