Opinioni di Joseph Ratzinger circa il valore del sacrificio di Cristo - Prima Parte (1/2)

 Opinioni di Joseph Ratzinger

circa il valore del sacrificio di Cristo

Prima Parte (1/2) 


Il sacrificio di Cristo come ci è insegnato dalla Sacra Scrittura e spiegato dalla dottrina della Chiesa

Il medesimo Lettore che mi ha proposto di commentare il pensiero di Alberto Maggi e di Carlo Molari circa il significato del sacrificio redentore di Cristo, mi ha adesso proposto di commentare le parole pronunciate da Benedetto XVI in un’intervista del 2016 rilasciata al gesuita Jean Servais. Questa è la domanda che Servais fa al Papa emerito:

«Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno (cfr. GS IV 215.ss) […] Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai assodata presso i fedeli, che [il Dio] quello dei cristiani è un Dio «ricco di misericordia» (Efesini 2, 4)?».

Rispondo dicendo che prima di esaminare la risposta di Ratzinger, faccio una premessa metodologica, facendo presente che il pensiero cristologico di Benedetto XVI, da quando ha dato le dimissioni dall’attività pastorale petrina, per quanto autorevole, evidentemente non gode più dell’infallibilità pontificia, che è passata invece a Papa Francesco. 

Benedetto, cioè, è sì rimasto Papa, ma solo nell’essere, non nell’operare come Papa. Per questo egli è ora certamente un privilegiato collaboratore di Papa Francesco, fornito di un’esperienza pastorale che egli solo può vantare in tutta la Chiesa, dopo quella del Papa regnante, avendo svolto l’ufficio petrino; ma adesso, da quando ha dato le dimissioni dal ministerium petrino, la sua autorità dottrinale è scesa di livello, ed è al di sotto di quella del Papa; è un’autorità certo elevata, ma fallibile come quella di qualunque altro fedele, benché Ratzinger sia uno dei più grandi teologi della Chiesa di oggi, checché ne pensino i suoi detrattori modernisti.

Fatta questa premessa, ritengo opportuno iniziare col dare io per primo una risposta a Servais, basandomi su ciò che è possibile ricavare dal Magistero della Chiesa e in particolar modo dal Catechismo della Chiesa cattolica (nn.613-618). dopodiché passeremo ad esaminare le parole di Ratzinger.

Dico dunque che se l’uomo moderno trova difficilmente accettabile il linguaggio di Sant’Anselmo col quale egli esprime il significato del sacrificio di Cristo, bisogna che egli faccia uno sforzo per lui assai giovevole, di comprendere il linguaggio di Sant’Anselmo, ossia che cosa egli ha inteso dire e il valore di quello che dice, perché la dottrina anselmiana, con buona pace dei modernisti,  è stata sostanzialmente assunta dal dogma ecclesiale passato poi nella dottrina della redenzione.

Non si tratta dunque di mutare il linguaggio e i contenuti della dottrina anselmiana per accontentare il cosiddetto «uomo moderno», come se questo fosse il criterio della verità di fede, mentalità, questa, tipicamente modernista. Infatti il criterio della verità cristiana non è la modernità, ma la dottrina della Chiesa. Occorre bensì essere moderni, ma basandosi sulla moderna dottrina della Chiesa, che su questo punto, peraltro, non ha cambiato nulla della dottrina tradizionale, come appare evidente dal confronto della dottrina del Catechismo della Chiesa cattolica con quella del Concilio di Trento.

Teniamo presente che l’opera salvifica di Cristo comporta un aspetto umano – la sua passione e morte –, cose che sono alla portata della nostra ragione; e un aspetto divino – la giustizia e la misericordia divine -, cose che superano la comprensione della nostra ragione e restano per noi misteriose, appaiono paradossali e possono sembrare scandalose. Per questo San Paolo parla di «scandalo della Croce» (I Cor 1,23).

Infatti un Messia che si lascia crocifiggere come condannato a morte abbandonato dai suoi e sconfitto dai potenti appare un impostore e un personaggio scandaloso. D’altra parte, la prospettiva che dalla sofferenza possa scaturire l’eliminazione della sofferenza o che la morte possa produrre la vita appare una stoltezza. Che un uomo mortale come noi possa far risorgere se stesso da morte, essere il salvatore del mondo, eliminare da esso quel male che sembra inestirpabile, ottenere dalla sua morte la beatitudine per tutta l’umanità appare alla ragione un pensiero folle e una cosa del tutto impossibile.

Teniamo inoltre presente che il piano della salvezza ideato dal Padre ed eseguito dal Figlio, essendo stato un piano d’amore liberamente concepito dall’eternità, avrebbe potuto essere anche diverso da come esso è di fatto e come di fatto si è storicamente attuato e come di fatto è per noi vincolante ai fini della nostra salvezza.

Indubbiamente il piano che di fatto Padre e Figlio di comune accordo hanno voluto ha una sua logica interna. Non per nulla il Figlio è il Logos del Padre, logica percepibile anche dalla nostra ragione, ma solo nel presupposto del piano già scelto e deciso dal Padre, che poteva essere anche un altro.

 Qui troviamo il limite del ragionare di Sant’Anselmo sul Mistero dell’opera di Cristo. Sembra che Anselmo, entusiasmato dalla possibilità da lui scoperta di eliminare l’apparente paradossalità della croce e di collegare questo Mistero con la nostra ragione e la nostra logica, non si sia accorto che Dio, nella sua libertà decisionale, se avesse voluto, avrebbe potuto scegliere un altro piano e salvarci anche in altro modo. Per esempio, invece di esigere riparazione o espiazione dei peccati, avrebbe potuto soprassedere e perdonarci tutti incondizionatamente non permettendo la perdizione di alcuno per quanto peccatore ostinato.

È la tesi dei moderni buonisti, perdonisti e misericordisti, che negano che Dio punisca il peccato con la sofferenza, la morte e l’inferno, perché ciò contraddirebbe alla bontà divina e sarebbe una crudeltà, ed affermano che Dio esercita con tutti la sola tenerezza e misericordia, che non cancella il peccato, ma soltanto lo copre, senza che occorra penitenza, perché la concupiscenza è invincibile e nessuno è in malafede e il peccato non è segno di malizia, ma di fragilità, e la fragilità dev’essere compassionata, accompagnata ed accolta e non rimproverata o condannata.

Dio non manda nessuna sofferenza e nessuna sventura. Non fa morire nessuno. È l’uomo che col suo peccato si attira la sofferenza e la morte. Se la natura manda calamità è perché si vendica dei danni che le fa l’uomo. Dio non c’entra con i mali che ci vengono dalla natura. Essi non sono castigo dei nostri peccati perché colpiscono anche gl’innocenti. Non c’è spiegazione alla sofferenza degli innocenti.

 

Per il buonista il peccatore non è un malvagio, ma semplicemente un diverso e della diversità occorre avere rispetto perché la vita è bella perché è varia. Ognuno è libero di decidere ciò che per lui è il suo bene.

Ma in realtà tutto ciò non corrisponde affatto all’insegnamento della Scrittura e ai dati della fede cattolica, ma semmai rispecchia le eresie di Lutero, peggiorandole, perché almeno Lutero accettava il sacrificio redentore ed espiatorio di Cristo e l’esistenza di dannati nell’inferno.

Ho già risposto a queste tesi buoniste negli articoli che vado pubblicando dal 2016, data in cui fui congedato da Radio Maria come teologo di Radio Maria, per aver sostenuto che il precedente terremoto in Umbria poteva considerarsi un castigo divino per i numerosi sodomiti in essa viventi[1]. Per questo non vi torno su. Quello che adesso mi pare importante affermare e ricordare la dottrina cattolica del rapporto fra giustizia e misericordia in Dio in rapporto al significato della morte e del sacrificio di Cristo.

Anselmo interpreta e spiega l’opera salvifica di Cristo facendo uso della categoria logica della necessità, categoria che funziona benissimo, ma solo nel presupposto, a quanto pare, che il piano divino di fatto esistente, sia il solo possibile; cosa che invece non è, perché in realtà Dio avrebbe potuto sceglierne un altro. Forse Anselmo non ha pensato a questo. Per questo sembra affermarsi in lui un sottile razionalismo, che sembra voler dire che le cose sono andate così e non potevano andare altrimenti, benché egli ovviamente sia convinto che si tratti di un mistero di fede.

Si potrebbe invece prendere in considerazione d’altra parte la concezione islamica della salvezza, che noi cristiani giudichiamo falsa non perchè in linea di principio Dio non avrebbe potuto salvarci in quella maniera, anche senza l’incarnazione del Figlio, ma perché di fatto Dio ha voluto l’Incarnazione.

Oppure il Padre avrebbe potuto inviare un Messia quale molti si attendevano in Israele, fraintendendo le profezie, un Messia che nel corso della sua vita terrena liberasse Israele dai suoi nemici ed instaurasse con la forza il regno d’Israele su tutti i popoli, senza che egli dovesse soffrire ed essere condannato dalle autorità premiando i giusti e castigando i malvagi.

Anselmo parte dalla premessa che l’Incarnazione è effetto di libera scelta divina osservando che, una volta scelta questa via, Dio non poteva non comandare al Figlio di fare quello che ha fatto, nella supposizione di esigere una giusta riparazione della colpa commessa dall’uomo e di voler rendere per misericordia l’uomo figlio di Dio in Cristo. Chi invece vorrà rendere Incarnazione e Redenzione atti necessari dell’essenza divina sarà Hegel[2], per il quale  Dio è per essenza immanente al mondo ed ha nella sua essenza la negazione di sé e il ritorno dell’essenza a se stessa mediante la negazione della negazione. In Hegel quindi, il negativo, la morte non è tolta dal positivo, la vita, che volge un negativo in positivo, trasforma la morte nella vita e la sofferenza nella gioia; ma è lo stesso negativo che negando se stesso, produce il positivo.

Resta dunque che in Hegel la morte di Cristo produce la vita, ma non perché Cristo è la vita, ma perché la morte da sé, negando se stessa, produce la vita come negazione della vita. Così per Hegel l’autonegazione è necessaria per l’affermazione e il ritorno dell’affermazione. Tuttavia egli è incapace di concepire un Dio che sia solo affermazione. Hegel ha bisogno di un Dio che dica sì e no ad un tempo.

C’è inoltre da considerare che l’opera divina della salvezza è narrata dalla Scrittura secondo una duplice modalità espressiva, linguistica e concettuale, che è  adatta alla nostra capacità di intendere e di esprimerci per sua natura limitata; per cui l’opera divina, che trascende i limiti della nostra capacità di comprensione ed espressione, ci è è presentata dalla Scrittura in categorie e parole, che non possono avere la pretesa di farci capire tutto e di esprimerlo perfettamente, ma lasciano al Mistero rivelato un margine di sostanziale incomprensibilità ed inesprimibilità, che si addice appunto a quella che è una verità di fede.

Essendo dunque l’opera della salvezza un mistero divino, dobbiamo essere consapevoli che i nostri concetti umani, anche i più elevati, non sono sufficienti a comprenderne la sublimità, anche se usati analogicamente. Per questo la Scrittura, nel narrarci questo altissimo mistero di giustizia e di misericordia divine, accompagna il concetto, più adatto all’aspetto umano del mistero, alla metafora o al paragone, più adatti, nella loro povertà espressiva, ad esprimere il mistero, affinchè con termini così poveri non abbiamo la presunzione di poter inglobare il mistero nei limiti della nostra ragione. Occorre però anche evitare la tentazione contraria di ridurre l’opera di Cristo in termini meramente umani, alla stregua di un fatto alla nostra portata, trascurando di ragionare per analogia ed appiattendo tutto sul piano dell’univocità.

E per questo l’opera di Cristo è presentata dalla Scrittura secondo differenti schemi o modelli interpretativi, che si completano a vicenda, e che vanno accolti tutti con religiosa attenzione, anche se ci danno l’impressione di essere grossolani e volgari. Ma non sta a noi giudicare, perché se Dio ha scelto quei paragoni e quelle metafore vuol dire che sono adatti ad esprimere ciò che Egli intende. Quello che possiamo e dobbiamo razionalmente dimostrare è che Dio non ci dice cose assurde o scandalose, ma cose misteriose, la cui sapienza è utilità morale sono ben al di sopra di quanto noi possiamo immaginare per la salvezza dell’uomo.

I quattro modelli

La Scrittura ci presenta dunque l’opera salvifica del Signore fondamentalmente sotto quattro schemi interpretativi o modalità di attuazione: quella di un sacrificio espiatorio o propiziatorio (schema sacrificale), quella del pagamento di un debito (schema commerciale), quella della riparazione di un’offesa (schema giuridico) e quella di una guerra di liberazione (schema liberazionista).

Sotto la seconda modalità Gesù è presentato come un ricco acquirente o mercante[3], che ci ha comprati o riscattati a prezzo del suo sangue. Il termine redenzione, da re-d-emptio significa ri-comprare. Gesù come Dio ci ha acquistati creandoci; pagando al Padre il debito dei nostri peccati, ossia prendendo su di sé le nostre sofferenze, ci ha acquistati una seconda volta.

Egli stesso ha inteso l’offerta della sua vita al Padre come il pagamento di un riscatto. In Mt 20,28 troviamo questo termine lytron, che vuol dire riscatto. Paolo afferma che nel sangue di Cristo abbiamo il riscatto - l’apolytrosis, che Gerolamo traduce con redemptio - la remissione dei peccati» (cf Col 1,14). La Lettera agli Ebrei dice che la morte di Cristo «è intervenuta per la redenzione (apolytrosis, redemptio) delle colpe» (Eb 9,15). S.Paolo dice che Cristo ci ha comprati (agorazo, emo) «a caro prezzo» (timè, pretio magno). Da notare che timè vuol dire anche risarcimento, compenso, soddisfazione).

 San Pietro (I Pt 1,8) e l’Apocalisse (5,9) dicono che siamo stati redenti dal sangue di Cristo: dunque il sangue di Cristo è stato come una somma di danaro con la quale Cristo ha pagato al Padre i nostri debiti, ha dato soddisfazione al Padre, ci ha comprati per Lui, ha pagato al nostro posto un debito che noi non potevamo pagare, meritando la nostra salvezza.

Secondo la seconda modalità Gesù è il sacerdote della Nuova Alleanza, il quale, in obbedienza al Padre, offre se stesso come vittima di espiazione sull’altare della croce per la remissione dei peccati.

La Lettera agli Ebrei ci dice infatti che il Padre «ha preparato un corpo» (Eb 10,6) per il Figlio. E il Figlio risponde: «Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà». Che cosa ha voluto il Padre? Evidentemente il sacrificio del Figlio. Gesù dunque obbedisce al Padre che vuole che egli offra la sua vita per la nostra salvezza. E prosegue la Lettera: «è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre» (v.10).

La Lettera agli Ebrei intende l’offerta che Cristo fa del proprio corpo come offerta cultuale, sacrificale, vittimale ed espiatoria di se stesso come sacerdote della nuova Alleanza. Questo concetto si ritrova nella prima Lettera di San Giovanni, dove è detto che il Padre ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione (ilasmòs) per i nostri peccati» (I Gv 4,10; 2,2), mentre San Paolo afferma che Dio ha proposto Cristo come vittima di espiazione (propitiationem, ilasterion) nel suo sangue» (Rm 3,25).

Già il profeta Isaia aveva parlato di un Servo di Jahvè, che salva i popoli offrendo se stesso in espiazione (cf Is 53, 10). In tal modo ritroviamo nelle stesse parole di Cristo che il celebrante pronuncia al momento della Consacrazione la dichiarazione esplicita fatta da Cristo all’Ultima Cena, nell’Istituire l’Eucaristia e quindi il Rito della Messa: «Questo è il mio corpo».

Secondo la terza modalità Gesù appare come un uomo giusto, generoso e disinteressato operatore di giustizia e di pace, il quale, sebbene innocente, accetta di passare per colpevole caricandosi della pena a noi dovuta per i nostri peccati. Li sconta lui, dà soddisfazione al Padre, ripara all’offesa arrecatagli dai nostri peccati e ottiene dal Padre il perdono dei nostri peccati, riconciliandoci fra noi e col Padre (Is 53; Rm 5,11; II Cor 5,18; Ef 2, 14.16; Col 1,20).

Secondo la quarta modalità Gesù è il forte condottiero e liberatore, che con la potenza della Croce ci guida nella buona battaglia contro il peccato, la carne, il mondo e Satana (Ap 14, 14-15; 19, 11-16; 20,9), ci libera dal potere del peccato, della morte del demonio e ci guida alla libertà e alla beatitudine (Rm 6,22;8,21; II Cor 1,10; I Ts 1,10; II Tm 4,18; I Pt 1,18: Ap 1,5).

Ora, il ragionamento di Sant’Anselmo segue fedelmente lo svolgimento di queste idee. Occorre tuttavia osservare che la Scrittura ci presenta l’opera di Cristo in una forma metaforica come se Dio fosse una persona umana offesa, adirata e derubata di ciò che le appartiene, per cui deve essere placata, risarcita e propiziata con offerte, pagamento del debito ed un’opera soddisfattoria.

San Tommaso d’Aquino riassume tutti gli aspetti della passione redentrice di Cristo in questa mirabile sintesi:

«La passione di Cristo, in quanto è rapportata alla sua divinità, agisce per modo di efficienza; in quanto invece è comparata alla volontà dell’anima di Cristo, agisce a modo di merito; secondo invece che è considerata nella stessa carne di Cristo, agisce a modo di soddisfazione, in quanto per essa siamo liberati dal reato della pena; a modo invece di redenzione, in quanto per essa siamo liberati dalla schiavitù della colpa; a modo invece di sacrificio, in quanto per essa siamo riconciliati con Dio»[4].

Ora tutto ciò va accolto perchè entra nel dogma della redenzione[5], ma va inteso rettamente per non fare di Dio un pover’uomo come noi, da noi bistrattato, e fare di noi delle persone magnanime, che possono agire su di Dio, rabbonirlo, cambiarlo o darGli qualcosa di cui manca.

Volendo pertanto esprimere in senso proprio l’opera di Cristo, nel rispetto dell’infinita dignità di Dio e tenendo conto dei limiti del potere dell’uomo, dobbiamo dire che Cristo non ha mutato nulla in Dio, non lo ha risarcito, non Gli ha dato nulla che già non avesse, non ha pagato un debito, non ha soddisfatto, come se Dio fosse un creditore o un maltrattato come potremmo essere noi. Ma l’opera di Cristo è a beneficio dell’uomo, è per il bene dell’uomo. In realtà Dio potrebbe vivere benissimo anche senza di noi. Il peccato non Lo ha privato di nulla, ma ha fatto danno solo all’uomo.

Cristo quindi propriamente è il Salvatore e Liberatore dell’uomo e ciò come Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza nel suo sangue; i titoli di redentore, soddisfattore, espiatore sono veri, irrinunciabili e dogmatici, perchè fondati sulla Parola di Dio, ma sono secondari e metaforici.

 Quello che sostanzialmente e propriamente Cristo ha fatto è di essere stato Sacerdote[6], ossia Mediatore di pace fra Dio e l’uomo, Mediatore perfetto perchè uomo-Dio, elevando l’uomo a Dio e attirando da Dio sull’uomo la divina misericordia, offrendo se stesso sull’altare della croce come vittima di espiazione, ed offrendo all’Ultima Cena il proprio corpo e il proprio sangue in cibo di vita eterna.

Ciò che dunque propriamente ha fatto Cristo è di aver dato in tal modo gloria a Dio e di aver obbedito a Dio facendo risorgere l’uomo dalla morte alla vita; è quello di avergli insegnato la via della verità e della salvezza; è quello di averlo convertito da ingiusto a giusto, di avergli donato la grazia del perdono, di averlo purificato e liberato dal peccato, dalla sofferenza e dalla schiavitù di Satana, di averlo riconciliato con Dio e di averlo condotto in paradiso.

Questo è ciò che propriamente Cristo ha fatto, e che tuttavia il dogma esprime usando quei quattro schemi metaforici, che tuttavia vanno venerati ed usati come Parola di Dio, ma rettamente intesi nel senso che ho detto, per non risolvere l’opera divina della salvezza in una specie di contrattazione commerciale o patteggiamento o accomodamento giuridico, come potrebbe avvenire tra due persone umane qualsiasi.

Fine Prima Parte (1/2)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 giugno 2022

Solennità del Corpo e del Sangue del Signore

Teniamo presente che l’opera salvifica di Cristo comporta un aspetto umano – la sua passione e morte –, cose che sono alla portata della nostra ragione; e un aspetto divino – la giustizia e la misericordia divine -, cose che superano la comprensione della nostra ragione e restano per noi misteriose, appaiono paradossali e possono sembrare scandalose. Per questo San Paolo parla di «scandalo della Croce» (I Cor 1,23).

Infatti un Messia che si lascia crocifiggere come condannato a morte abbandonato dai suoi e sconfitto dai potenti appare un impostore e un personaggio scandaloso. 
 
D’altra parte, la prospettiva che dalla sofferenza possa scaturire l’eliminazione della sofferenza o che la morte possa produrre la vita appare una stoltezza. 
 
Che un uomo mortale come noi possa far risorgere se stesso da morte, essere il salvatore del mondo, eliminare da esso quel male che sembra inestirpabile, ottenere dalla sua morte la beatitudine per tutta l’umanità appare alla ragione un pensiero folle e una cosa del tutto impossibile.

Immagini da Internet: Niccolò dell'Arca, Compianto sul Cristo morto, Bologna


[1] Un mio confratello, credendo forse di mettermi in difficoltà, mi chiese: e come mai Dio non ha mandato il  terremoto a Milano o a Roma, dove c’è da supporre che i sodomiti siano molti di più? Dio ha misure, tempi e modi per castigare, che non coincidono con i nostri.

[2] Cf  Emilio Brito, La christologie de Hegel. Verbum Crucis, Beauchesne, Paris 1983.

[3] Cf l‘antifona gregoriana O mirabile commercium.

[4] Sum.Theol., III, q.48, a.6, 3m.

[5] Cf il mio libro Il mistero della Redenzione, Edizioni ESD, Bologna 2004.

[6] Cf sul sacerdozio di Cristo, Sum.Theol., III, q.22; C.-V.Héris, Il mistero di Cristo, Morcelliana, Brescia 1938.

9 commenti:

  1. "La sua autorità dottrinale è scesa di livello, ed è al di sotto di quella del Papa"

    Per fortuna ci sono i commentatori che suggeriscono certi temi per attaccare la figura di Ratzinger. Mi stupisco che Lei non se ne avveda.

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    1. Preg.mo signor Angheran,
      sono Bruno Vacchiano, il commentatore che ha presentato all’attenzione di Padre Giovanni, tanto un testo di Carlo Molari che quello del Papa emerito, oggetto di questo articolo.
      Francamente mi spiace se posso aver dato l’impressione di voler denigrare Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, del quale nutro invece grande stima.
      Personalmente, la risposta fornita dal Papa emerito alla domanda di Servais, è stato il primo e finora unico caso, in cui mi sia trovato in forte disaccordo con un testo o con delle affermazioni di Ratzinger.
      L’aver segnalato questo singolo caso, piuttosto eccezionale, non dovrebbe essere recepito come un voler “attaccare la figura di Ratzinger”.
      Persino del più grande teologo e filosofo che la Cristianità (e non solo) ha conosciuto, ovvero San Tommaso d’Acquino, si potrebbe trovare qualche raro errore, pressocché insignificante, davanti alla copiosissima ed eccellente produzione letteraria che ci ha lasciato. Ma il semplice fatto di rilevare uno di questi rarissimi errori (per esempio, la concezione di quando l’anima sia presente nell’ embrione umano) non costituisce, di per sé, un tentativo di sminuire la grandiosa opera dell’Acquinate.
      Altrimenti, ci troveremmo ad attribuire, a determinati teologi, una sorta di infallibilità in tutta la loro opera, che sarebbe, evidentemente, assolutamente indebita.
      È vero che Joseph Ratzinger, è stato anche Papa ma, come ci ha ben sottolineato Padre Giovanni, quell’intervista è stata concessa quando aveva già rinunciato all’ufficio petrino.
      Peraltro, nel mio commento, avevo scritto:
      «Devo purtroppo, con amarezza, constatare che anche alcune parole del Papa emerito […], vengano talvolta strumentalizzate, per attenuare, se non svalutare, il valore del sacrificio espiatorio e soddisfattorio di Cristo sulla croce».
      Dunque, il mio rammarico non era tanto verso l’“errore”, se così vogliamo semplificarlo del Papa emerito, quanto verso la strumentalizzazione delle sue parole che i modernisti ne fanno. Per esempio, in questo link:
      https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/contro-la-societa-e-la-legittimazione-teologica-del-sacrificio/
      il gesuita Padre Felice Scalia dopo aver affermato che:
      «Per il papa emerito Benedetto XVI la teologia anselmiana del sacrificio richiesto per la “soddisfazione” del Padre è “incomprensibile oggi e in sé del tutto errata”», si spinge sino a domandarsi:
      «Legittimamente ci si può chiedere se la centralità del sacrificio nella dottrina cattolica, sicuramente nella liturgia, sia un dogma di fede, o non piuttosto una teoria piuttosto ambigua prodotta da qualche soteriologia sbrigativa e miope, vissuta però dal popolo di Dio acriticamente, come parte essenziale della sua fede».
      Spero con questo di aver chiarito che non era nelle mie intenzioni, in alcun modo, denigrare la figura e l’opera di Joseph Ratzinger / Benedetto XVI.

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    2. Caro Bruno,
      condivido la grande ammirazione che lei ha per il teologo Ratzinger e sono d’accordo nel notare che il rifiuto del valore soddisfattorio e espiativo del sacrificio di Cristo contrasta con la fondamentale ortodossia di Ratzinger e certamente non l’avremmo sentito in bocca a Ratzinger quando esercitava l’ufficio petrino.
      Questo errore cristologico invece si trova nella cristologia di Rahner, il cui pensiero fu duramente criticato da Ratzinger in un libro da lui pubblicato nel 1981, quando era semplicemente vescovo. Nel 1982 San Giovanni Paolo II lo nominò significativamente Prefetto della CDF.
      Per quanto riguarda il citato articolo del Padre Scalia, mi riservo di farne un commento in un prossimo articolo.

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    3. Caro Angheran,
      bisogna fare attenzione che ci sono dei critici di Ratzinger che partono da una teologia preconciliare e che vedono in lui un modernista. Si tratta di un giudizio profondamente ingiusto, che non esclude la legittimità di criticare Ratzinger in alcuni punti, nei quali, al di fuori dell’esercizio del magistero petrino, egli mostra di essere ancora in qualche modo legato a Rahner, dal quale in gioventù era stato influenzato durante i lavori del Concilio.
      Sennonché però dopo il Concilio Ratzinger, accortosi della falsa interpretazione del Concilio data da Rahner, ne prese le distanze abbracciando senza riserve la sana dottrina.
      Nella fattispecie della questione del sacrificio di Cristo c’è da notare in Ratzinger la preoccupazione di utilizzare il concetto di sacrificio, non secondo un certo significato corrente, che lo viene a svalutare o lo rende ripugnante, ma secondo l’autentico significato biblico, per il quale il sacrificio di Cristo appare come il suo supremo atto d’amore per la salvezza dell’umanità.

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  2. Mi scusi Padre Giovanni, lei ha scritto:
    «La Scrittura ci presenta dunque l’opera salvifica del Signore fondamentalmente sotto quattro schemi interpretativi o modalità di attuazione: quella di un sacrificio espiatorio o propiziatorio (schema sacrificale), quella del pagamento di un debito (schema commerciale), quella della riparazione di un’offesa (schema giuridico) e quella di una guerra di liberazione (schema liberazionista)».

    Poi ha aggiunto:
    «Sotto la prima modalità Gesù è presentato come un ricco acquirente o mercante[3], che ci ha comprati o riscattati a prezzo del suo sangue».

    Intendeva riferirsi non al primo ma al secondo schema interpretativo, quello del pagamento del debito (2° in base all’ordine con cui ha elencato i quattro schemi)?

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    1. Caro Bruno,
      la ringrazio per la correzione e provvederò quanto prima.

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  3. Mi scuso per il tono inquisitorio verso il lettore che ha suggerito il testo e indirettamente verso di Lei. A parziale scusante forse il fatto che la medesima intervista è apparsa quasi nello stesso momento su Chiesa e Post Concilio , col consueto strascico di commenti sgangherati contro Ratzinger, cui siamo abituati ormai da anni su quel blog. Ho pensato che l'intento fosse il medesimo. Immagino che la tesi debba ancora essere sviluppata , quindi a maggior ragione , non ha senso essere prevenuti.

    Sia consentita una premessa:
    Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con l'argomentare del papa emerito sa che normalmente egli espone all'inizio ampi estratti della tesi che vuole confutare o dell'interpretazione che se ne dà in certi ambiti. Se ci si ferma a questa parte si può anche attribuire ad egli stesso quel pensiero, traendone la conclusione che si tratti di un modernista. (es. "Gesù risorto non mangiò con gli apostoli"). Altre volte si pubblicano a distanza di mezzo secolo dei rilievi a un testo dell'emerito , ignorando tutto il magistero seguente (è il caso della critica a "Introduzione al Cristianesimo" cavallo di battaglia di Radaelli e co.).

    Ciò premesso mi pare che in sede di commento si dia spazio al concetto che sì, Ratzinger nell'intervista ha deviato dall'ortodossia , ma solo perchè si era nel 2016 e dunque non era più papa (?!?) . Il lettore osserva che la presunta deviazione è più che altro dovuta all'interpretazione di Scalia.

    Ed il papa emerito conclude: “Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero intimo superamento del male che, in ultima analisi può realizzarsi solo nella sofferenza dell’amore”.

    In definitiva:
    1) Non c'è nessuna deviazione dall'ortodossia di Ratzinger relativa ad Anselmo
    2) Ammesso e non concesso , la giustificazione non può risiedere nel fatto che non è più papa. L'infallibilità è circostanza garantita a certe condizioni relative alla materia del pronunciamento non al momento temporale nel quale avviene. Se così fosse alla fine di un pontificato cadrebbero tutti i dogmi e i pronunciamenti che si presumono assistiti dallo Spirito Santo.

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    1. Caro Angheran,
      ho capito che Ratzinger in fondo voleva esporre la tesi che poi avrebbe criticato, ma presentando il pensiero di Sant’Anselmo è talmente duro che mi sembra offensivo. È vero che alla fine in fondo viene a dar ragione ad Anselmo e non avrebbe non averlo potuto fare, giacchè la dottrina di Anselmo è stata assunta nel dogma della Redenzione.
      È vero che le sue parole sono del 2016, ma esse riflettono una tesi rahneriana, che si spiega col fatto che Ratzinger da giovane perito del Concilio si lasciò influenzare dal pensiero di Rahner, che in seguito respinse con fermezza.
      Per quanto riguarda Radaelli, anch’io non condivido la sua critica troppo severa nei confronti di Ratzinger.
      Quando io ho parlato dell’infallibilità pontificia, lo so benissimo che non tutto quello che dice un Papa è infallibile, perché può insegnare semplicemente come dottore privato. Ma mi riferivo al fatto che il Papa Emerito, non fruendo più del dono dell’infallibilità, nel 2016 non poteva più far leva su questo dono, ma non aveva da utilizzare altro che le sue doti, sia pure eccezionali, di teologo, le quali però, come lei sa bene, non garantiscono nessuna infallibilità.

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  4. Caro padre,
    mi scuso se li distraggo nelle tue occupazioni. Ma vorrei chiedervi: questo articolo, che annunciava una seconda parte sull'argomento "Opinioni di Joseph Ratzinger circa il valore del sacrificio di Cristo - Prima Parte (1/2)", non ha avuto un seguito, vero?

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