Prima parte
La
misericordia fasulla di Walter Kasper
Vi castiga per le vostre ingiustizie,
ma userà misericordia a tutti voi
Tb 13,5
La
problematica della misericordia
È ovvio che l’ammirazione del Papa per il
libro del Card. Kasper sulla misericordia va riferita esclusivamente a quanto
di buono c’è nell’opera. Ma qui io ritengo bene evidenziare soprattutto certe
tesi, che riflettono diffusi errori, che occorre correggere, per essere
veramente fedeli alla sana ragione, alla Bibbia e alla Chiesa. Si tratta di un
concetto carente sotto diversi aspetti, che qui dimostrerò.
Kasper esordisce col dire che dobbiamo
presentare un Dio che non spinga all’ateismo. Giustissimo. Ma poi egli stesso
presenta un concetto della misericordia divina che provoca proprio questo
risultato. Infatti egli riduce la giustizia divina alla misericordia. Ne viene
che per lui Dio agisce sempre con misericordia. Quindi le più grandi sofferenze
dell’umanità, le più grandi calamità naturali, i delitti più terribili
dell’uomo sono effetto della misericordia divina, che presiede e governa tutti i
moti della natura e le azioni dell’uomo.
Kasper afferma inoltre che una causa o quanto
meno occasione dell’ateismo è lo scandalo provato per un Dio che permette la sofferenza
degli innocenti e non ascolta le preghiere perché vengano risparmiati. Ora la
fede dà una triplice risposta a questo angoscioso frangente.
La prima è il fatto delle conseguenze del
peccato originale, le quali, all’infuori di Cristo e della Madonna, colpiscono
tutti. In tal senso si può dire che nessuno di noi è perfettamente
innocente. Certo, ciò non c’impedisce di
distinguere, almeno da un punto di vista sociologico, innocenti e malfattori.
Se però capita un terremoto o un’epidemia, tutti vengono colpiti. E magari in una
zona risparmiata dal terremoto gli empi prevalgono sui giusti. Ma anche questo
disordine è conseguenza del peccato originale e Dio si riserva di punire al
momento giusto i malvagi e premiare i buoni, sopperendo altresì ai difetti
della giustizia umana.
La seconda è che nella concezione cristiana
del processo della salvezza, come in tutte le etiche religiose, la sofferenza
dell’innocente svolge un ruolo salvifico e purificatore fondamentale, come vittima
offerta a Dio per l’espiazione dei peccati. E qui, come è noto, il ruolo
fondamentale e decisivo, è giocato dallo stesso Signor nostro Gesù Cristo, mite
Agnello immolato, che toglie i peccati del mondo. Nella visione cristiana,
quindi, tutti gli innocenti sofferenti come gli stessi fanciulli, fino alle vittime
dell’aborto, sono chiamati ad unirsi o sono uniti da Dio, magari inconsapevolmente,
al sacrificio della Vittima divina.
La terza è che per capire perché Dio non interviene
sempre a risparmiarci la sofferenza, santi o peccatori che siamo, occorre tener
presente che l’ideale di felicità ovvero il fine ultimo della vita cristiana non
si racchiude nei ristretti limiti del presente mondo corruttibile e pieno di
mali, ma trapassa oltre la morte, verso un mondo trascendente ed immortale,
privo di qualunque male di colpa e di pena, il paradiso.
Ciò comporta il fatto che certamente dobbiamo
fare ogni sforzo, con l’aiuto di Dio e della scienza, per togliere o alleviare
ogni dolore ed ogni sofferenza, ma, stante la nostra debolezza conseguente al peccato
originale, benché rinforzati dalla grazia, sempre quaggiù dobbiamo scontare la pena
del peccato originale, per cui, per quanto l’umanità progredisca sempre nella
lotta contro la sofferenza, sempre ed inevitabilmente quaggiù resta un irriducibile
tot di sofferenza.
Ebbene, il cristianesimo ci insegna a volgere
in bene, a nostro vantaggio anche la sofferenza, in un meraviglioso
«riciclaggio», per così dire, cha la trasforma da perdizione in via di salvezza
per mezzo della croce di Cristo, similmente a quello che fanno oggi le
industrie chimiche nel trasformare i rifiuti in fonti di energia.
Tuttavia, la piena liberazione da ogni male di
colpa e di pena non è di questa vita, ma del paradiso; e se disgraziatamente ci
venisse in mente di sperare in Cristo per tal fine, San Paolo ci avvertirebbe
che «se abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da
compiangere più di tutti gli uomini» (I Cor 15,19).
Kasper
confonde la misericordia come virtù umana
con
la misericordia divina.
Bisogna dire
che, in generale, la misericordia è quella virtù, frutto della bontà e
dell’amore, che fa comprendere quanto è odiosa e ripugnante la sofferenza fisica
e morale altrui e quindi spinge il misericordioso ad operare per il sollievo
del misero.
Il misericordioso sa infatti innanzitutto accorgersi
della sofferenza e della miseria degli altri, sa individuarne le cause, le
forme e i rimedi. Grazie al suo senso di umana solidarietà, il misericordioso sente
come propria la miseria e la sofferenza degli altri e, in base a quanto di tale
sofferenza percepisce, si studia con ogni mezzo di eliminarla o quanto meno alleviarla.
Il Vangelo comanda di essere misericordiosi
sempre e con tutti, si trattasse pure di sudditi da castigare o di nemici che
ci perseguitano o di persone insopportabili. Il famoso «schiaffo nella guancia»
non vuol dire altro che questo. Rimettere i debiti a chi non può pagare, essere
pazienti con le persone pesanti e comprensivi con i deboli, laddove è doveroso
ed utile, e gli altri non se ne approfittano, è sempre una doverosa
misericordia.
Certo, dobbiamo prendere esempio da come Dio
è misericordioso. In ciò Dio ci supera sempre e con la sua inventività e benignità
ineffabile, la sua provvidenza che arriva dappertutto e la sua onnipotenza, fa sempre
di più e meglio di quello che possiamo fare noi con le nostre povere forze. Già
nell’Antico Testamento troviamo: «Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare»
(Pr 25,21). In tutto ciò Kasper è perfettamente a posto e ragiona
correttamente.
Kasper però trascura un aspetto della misericordia
divina, rivelato dalla Scrittura, che non è presente in quella umana e che solo
Dio, con la sua onnipotenza, può permettersi; ed è quella misericordia che consiste
nella liberazione dell’uomo dal peccato,
un danno che l’uomo ha fatto a sé stesso ed un’offesa a Dio, un debito che egli
non può pagare, se non è Cristo stesso che unisce l’uomo a Sé nella sua opera
redentrice ed espiatrice.
Ma ancor di più la misericordia divina è quella
con la quale il Padre ha voluto che noi stessi, per i meriti di Cristo, potessimo
sgravarci del debito del peccato, unendoci alla Croce del Signore. Ecco allora
il meraviglioso paradosso che Hegel ha intuito, ma che, prigioniero della sua dialettica,
non è riuscito a sciogliere cadendo nell’assurdo: la pandemia come segno della
misericordia divina non perché la sofferenza produca o sia salvezza per un gioco
dialettico, ma perché per la sua misericordia il Padre ci dà la possibilità in questa
pandemia di unirci alla Croce di suo Figlio Nostro Signore.
La misericordia divina è infinitamente
maggiore a quella che può esercitare l’uomo, perché Dio, con la remissione dei
peccati, solleva l’uomo da una miseria immensamente più grande di quella dalla
quale un uomo può sollevare un altro uomo. Un uomo misericordioso può
certamente liberare un misero da un male o da una sofferenza, alla quale l’uomo
può porre rimedio, può rimettergli un debito che un uomo è tenuto a pagare ad
un altro uomo, può perdonargli un torto per rimediare al quale è sufficiente la
giustizia umana. Ma Dio libera e purifica l’uomo da un male immensamente
maggiore, che l’uomo ha commesso nei confronti di Dio stesso e per conseguenza,
del prossimo, e cioè il male del peccato,
che fa perdere all’uomo quella grazia che solo Dio può ridargli, a patto che
l’uomo si penta, chieda perdono e faccia penitenza.
È interessante quello che dice Kasper circa
la funzione correttiva della sanzione penale nel diritto canonico. Dice è
«l’ultimo mezzo drastico della misericordia» (p.261). Anche San Tommaso ritiene
che la severità divina e quindi quella della Chiesa, è sempre mitigata dalla
misericordia, persino nell’inferno. E quando diciamo misericordia, diciamo carità.
Dal che viene che la giusta severità, la coercizione e il castigo devono, in fin
dei conti, esser dettati dalla carità; carità che in questa vita corregge, anche
se è vero che la pena infernale è puramente afflittiva. Eppure, come ho sostenuto
in un mio libro sull’argomento[1],
io ritengo che anche nell’inferno, sia pur tra i tormenti, i dannati sentano la
paternità della provvidenza divina.
Dio non è
misericordioso per essenza, ma per libera scelta
Da sempre Tu Sei
Sal 93,2
Kasper traduce
il Nome di Dio in Es 3,14 con «Io Sono qui» o «Io Sono con voi» (p.129), volendo
darci ad intendere che sarebbe il concetto ebraico dell’essere; il che in realtà
non corrisponde affatto a verità, perché l’espressione ebraica Ehièh Escer Ehièh, è ben tradotta dalla Vulgata col famoso Ego Sum
Qui Sum, che in italiano può esser reso «Io
Sono Colui Che È», ossia, come spiega S.Tommaso, «Colui la cui essenza è quella di
essere», l’ ipsum Esse per Se subsistens.
In Ap 4,11 abbiamo «Colui Che È, Che era e Che viene». Non c’è nessun
riferimento a persone o a luoghi.
Non si tratta, dunque, di un Essere
per-l’uomo, di un Dasein di sapore
heideggeriano o luterano o di un Essere-che-appare all’uomo, di sapore
husserliano o severiniano, quasi che il piccolo io umano possa ficcare il naso
negli affari di Dio o possa addirittura dargli il permesso di esistere. Si tratta invece dell’Essere assoluto, del purum Esse, esistente per conto proprio,
indipendentemente dal fatto che l’uomo esista o non esista. E per questo è quell’«Io
Sono», col quale Gesù qualifica la propria divinità (Gv 8, 24.28.58, 13,19).
Per questo la Bibbia si rivolge a Dio
col predicato del puro Essere: «Tu
Sei» (Sal 92, 2; Ap 11,17), cosa che non faremmo mai rivolgendoci a un nostro
simile, perché nel predicato dell’essere sono implicite tutte le perfezioni, cosa
evidentemente impossibile per una semplice creatura. Per cui, se certo la Bibbia
non disdegna affatto di usare predicati nominali per Dio, come la bontà, l’onnipotenza,
la giustizia, la misericordia, ecc., non c’è dubbio che essa preferisce l’essere,
perché i vari attributi, per quanto ampli, restringono o delimitano sempre il
concetto di Dio ad una particolare perfezione diversa dalle altre. Così nel
brahmanesimo c’è il Brahman Nirguna,
senza attributi e il Brahman Saguna,
con attributi.
Il che vuol dire che l’esercizio della
misericordia non entra nell’essenza di
Dio, ma suppone il rapporto di Dio con l’uomo, che non è costitutivo
dell’essenza divina, ma consegue la libera scelta di creare l’uomo. Se
il mondo non fosse esistito, Dio non avrebbe avuto l‘occasione di esercitare la
misericordia, e non per questo Dio non sarebbe stato meno Dio, come se togliendo
la misericordia, l’essenza divina dovesse essere incompleta o privata di un suo
attributo necessario.
Kasper afferma inoltre che «la misericordia
di Dio non trova nella cornice dello ipsum
Esse lo spazio adeguato» (p,135). È falso.
La misericordia divina, nella sua onnipotenza e creatività, ha il suo
fondamento ultimo e la sua ragione prima nello Esse divino. Infatti, l’agire discende dall’essere. Quanto è più
perfetto l’essere, tanto più potente è il suo agire. Ora Dio è l’Essere
perfettissimo e creatore di ogni cosa. E ciò dunque dà fondamento e ragione
della sua infinita, onnipotente e creatrice misericordia.
Kasper poi concepisce giustamente la
misericordia divina nell’orizzonte dell’amore e del dono di sé e, fermandosi su
questo concetto, passa a trattare dell’amore col quale nella SS. Trinità «il
Padre comunica la propria divinità al Figlio» (p.144). Qui, certamente la
misericordia non c’entra, né Kasper ardisce affermare questo.
Tuttavia, a questo punto Kasper non intende
l’autodonazione del Padre al Figlio nella maniera giusta. Dice infatti che nell’atto
d’amore conseguente alla generazione del Figlio, il Padre «si ritrae nella sua
propria infinità e fa spazio di sé all’altro» (ibid.), parlando di
«autospogliamento di Dio» (ibid.). Ciò non ha un sapore biblico, ma hegeliano:
l’autonegazione di Dio, che diventa Dio negando la negazione di sé.
Ora, questo, per Dio è impossibile, perché
l’Infinito non può restringersi o limitarsi. Non sarebbe più infinito, non sarebbe
più Dio, se dovesse far spazio all’altro, come io nell’ascensore devo farmi da parte
per dar spazio ad una persona corpulenta che vuole entrare. Queste sono immagini
puerili indegne della maestà divina.
Il Padre, nel generare il Figlio o nel
creare il mondo, non ha nessun bisogno di ritrarsi, né del resto ciò sarebbe concepibile,
perché il Padre, nel porre l’altro da Sé (Figlio o mondo) non deve restringere
Se stesso, ma nel caso del mondo aggiunge
essere per partecipazione al suo
Essere per essenza. Nel caso del
Figlio, lo genera nel suo seno: Dio da Dio in Dio. Invece l’aggiunta del mondo non
aumenta l’Essere divino infinito, perché l’infinito non può aumentare, ma si pone
sotto l’Infinito, come essere creato,
infinitamente inferiore.
L’Infinito divino non va concepito come
se occupasse tutto l’ambito od orizzonte dell’essere, inteso in senso materialmente spaziale. Il fatto
dell’ubiquità divina e che Dio sia Tutto (Sir 43,27) non vogliono dire che il Padre
generi il Figlio o crei il mondo autolimitandosi, ma, al contrario, diffondendo
la propria bontà o in Sé (il Figlio) o fuori di Sé (il mondo). Bonum diffusivum sui, secondo l’adagio
platonico.
La negazione di sé - «chi odia la
propria vita» (Gv 12,25) - per donarsi o sacrificarsi per gli altri, detta tradizionalmente
«abnegazione», ha la sua propria e perfetta realizzazione nella misericordia esercitata
dalla creatura, non nella misericordia divina. Sembra che Kasper confonda le due
cose.
In ciò abbiamo chiari segni di come Kasper
purtroppo capisce di metafisica quanto io capisco di meccanica quantistica o di
fisica nucleare. Io però prudentemente mi astengo dall’entrare in simili
materie e penso che anche Kasper, visti i risultati, farebbe bene a sua volta a
non avventurarsi in quella materia, della quale del resto, dichiara di non
avere stima. Di fatto, conseguentemente a ciò, egli interpreta la Scrittura, come
Schelling, non in senso ontologico, ma in senso mitologico, come fosse l’Iliade
o l’Odissea.
Egli non ammette racconti biblici storici
rivelativi di misteri divini, formulati o formulabili dalla Chiesa in dogmi come
verità eterne, assolute ed immutabili, ma, siccome per lui, secondo il vecchio adagio,
veritas est filia temporis, relativa ai
tempi ed ai luoghi, Dio stesso per lui non è l’Eterno immutabile ed indipendente
dal tempo o dal divenire, ma, come recita il titolo stesso di uno dei suoi
libri, è «L’Assoluto nella storia»[2],
non però un Assoluto indipendente ed al di sopra della storia, ma, come
l’Assoluto di Schelling e di Hegel, un Assoluto che non esiste senza la storia
e per la storia. Quindi un falso Assoluto, perché un Assoluto relativo alla
storia che Assoluto è?
Viceversa, sarebbe possibile ed assai
utile, per capire a fondo gli insegnamenti di Cristo, rendersi conto della
presenza in essi di una sapientissima metafisica teologica e morale, certo non
dotta, ma fatta per i semplici, come ho cercato di fare io nel mio recente libro
Gesù Cristo fondamento del mondo, inizio,
centro e fine del nostro umanesimo integrale[3].
Il
Padre fa misericordia mediante la sofferenza di Cristo uomo,
non
perché soffra Egli stesso o Cristo soffra come Dio
Noi siamo
dei misericordiosi bisognosi a nostra volta di ricevere misericordia. Dio
invece è misericordioso senza alcuna necessità di ricevere misericordia o che
qualcuno abbia misericordia di Lui. Infatti il miserabile è uno al quale manca
qualche cosa di necessario. Ma a Dio, somma Perfezione, Pienezza e Beatitudine,
che cosa può mancare?
Lo stato di miseria è reso possibile solo
nella creatura, la quale è per essenza passibile, perché è composta, e la
passibilità, che è la condizione di possibilità della sofferenza, è data dal fatto
che la creatura, in quanto composta di parti separabili le une dalle altre, è
privata di una parte che le occorre per il suo benessere. Essa, infatti, essendo
composta, può mancare o essere privata di qualcosa di cui ha bisogno. È quindi per
il fatto di essere passibile che essa può essere bisognosa, sofferente,
miserevole ed infelice.
Ecco perché l’immagine di un Dio debole, impotente,
sofferente, bisognoso di essere compassionato è semplicemente ridicola, per non
dire blasfema, anche se non è priva di un suo fascino, tanto è vero che questa
idea del Dio che soffre è un’eresia che apparve già nei primi secoli, sotto il nome
di «teopaschismo» o «patripassianesimo».
Il tentativo, allora, di Kasper, di
rispolverare queste antiche eresie non è degno di un teologo che voglia mantenersi
ad un livello speculativo senza scadere nella mitologia, anche se si può
parlare con moderazione e prudenza di sofferenza di Dio nel linguaggio
metaforico o facendo uso della communicatio
idiomatum.
Certamente la misericordia nel senso corrente
non può non comportare un aspetto emotivo, non può non essere un commuoversi o un
affliggersi per chi soffre, un soffrire con chi soffre. Chi resta freddo e
indifferente davanti alla sofferenza del prossimo non può certo esser qualificato
per misericordioso o compassionevole. Tuttavia, volendo concepire la
misericordia divina, dobbiamo elevare il nostro pensiero, per quanto ci è
possibile, alla dignità divina dell’oggetto, ricordando che Dio è puro Spirito e non ha passioni come noi.
Occorre cioè cogliere l’essenziale della misericordia,
che non è tanto un soffrire, ma un atto
dello spirito e precisamente della volontà. Il misericordioso conosce con l’intelletto
il bisogno del misero e lo soccorre con un atto del volere. Questo è ciò che
propriamente fa Dio con noi. Dio sa benissimo, e molto meglio di noi, ma col
solo intelletto, quanto soffre il misero. Dio è simile a un medico, il quale sa
che il malato soffre, e questo è sufficiente per poterlo curare, ma non deve
affatto soffrire della stessa malattia del malato. Sennò, come potrebbe
curarlo? Come il malato non può curare il malato, così il passibile non può
fare che il sofferente non patisca. Solo
l’impassibile può liberare il passibile dalla passione o dalla sofferenza. Per
questo è assurdo pensare che l’uomo possa essere liberato dalla sofferenza da
un Dio che soffre.
È vero che noi siamo salvati dalla sofferenza
di Cristo, ma di Cristo uomo e non di Cristo
Dio. Il Verbo divino si è incarnato appunto perché fosse possibile che un
uomo si offrisse al Padre in «sacrificio di soave odore» (Ef 5,2) in espiazione
dei peccati. Ma quest’uomo non poteva essere altro che l’uomo-Dio Gesù Cristo. Infatti,
affinché il sacrificio fosse effettivamente riparatore e soddisfattorio, tale da
placare l’ira divina e riconciliare il Padre con noi, era necessario che il Figlio
stesso, impassibile, si offrisse al Padre, annullando il peccato con la potenza
della sua divinità. Il Padre quindi per perdonarci usa misericordia solo perché
ha ricevuto dal Figlio al nostro posto degna riparazione dei nostri peccati
coinvolgendo anche noi con le nostre sofferenze nell’opera della nostra redenzione.
Soddisfazione vicaria, quindi, non vuol dire
scaricare su Cristo la colpa dei nostri peccati, come accenna Kasper. Sarebbe effettivamente,
come egli osserva, una cosa abominevole. Ma non si tratta assolutamente di
questo. Il vero significato della soddisfazione vicaria, che a Kasper sfugge, perché
non ammette il valore soddisfattorio della Redenzione, sta invece nel fatto che
Cristo, in quanto Figlio di Dio, grazie all’infinita ricchezza della sua
divinità, «dives in misericordia», paga al
nostro posto un debito che noi non possiamo pagare, riversando a nostro beneficio
la benevolenza del Padre, ottenuta grazie a questo pagamento, che San Paolo
chiama «prezzo del nostro riscatto» (I Cor 6,20).
Altra cosa degna di nota, per avere un reale
concetto biblico della misericordia divina, è che essa va molto oltre quanto
Kasper crede. Egli si ferma alla misericordia come remissione dei peccati e
sollievo dalla sofferenza. Fin qui ci era arrivato anche Lutero. Ma il piano di
misericordia del Padre va molto oltre.
Nel donarci suo Figlio, il Padre non ha
voluto solo ricevere un compenso per l’offesa subìta dal peccato di Adamo e
della sua progenie, sì che l’uomo in Cristo potesse recuperare l’innocenza e la
dignità perdute, ma volle porre l’uomo in uno stato di vita superiore a quello del quale aveva goduto nell’Eden,
rendendolo figlio di Dio, ad immagine
del Figlio, tempio dello Spirito Santo, erede della vita eterna e destinato
alla visione beatifica. Al peccato
dell’uomo il Padre ha risposto con un amore più grande di quello che aveva
avuto per lui prima del peccato.
Se però vogliamo essere più precisi e più
aderenti al linguaggio biblico, dobbiamo dire che il Padre, donandoci il Figlio
e lo Spirito Santo, ha avuto per noi un amore
superiore alla misericordia; non si è limitato infatti a commiserarci, a
guarirci dalle nostre ferite, a togliere le nostre colpe, e ripristinare
l’originaria santità, a salvarci dalla morte eterna, ma col renderci suoi
figli, uomini spirituali (I Cor 2,15), mossi dallo Spirito Santo (Rm 8,14), ci
ha glorificati (Fil 1,20) e resi partecipi della gloria del Figlio (Gv
17,1).
E così pure a noi è bensì pressantemente
comandata la virtù della misericordia. Ma al di sopra di essa c’è la carità,
che non esaurisce le sue istanze nell’ambito della misericordia, che è cuore
per il misero, ma le supera in più ampie e superiori prospettive di glorificazione
di Dio e del prossimo, in Cristo e nello Spirito.
Volendo insomma dire tutto in due parole,
diciamo che l’istanza fondamentale del Vangelo non è la misericordia, che
suppone e toglie la miseria, ma la glorificazione,
la theosis, come dicono gli
Orientali, il che dice perfezione compiuta e finale, come precorrimento della gloria
celeste, cioè della visione beatifica e della comunione dei santi. In cielo non
ci sarà più bisogno della misericordia, perché lassù non ci saranno più miserie
e tanto più sarebbe ridicolo e assurdo voler avere misericordia di Dio o
consolare un Dio sofferente.
Ma regnerà ovunque e sempre la sola carità. L’unica virtù a tempo pieno,
da praticare in ogni istante, non è dunque la misericordia, per quanto
importante essa sia quaggiù, ma è la carità, perché ci può essere un tempo per la
misericordia e un tempo per la giustizia, ma per la carità c’è sempre tempo.
Con ciò penso saranno chiare le mie riserve
circa il titolo del libro: «Misericordia. Concetto fondamentale del Vangelo e chiave
della vita cristiana». Per quanto importante sia la virtù della misericordia – nessuno
lo mette in dubbio – trovo che sia riduttivo racchiudere la visione evangelica
nei limiti della misericordia, anziché allargarla, come è doveroso, agli spazi
infiniti della carità. Kasper propone così una prospettiva orizzontalistica
della misericordia, quasi politica, che tarpa le ali dello spirito e sembra
ridurre la Chiesa ad una società filantropica, magari di sinistra.
FINE PRIMA
PARTE
Caro Padre Giovanni,
RispondiEliminarelativamente alla questione che il Padre infinito genera il Figli infinito nel Suo grembo senza che ciò comporti un ritirarsi spazialmente da parte del Padre, mi è venuta in mente questa similitudine di carattere geometrico : come una retta è un insieme infinito di punti (il Padre) è altrettanto vero che tra due punti consecutivi della retta vi sono infiniti punti (il Figlio); abbiamo cioè l'infinito contenuto nell'infinito senza che l'uno limiti l'altro. Può reggere come paragone?
Caro Rossano, è vero che tra due punti ci sono infiniti punti. Tuttavia i due punti pongono un limite, per cui non siamo davanti a un vero infinito, ma a una linea limitata. Questi paragoni di tipo matematico generalmente non sono utili e non sono usati nè dalla Scrittura nè dai Dottori della Chiesa, perchè la matematica è legata alla quantità e quindi alla materia. Invece Dio è Spirito e Vita. Per questo la Scrittura usa immagini tratte dalla vita e non dalla matematica.
EliminaCaro Padre, sono convinto che Kasper ignori completamente il concetto di partecipatio entis; senza il quale è impossibile comprendere la trascendenza e la creazione. Purtroppo però, Kasper è vescovo....
RispondiEliminaCaro Anonimo, come ho detto nel mio articolo, il problema di Kasper è la sua incompetenza in metafisica, e questa è una cosa molto grave, perchè impedisce di capire le verità di fede. Si nota in lui quello storicismo caratteristico del modernismo condannato da S.Pio X, quando egli accusa i modernisti di ignorare l'immutabilità della verità.
EliminaNon capisco bene l'inizio del suo articolo, dal momento che Papa Francesco si è dichiarato un ammiratore confesso di Kasper:
RispondiElimina"In questi giorni, ho potuto leggere un libro di un Cardinale – il Cardinale Kasper, un teologo in gamba, un buon teologo – sulla misericordia. E mi ha fatto tanto bene...".
Angelus 17.03.2013: https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2013/documents/papa-francesco_angelus_20130317.html
Caro padre, penso che il problema sia che Kasper è un modernista, sulla falsariga dello gnosticismo panteistico hegeliano, come Rahner e tanti altri. Non c’è bisogno che lo dimostri, lo hai già fatto con solide basi, qui e in tante altre sue pubblicazioni. Ciò che ci si aspetterebbe dal Vaticano è la condanna dell’eresia, non l’elogio di coloro che la promuovono. Quest'ultima, oltre ad essere una colpa grave, mi sembra sufficiente per essere sospettata di eresia...
Caro Dino,
Eliminadobbiamo pensare che il Papa ha saputo apprezzare il tema della misericordia, che Kasper nel suo libro svolge molto bene, soprattutto in riferimento allo stile pastorale della Chiesa, conseguente alla riforma conciliare.
Indubbiamente resta la necessità di recuperare nel giusto senso l’attributo divino della severità, che spiega l’esistenza dei castighi divini e della pena dei dannati.
Ovviamente il Papa non è contrario a discorsi di questo genere, dato che entrano nell’orizzonte della divina rivelazione. Tuttavia egli preferisce il suo attuale stile pastorale, nei confronti del quale non è proibita una certa critica fatta con rispetto e spirito di collaborazione.