Il rapporto della fisica con la metafisica - Il progresso nella conoscenza della natura favorisce la conoscenza di Dio

 Il rapporto della fisica con la metafisica

Il progresso nella conoscenza della natura

favorisce la conoscenza di Dio


La meravigliosa ma rischiosa potenza sulla natura

garantitaci dalla fisica moderna

Quello che oggi ci meraviglia è come i fisici riescano ad operare sulla micromateria ottenendo da essa risultati tecnici che hanno, allo sguardo del profano, del prodigioso, come il computer o il robot o i telescopi elettronici e tanti altri prodotti della tecnica al servizio della medicina o dell’industria o dell’agricoltura o della stessa ricerca scientifica.

Ci siamo accorti per mezzo di indagini fisiche avanzatissime, che la micromateria, che non cade direttamente sotto i nostri sensi, ma è conosciuta indirettamente per mezzo di calcoli matematici e strumenti tecnici appositamente costruiti,  è alquanto differente dalla macromateria, ossia dagli oggetti materiali, dai corpi e dalle cose sensibili, viventi e non viventi, compreso il nostro stesso corpo, che cadono quotidianamente sotto i nostri sensi.

Molte cose, soprattutto quelle non viventi, appaiono ai nostri sensi compatte, solide, inerti, immobili, impenetrabili, benché certamente anche i nostri sensi conoscano una materia in movimento o in agitazione o dinamica, come il fuoco, l’elettricità, i vapori, la luce o il suono, o materie elastiche, mobili, evanescenti, sottili, attraversabili, trasparenti o fluide, come l’aria, le nubi, il ghiaccio o l’acqua.

Invece il mondo della micromateria, oggetto della fisica quantistica, appare dotato di una potenza, di forze ed energie enormemente  superiori a quelle dei corpi e delle materia che cadono sotto la nostra esperienza; il loro essere non appare compatto, spesso o denso, o almeno palpabile o sensibile come quello  della macromateria, ma sembra quasi immateriale, senza precisi contorni, sfuggente, impercettibile, inafferrabile, indeterminato  a somiglianza del mondo della mente o dello spirito, sembra oggetto di semplice immaginazione matematica e non qualcosa di per sé sensibile.

Da qui la tentazione del fisico quantistico o atomico di farsi una concezione idealistica della materia, sul tipo di quella di Berkeley: esse est percipi. Il fisico perde di vista che la micromateria è un ente o sostanza materiale oggettiva, esistente al di fuori e in sé indipendentemente dalla mente del fisico, ente o sostanza sensibile e mobile composta di atto e potenza, essenza ed essere, materia e forma, sostanza e accidenti, quantità e qualità, azione, passione, movimento, causalità efficiente e finale, divenire, proprietà, attitudine, spazio, tempo ed azione, che sono accidenti della sostanza.

Se il senso non arriva a percepire questi enti, queste particelle infinitesimali  non vuol dire che siano enti di ragione puramente matematici, semplici oggetti dell’immaginazione o del pensiero, enti mentali, prodotti dalla nostra mente, solo perché non sono percepibili. Essi non lo sono non perché in linea di principio non siano sensibili, ma semplicemente perché, per la loro estrema piccolezza, sfuggono alla nostra capacità di sperimentare o di sentire o di percepire, fatta solo per la macromateria e gli oggetti dell’esperienza quotidiana. Se Dio creasse un organo di senso – e potrebbe farlo benissimo - così piccolo da essere proporzionato agli atomi o ai bosoni, il senso li sentirebbe.

Occorre peraltro precisare, contro i pregiudizi idealisti o leibniziani, che gli atomi, i neutroni, i neutrini, i protoni, fino all’antimateria, ai bosoni e alle particelle elementari non sono affatto privi di estensione, dimensioni e peso, ma sono collocati nello spazio, con una data velocità o tipo di movimento, per cui nulla hanno a che vedere con la sostanza spirituale, di per sé sovraspaziale e sovratemporale.

La loro invisibilità ai nostri microscopi più avanzati non ha nulla a che vedere con l’invisibilità ed immaterialità propria dello spirito o della entità ideale,  ma dipende esclusivamente dal fatto che i nostri microscopi più avanzati non riescono a percepirli perché per loro sono entità troppo piccole, per cui ne conosciamo l’esistenza solo dagli effetti che essi producono nei nostri strumenti di rilevamento, effetti che vengono descritti mediante semplici schemi astratti o figure, formule, misurazioni o calcoli matematici e sono rilevabili solo indirettamente, come l’effetto denota la causa,  grazie a quei complessi e raffinati strumenti tecnici e sistemi fisico-matematici di misurazione. Il rischio è quello di scambiare questi schemi astratti, che non sono altro che enti di ragione matematici, per la realtà materiale stessa che essi devono misurare e rappresentare.

E se il risultato dell’indagine è indeterminato, ciò non dipende dal fatto che la posizione-velocità della particella sia indeterminata in se stessa; essa è determinatissima: siamo noi che non riusciamo a determinare questa conoscenza per l’imperfezione ed inadeguatezza dei nostri mezzi di indagine.

È come se pretendessimo di riconoscere l’identità di una persona a 200 metri di distanza. Non è che quella persona sia indeterminata; siamo noi che a quella distanza non siamo in grado di riconoscerla. Non è che la particella sia sottratta o esente dal determinismo proprio della natura fisica e delle sue leggi; il determinismo c’è: siamo noi che, per l’imperfezione del nostro metodo d’indagine, data la materia troppo piccola, non riusciamo a vederlo e a formularlo in una formula matematica

Siccome questo mondo è rappresentato mediante l’immaginazione matematica, che tocca solo la quantità, il numero e l’estensione e viene descritto in formule matematiche, il fisico non attento alla realtà fisica, ma desideroso di affermare se stesso, può avere la tentazione di risolvere il mondo della materia, della natura e della fisica, in un mondo di entità di ragione immaginario creato da lui, col rischio di ritenersi autorizzato a padroneggiare questo mondo ideale di entità di ragione, di formule ben congegnate e di concetti, come fosse il mondo reale extramentale creato da Dio, e quindi di mettersi al posto di Dio nel fare del mondo fisico non ciò che piace a Dio, ma ciò che piace a lui.

Dal’ente materiale all’ente in quanto ente

Alla riduzione idealistica di origine cartesiana della sostanza materiale a ente esteso, di ragione, immaginario e matematico, in movimento meccanico senza tendere a un fine, ma solo causato dall’agente, corrisponde in fisica, sempre per influsso cartesiano, il fatto che la sostanza materiale si chiude nella sua autosufficienza, per cui, se la res cogitans dà spazio all’idealismo, la res extensa apre al materialismo.

Ciò vuol dire che dalla fisica non si può passare alla metafisica: il fisico non vede più nel corpo vivente pianta, animale o uomo, l’impronta dell’anima e dall’anima non può giungere allo spirito, né dallo spirito può giungere a Dio. Se i sensi colgono la verità sensibile, per Cartesio, ciò non avviene in forza della loro natura, che non riesce a superare il dubbio, ma in forza della luce divina, che illumina l’anima al momento del cogito.

Così si ha il paradosso di uno spiritualismo anche troppo pretenzioso, per cui il sapere non parte più dai sensi ma dall’autocoscienza spirituale (il cogito), che però pone le basi di una fisica che non sale più alla metafisica e quindi alla teologia, ma si ferma su se stessa generando il materialismo e la metafisica, invece di essere il vertice del sapere, diventa la condizione di possibilità della fisica, mentre la conoscenza di Dio è già inclusa nel cogito.

La metafisica cartesiana non è più un’indagine sull’ente, ma sull’io, sulla coscienza del proprio essere: l’essere diventa l’essere pensato. Resta certo l’oggetto della fisica come sostanza materiale e della matematica come ens quantum, ma non si tratta più di arrivare all’ente come ente astraendo prima dal sensibile e dal mobile, e successivamente dalla quantità, per raggiungere l’ente, che può essere materiale e spirituale, mentre l’ente spirituale è l’anima, l’angelo e Dio.

Concetto ristretto e concetto allargato di scienza

Oggi spesso quando si parla di «scienza» s’intende la scienza sperimentale oppure la matematica. Ora dobbiamo tener presente che la scienza in generale è la conoscenza certa per mezzo delle cause. Ma questo sapere certo non richiede necessariamente che il suo oggetto o le sue conclusioni o le sue tesi siano sperimentalmente verificabili.

Il concetto di scienza nel senso di scienza sperimentale, dunque, è un concetto ristretto di scienza, che non abbraccia tutto il significato della scienza, ma può esser scienza anche un sapere che non ha bisogno di essere sperimentalmente verificato, ma che ha la sua certezza semplicemente in base al ragionamento, come la cosmologia o filosofia della natura, la matematica, la metafisica e la teologia.

Già la matematica è certa non perché ricorriamo all’esperienza, giacchè il suo oggetto è un oggetto puramente immaginabile, ma perché ci fondiamo sul ragionamento deduttivo, il quale, partendo da premesse evidenti all’immaginazione quantitativa,  dimostra un teorema o il risultato di un calcolo numerico facendo ricorso alle definizioni ed esplicitando in modo incontrovertibile ciò che è implicito nei postulati o nei dati di partenza. 

Ma la matematica non ha per oggetto la realtà, l’ente reale, bensì l’ente quantitativo, astratto dalla mente dall’ente sensibile e mobile, liberato dalla sensibilità e dalla mobilità. L’ente matematico non cade sotto i sensi e non si muove, ma è solo immaginabile ed immobile, fuori del tempo e dello spazio.

La fisica è il sapere che attiene alle realtà materiali, viventi e non viventi, fino all’uomo. Essa ha due rami: la cosmologia e la scienza sperimentale: la fisica sperimentale, la botanica, la zoologia, l’antropologia sperimentale, ciò che Teilhard de Chardin chiamava il «fenomeno umano». La cosmologia o filosofia della natura è la scienza dell’ente sensibile mobile.

Essa ha per oggetto il mondo in quanto ente mobile e sensibile ed anche l’antropologia, in quanto essa pure entra nella categoria dell’ente mobile e sensibile. Tuttavia l’antropologia apre alla metafisica, in forza del fatto che l’uomo è animato da un’anima spirituale. Ora la metafisica s’interessa dell’ente, che può essere materiale o spirituale. La scienza sperimentale introduce dunque alla cosmologia e questa alla metafisica, la scienza dell’ente in quanto ente.

L’ente può essere o materiale o spirituale. Non sta però alla metafisica dimostrare l’esistenza dello spirito. Cartesio credette che per conoscerne l’esistenza, basta l’autocoscienza. Indubbiamente, quando penso a me stesso, faccio un’esperienza della mia spiritualità, metto in luce il mio essere spirituale.

Da qui però a dire che io sono uno spirito, una res cogitans, ci corre. Dal ritenere poi che questa mia autocoscienza sia il punto di partenza e il fondamento del mio sapere ci corre ancora. Dal passare poi da questa autocoscienza a dire che trovo in me innata l’idea di Dio ci corre ancora. Dovrei però chiedermi come sono giunto all’autocoscienza, e mi accorgerei che la percezione del mio io pensante lo spirito, è la conclusione di un precedente cammino, che iniziò nella mia prima fanciullezza con la percezione delle cose esterne.

Oggetto iniziale del mio pensare non è il mio io o il fatto che io esisto, ma sono le cose esterne. Se dubito della veracità del senso, come ha fatto Cartesio, invano io cerco la certezza nella coscienza di pensare. Pensare infatti che cosa? Dubitare? Ma dubitare non è pensare. Quindi il cogito cartesiano non ha alcun valore di fondamento. Non posso appoggiare la mia certezza sul dubbio. Non posso ricavare la certezza dal dubitare, se prima non sciolgo il dubbio. Cartesio non risolve lo scetticismo del senso e pretende di trovare nel cogito il principio della certezza, senza rendersi conto che se io sono certo di pensare e quindi di esistere, è perché in precedenza ho sperimentato la certezza del sapere sensibile.

Cartesio, se fosse stato coerente e conseguente nel suo ragionare, avrebbe dovuto dire: «dubito, quindi sono». Ma è ovvio che una tesi del genere non ha senso. Allora ha mascherato il dubito col penso (cogito), senza precisare però che cosa pensa. Avrebbe dovuto dire; penso le cose esterne. Ma siccome dubita deliberatamente della veracità del senso, sopprime l’oggetto dello stesso senso. Così abbiamo un pensare (dubitare) senza oggetto: altra assurdità, perché o il pensare ha un oggetto o non c’è il pensare. Questo assurdo è il principio della cosiddetta «filosofia moderna».

Ora nessuna inferenza o conclusione o entimema[1] si può basare sul dubbio. La certezza iniziale è la certezza delle cose esterne. Da lì dobbiamo partire per fondare il sapere e trovare veramente l’esperienza dello spirito. Solo sul presupposto della conoscenza delle cose si può attuare l’autocoscienza, che è effettivamente un’esperienza spirituale, ma incomunicabile, perché la mente non ha un concetto del proprio spirito. Quindi non serve alla dimostrazione dell’esistenza dello spirito.

Per dimostrare l’esistenza dell’anima spirituale occorre un ragionamento induttivo, il quale, partendo dal fatto che nel concetto rappresentiamo le cose materiali esterne, esaminando la natura e l’origine del concetto, arriviamo alla scoperta dell’esistenza della nostra anima.

Dunque è partendo dalla conoscenza della quidditas rei materialis che noi arriviamo alla scoperta della sostanza spirituale. L’esperienza del proprio io è un fatto del tutto personale e non comunicabile. È vero che possiamo invitare l’altro a fare la stessa esperienza. Ma l’essenza del nostro spirito ci rimane oscura e in ogni caso per averne qualche conoscenza, occorre che andiamo per analogia con le sostanze materiali già note[2].

Se dall’ente mobile, sensibile e quantitativo astraiamo queste tre proprietà, focalizziamo l’ente come tale, ciò che esiste o può esistere in qualunque modo. Tutti noi, sin da quando ci apriamo all’esercizio della ragione, formiamo, almeno implicitamente ed inconsapevolmente, la nozione dell’ente o della cosa o del qualcosa, che include tutte le altre perché è la più vasta di tutte, dai molteplici significati, perché di ogni cosa che intendiamo o concepiamo o a cui pensiamo, anche le non esistenti, anche quelle fantastiche o inventate, sottintendiamo che siano enti o qualcosa.

Anche ciò che non ha essere, come il nulla o che è privazione di realtà, come il male, lo intendiamo come se fosse un ente. Anche i prodotti del nostro pensiero, i nostri concetti, le nostre idee, i nostri giudizi, benché non si tratti di cose esistenti fuori di noi, li consideriamo come enti, enti di ragione, ed abbiamo allora la scienza della logica.

Ora, l’ente ci appare come ciò che ha un’essenza in atto d’essere. Ecco allora che nell’ente troviamo il «ciò-che», il quod, il soggetto, troviamo poi l’essenza, che è ciò per cui l’ente è ciò che è o ciò che l’ente è, la quiddità, e infine troviamo l’essere, che è l’atto dell’ente, actus essendi, esse ut actus, atto rispetto a cui l’essenza è un poter-essere, giacchè l’essere di un dato ente è l’atto di quella data essenza, che è potenza di essere, è il poter-essere quel dato ente.

I gradi dell’ente

La mente non soltanto allarga il sapere passando dalla considerazione dell’ente fisico a quello metafisico, ma anche lo eleva ad un piano superore di essere, passando dalla considerazione dell’ente materiale a quello spirituale.  Chi ha scoperto la superiorità del sapere intellettuale rispetto a quello sensibile è stato Platone, con la sua distinzione fra l’intellegibile (noetòn), il mondo delle idee e il sensibile (aisthetòn), il mondo dell’apparenza, dell’immagine, dell’imitazione e della partecipazione. L’intellegibile ossia l’ideale, che poi per lui è lo spirito,  è apparso a Platone superiore, in quanto uno, perfetto, semplice, universale, incorruttibile, immutabile e intuitivo.

Platone, tuttavia, sotto l’influsso di Parmenide, apologeta dell’Uno ed unico Essere-Pensiero assoluto ed immutabile, si è trovato a disagio a spiegare il molteplice materiale e mutevole, che gli appariva inintellegibile, illusorio e contradditorio. Per questo, se da una parte sottovalutava la dignità del senso, limitandolo alla formazione del semplice opinare (doxa), dall’altra dava troppo potere all’intelletto e al pensare considerando come realtà sussistente l’essenza universale astratta dell’intelletto, che egli, come è noto, chiamava «idea» o eidos, che significa «visione».

Restava la certezza del sapere matematico, in quanto oggetto dell’immaginazione ricondotto all’ordine ideale e libero dalla percezione sensibile. Ma per Platone una fisica come scienza è impossibile perché la percezione del senso è soggettiva e non dà certezza.

D’altra la metafisica platonica non dà vera garanzia di fondatezza, perchè è certo intuizione dell’essere ideale, ma non ricavata per astrazione dall’esperienza dell’ente sensibile, bensì ricavata dalla semplice autocoscienza, la quale può facilmente scambiare per realtà le proprie idee.

Inoltre bisogna distinguere l’elevazione dello sguardo o del sapere dal fisico al metafisico al teologico, con l’elevazione o la nobilitazione del proprio essere. L’aumento del nostro essere ha un limite; quello del nostro sapere non ha limite: deve e può aumentare e progredire sempre più. Il nostro essere è finito: il nostro sapere si rapporta all’Infinito. Il rischio qui è quello di credere che, siccome possiamo conoscere l’Infinito, possiamo diventare noi stessi infiniti o diventare l’Infinito al posto del vero Infinito, che è Dio. Ma questa è la grave illusione del panteismo e dell’ateismo. Diventare adulti, vuol dire diventare indipendenti non solo in certe cose, ma nell’essere stesso, come Dio.

Ma questo è un  procedimento illusorio, dettato dalla superbia. Il passare dall’età infantile all’età adulta, l’aumento delle dimensioni corporee, l’acquisto del sapere e della virtù, il poter fare da adulto ciò che un fanciullo non riesce a fare, per cui l’adulto si rende indipendente dai genitori, viene visto in un’ottica di superbia come lo sviluppo pieno della personalità, per cui l’io non si avverte più come creato da Dio e dipendente da Lui, ma fondato su stesso, sufficiente a se stesso, posto da se stesso, esistente da se stesso. È il cammino dell’io cartesiano, come dimostra la storia della filosofia, che deduce il sapere dall’autocoscienza ed esplicita e sviluppa le istanze originarie dell’io.

La metafisica tratta anche degli angeli

Platone ha il grande merito di aver scoperto l’esistenza degli angeli, partendo dalla considerazione del potere del nostro intelletto, il quale appunto intuisce immaterialmente l’ideale al di sopra del sensibile e del materiale, e quindi ritrovandosi come spirito, seppur guida di un corpo.

Tuttavia Platone capì che occorreva ammettere anche spiriti del tutto incorporei e separati dalla materia, appunto le idee, in quanto enti per partecipazione, della somma Idea del Bene, che è Dio, Essere per essenza (to pantelòs on)[3]. Dio Spirito assoluto, partecipa del proprio essere una molteplicità di puri spiriti, che egli chiama «idee», e che la Bibbia chiama angeli. Invece gli spiriti uniti a un corpo sono gli uomini.

Aristotele accolse sostanzialmente questa visione di Platone apportandovi alcune correzioni:

 

1)   noi esplicitiamo la nozione analogica dell’ente al terzo grado di astrazione, partendo dalla fisica (prescindere dal sensibile mobile), e passando dalla matematica (prescindere dalla quantità).

 

2)   È possibile cogliere il necessario e immutabile (leggi fisiche) anche nel sapere sensibile, perché il sentire non è soggettivo ma oggettivo, e il divenire non è contradditorio, ma ha una suo identità: è l’atto dell’ente di passare  dalla potenza all’atto. La materia non è un non-essere, non è un vuoto, non è lo spazio, ma un poter-essere (dynamis). Così Aristotele ha fondato la fisica come scienza.

 

3)   L’ideale (to alethès) non è il reale (to on), ma rappresentazione o paradigma del reale. In tal modo Aristotele è il fondatore della logica in quanto distinta dalla metafisica.

 

4)   L’anima non è semplicemente uno spirito motore del corpo come il nocchiero è la guida della nave, ma è la forma immateriale incorruttibile sostanziale del corpo, col quale forma un’unica sostanza, e così Aristotele è il fondatore della psicologia.

 

5)   Gli dèi inferiori di Platone non sono  le idee, ma le sostanze separate (usiai coristai), quelli che la Bibbia chiama angeli, sostanze che non vanno considerate come semplici intelletti astratti o ideali, sia pur rappresentati  dalle Muse o dal daimon,  che partecipano alla mente umana del proprio essere o sapere, ma come soggetti reali, dotati di volontà, veri spiriti o persone, ossia sostanze agenti e moventi per mezzo dell’intelletto  e della volontà.

La metafisica di Aristotele è la metafisica dell’ente (on). Egli conobbe Parmenide, ma, scandalizzato dal suo monismo dell’essere univoco (einai), non si accorse dell’importanza metafisica dell’einai e del fatto che, se certamente l’eternalismo panteista ed univocista di Parmenide era sbagliato, giusta era l’intuizione dell’essere come essere assoluto, solo che confondeva l’essere con l’essere divino, il pensiero con l’essere, negava il divenire, riducendo il contingente al necessario e col pretesto dell’unità e dell’identità, togliendo tutte le differenze, le distinzioni e le diversità.

In tal modo Aristotele vede l’essere (einai) solo come copula del giudizio, mentre San Tommaso, alla luce di Es 3.14 e senza accorgersi anche lui delle possibilità offerte dall’einai parmenideo, si accorse che il nome proprio di Dio non è l’ente, ma l’essere (esse), e precisamente l’ipsum Esse, come atto d’essere (esse ut actus), senza per questo negare Dio come ente primo, sommo, supremo e perfettissimo corrispondente al Dio «altissimo» della Bibbia, il Dio trascendente che è nei cieli.

Così Tommaso si accorse che la nozione dell’essere è tratta dal verbo essere. Esso è effettivamente espresso nella copula del giudizio, ma la copula, ben lungi dal significare l’essere solo se accompagnata dal soggetto e dal predicato, come avviene in tutti i nostri ordinari giudizi, significa per se stessa, e significa  appunto l’essere (esse, einai)[4].

Per Aristotele la copula «consignifica» soltanto nel senso che nel giudizio essa ha significato solo se preceduta dal soggetto e seguita dal predicatogli. Tommaso non nega che nei nostri giudizi ordinari, quando si tratta di un ente, la cui l’essenza è distinta dall’essere, ciò avvenga. Vuol dire tuttavia che la copula può significare anche  da sola, per cui l’essere può essere predicato anche da solo, senza l’aggiunta del predicato nominale, come quando diciamo che Dio È.

In tal modo Tommaso dà alla metafisica il suo più autentico oggetto, che non è l’ente, ma l’essere e al contempo, sulla base di Es 3,14, ricava il nome di Dio non tanto dalla nozione dell’ente, quanto piuttosto da quella dell’essere, inteso come atto dell’essenza, vista come potenza di essere, alla quale Aristotele non pensò, benchè vi si fosse molto avvicinato con la sua nozione di Dio come Pensiero del Pensiero, il che suppone evidentemente un soggetto, il quale, identificando il suo  pensare col suo essere, deve essere necessariamente l’Essere sussistente.

D’altra parte, come è noto, Aristotele si pose il problema dell’origine del divenire, ma non di quello dell’essere. Per lui materia e forma sono dati di fatto scontati, esistenti ab aeterno, circa i quali non s’interroga chi li ha creati. Tuttavia, solo che avesse riflettuto che materia e forma esistono, ma potrebbero non esistere, si sarebbe chiesto chi ha causato e voluto il loro esistere.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 01 ottobre 2023

 

 
 
Aristotele si pose il problema dell’origine del divenire, ma non di quello dell’essere. Per lui materia e forma sono dati di fatto scontati, esistenti ab aeterno, circa i quali non s’interroga chi li ha creati. Tuttavia, solo che avesse riflettuto che materia e forma esistono, ma potrebbero non esistere, si sarebbe chiesto chi ha causato e voluto il loro esistere.
 
Immagine da Internet: Scuola di Atene, Raffaello Sanzio

[1] Per Cartesio l’«ergo» del famoso cogito ergo sum non è una conclusione, ma una semplice esplicazione o esplicitazione del cogito, dando l’avvio a quella che sarà l’identificazione del pensiero con l’essere, che caratterizza l’idealismo.

[2] Cf S.Tommaso, Summa Theologiae, I, q.87, a.1

[3] Cf S.Tommaso, Summa theologiae, I, q.50, a.1.

[4] Commento al Perì Hermeneias di Aristotele, l.I, c.III, lectio V, nn.71-73, Marietti, Torino 1964, pp.28-29.

3 commenti:

  1. Gli angeli hanno i sensi?

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    1. Caro Anonimo,
      l’angelo è una persona puramente spirituale e tuttavia, come noi e meglio di noi, conosce le cose sensibili, per esempio i colori, i sapori e gli odori, ma le conosce non perché sia dotato di sensi, come noi e gli animali, ma le conosce solamente mediante il suo spirito, come del resto avviene in Dio stesso, che è purissimo spirito, il quale sente benissimo il suono della nostra voce, vede il colore dei nostri occhi, sente il sapore dei nostri cibi, il profumo dei fiori e tantissime altre qualità sensibili.
      Mentre la creatura materiale umana ed animale sente le qualità sensibili con i sensi, la creatura spirituale e Dio sentono mediante lo spirito, perché il sentire sensibile è contenuto virtualmente nella facoltà conoscitiva superiore, ossia l’intelletto, così come la virtù di suonare il piano è contenuta nella volontà del pianista, anche se egli non suona in atto. Possiamo dire allora che il suonare il piano è avvertito dal pianista, anche se di fatto non suona, perché di fatto sa cosa vuol dire suonare il piano.
      Così l’angelo con l’intelletto e la volontà padroneggia la facoltà inferiore del sentire fisico contenendola virtualmente in se stesso, anche se non possiede come noi e gli animali la facoltà sensitiva in senso formale, ossia separata dall’intelletto, come invece avviene in noi.
      Quanto all’animale, egli, come è noto, possiede solamente le facoltà sensitive, le quali esistono in lui formalmente e non virtualmente come in noi, i quali, con la nostra anima spirituale, le conteniamo in modo solo virtuale. Tuttavia nel contempo esiste in noi una distinzione reale tra anima e corpo, in modo tale che la sensibilità sia una sua attività autonoma, distinta dall’esercizio della nostra spiritualità, benchè questa abbia la responsabilità di governare la dimensione sensitiva.

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