Il concetto di Dio da Kant a Feuerbach - Da Dio come idea della ragione a Dio come alienazione della ragione - Terza Parte (3/5)

 Il concetto di Dio da Kant a Feuerbach

Da Dio come idea della ragione a Dio come alienazione della ragione

 
 Terza Parte (3/5)

Col sorgere del razionalismo

il concetto dell’esistenza si degrada in quello dell’essenza.

L’ideale interessa di più del reale

Con Cartesio l’attenzione dei filosofi si sposta dall’attenzione alla realtà sensibile esterna, circa la quale si avanza il dubbio, alle nostre idee, che appaiono come i dati primi, «a priori», certissimi ed inconfutabili del nostro sapere. Ciò che appare interessante non è più la realtà, come nel realismo medioevale, ma sono le essenze concepite nelle idee, sono in sostanza le idee. Qui appare l’idea di Dio. In questa nuova visuale noi non cogliamo l’esistenza, ma l’idea dell’esistenza.

Più che sapere se Dio esiste, interessa sapere se esiste l’idea di Dio. Resta il problema se dall’idea di Dio e dell’esistenza, si può dedurre un Dio reale e un’esistenza reale al di fuori della nostra mente e indipendente dalla nostra mente. Ci si dimentica che noi formiamo le nostre idee in base all’esperienza del reale e non sappiamo che c’è il reale perché ne abbiamo l’idea.

Come d’altra contattare questa eventuale realtà esterna? Come esser certi della sua esistenza? Esiste una realtà esterna corrispondente alle nostre idee? Qui Cartesio cade in una patente contraddizione: le nostre idee delle cose sono effetti mentali di cose esterne che sono la causa delle nostre idee. Applica il principio di causalità, che suppone l’ammissione di quella stessa realtà esterna della quale intende dimostrare l’esistenza.

Nel sec. XVII in Inghilterra gli anglicani Isaac Newton, John Toland, Herbert di Cherbury, e successivamente in Francia nel sec. XVIII, da loro influenzati, Voltaire[1] e Robespierre si dichiarano convinti dell’esistenza di Dio, dell’Ente supremo.

Ma poi che idea ne hanno? È la concezione che stava elaborando Kant in quegli stessi anni nei quali in Francia operavano Voltaire e Robespierre: non è altro che il Dio della massoneria, «architetto», ma non creatore dell’universo, quindi mente sì progettatrice ed organizzatrice non però persona infinita  trascendente l’universo e l’uomo, che possa rivelare verità che trascendono la ragione, un Dio comprensibile alla ragione, ma immanente nell’universo e nell’uomo, quello che già Giordano Bruno aveva chiamato «anima del mondo».

Si tratta di quella concezione che ha preso il nome di «deismo», che Kant oppone al «teismo» in questi termini:

 

«Se per teologia intendo la conoscenza dell’Ente originario, essa è fondata o sulla pura ragione (theologia naturalis) o su di una rivelazione. La prima concepisce il suo oggetto o semplicemente con la ragion pura, mediante meri concetti trascendentali (Ens originarium realissimum) e dicesi teologia trascendentale: ovvero, mediante un concetto che essa ricava dalla natura (della nostra anima) come la suprema intelligenza e dovrebbe dirsi teologia naturale.

 

Chi ammette soltanto una teologia trascendentale è detto deista; chi ammette anche una teologia naturale, teista. Il primo ammette che in ogni caso noi possiamo conoscere con la semplice ragione l’esistenza di un Ente originario, di cui peraltro il nostro concetto è semplicemente trascendentale, cioè solo di un ente che ha ogni realtà, ma che non si può determinare di più.

 

Il secondo afferma che la ragione è in grado di poter determinare di più l’oggetto secondo l’analogia con la natura, ossia come un ente che per intelletto e libertà contenga in sé il primo principio di tutte le altre cose. Quello che si rappresenta, dunque, in tale ente è solo una causa del mondo (senza dire se mediante la necessità della sua natura o mediante la libertà); questo, il creatore del mondo»[2].

Da ciò vediamo come il deismo, che è la posizione assunta da Kant, costituisce un indebolimento del teismo. L’immagine di Dio, passando dal teismo al deismo si sbiadisce. La visione si appanna e si annebbia. Il distinto diventa confuso. Gli attributi diminuiscono. Il mistero perde la sua misteriosità e si rimpicciolisce nelle dimensioni della nostra ragione. Il cibo dell’intelletto perde il suo sapore e diventa insipido. La densità e consistenza ontologiche della realtà divina diventa rarefatta, perde la sua solidità e assume la tenuità ed impalpabilità del nostro mondo ideale.

Nel teismo Dio è una persona spirituale infinita e trascendente, un Tu col quale il credente parla e Che parla al credente, rivelandogli per mezzo di Cristo i misteri soprannaturali della sua intima essenza, formulati nei dogmi insegnati dal Magistero della Chiesa. Nel deismo Dio è ente supremo nel senso di una suprema idea come principio primo unificante ed originante tutto il sistema delle conoscenze e delle scienze razionali speculative e pratiche, naturali ed umane.

Possiamo dire che il Dio di Cartesio è ancora il Dio che si rivela nella dogmatica cattolica, che Cartesio come cattolico indubbiamente accettò. E di fatto Cartesio condusse un’effettiva pratica religiosa e morale cattolica. Tuttavia il cogito, così come sarà esplicitato nei secoli seguenti, contiene di fatto, come lo dimostreranno gli stessi filosofi idealisti che si sono basati su di esso, pretese esorbitanti, che vanno ben al di là dei limiti consentiti dell’io umano e lo mutano in divino, come se io potessi dire del mio io Io Sono allo stesso modo in cui lo dice Gesù Cristo.

Ora il modo serio di porsi il problema dell’esistenza di Dio non è semplicemente quello se abbiamo o non abbiamo un’idea innata di Dio ed eventualmente, come fece Sant’Anselmo, affermare che Dio esiste perché abbiamo l’idea dell’id quo nihil maius cogitari potest.

Il problema è se esiste un Dio creatore. La massima potenza della ragione, il suo bisogno più profondo, la sua esigenza più radicale si manifestano quando la ragione affronta il problema della creazione. Perchè le cose esistono piuttosto che non esistere, dato che potrebbero non esistere? Chi le fa esistere? Come dev’essere il creatore della loro esistenza? Questo è il problema di Dio posto nei termini giusti, in maniera veramente seria e non come se si trattasse di un problema di idee. È un problema di realtà, non di idee.

Infatti la ragione non s’accontenta di constatare l’esistenza delle cose, di scoprire le cause seconde, di sapere come e di che cosa sono  fatte, come si relazionano fra di loro, che cosa fanno e che cosa patiscono, dove cominciano e dove finiscono, quanto pesano e quanto spazio occupano, come si generano e come si corrompono, come si guastano e come si riparano, come possiamo utilizzarle o modificarle per i nostri scopi, a che cosa servono o a che cosa tendono e che cosa respingono, perché mutano e come mutano. 

Il Dio di Kant

Con la filosofia di Kant vediamo Dio diventare un’idea. E di fatti, come egli dirà, Dio non è niente più che l’immagine o la rappresentazione sublime dell’omnitudo realitatis come suprema idea della nostra ragione che raccoglie in unità a guisa di ens originarium, primum et summum tutti i prodotti della nostra ragione. Ma si capisce che questo Dio è ormai un’astrazione, non è più una persona con la quale interloquire e alla quale render conto e offrire sacrifici.

Per converso, la ragione umana osa prendere su di sé l’onere infinito che prima spettava a Dio, di dar fondamento prima alla razionalità del reale e successivamente con Fichte, che fa un ulteriore passo, allo stesso essere del reale, con l’abolizione della cosa in sé che appunto era l’ultimo povero residuo di oggettività indipendente dal nostro io e dal nostro pensare, prova oggettiva dell’esistenza di Dio creatore.

Da notare comunque che la divinizzazione della ragione, nell’intento degli illuministi e dello stesso Kant, non intendeva affatto proporre una concezione atea dell’esistenza, secondo il progetto della massoneria, nata agli inizi del ‘700, espressione politica dell’illuminismo filosofico.

Al contrario, come anche in Kant, il razionalismo assoluto doveva sposarsi con l’ammissione dell’esistenza di Dio. Ma come era concepito questo connubio? Lo aveva spiegato Kant: Dio può esser certo chiamato Ente supremo, ma tale Ente supremo non esiste realmente, al di fuori dell’uomo, come persona o sostanza spirituale infinita e trascendente, creatrice dell’uomo e della sua ragione, perché la ragione, già da come la concepisce Cartesio, al quale Kant si rifà, in quanto res cogitans, ragione non come facoltà accidente di un soggetto, ma come sussistente in atto di pensare, non ha alcun bisogno di essere creata, ma essa, come chiarirà Fichte col suo Io assoluto, semplicemente pone se stessa e l’altro da sé.

Kant abbandona l’idea di un Dio come persona reale trascendente e creatrice della ragione. Sviluppando infatti il concetto cartesiano di ragione, Kant si accorge che Cartesio, al di là delle sue pie dichiarazioni circa l’esistenza di un Dio esterno e trascendente creatore della ragione, espediente messo in opera al fine di eludere la sorveglianza dell’Inquisizione, ammetteva in realtà un concetto di ragione che non giustificava affatto il creazionismo, ma lo escludeva per il fatto di essere fondata su se stessa. 

Ora Kant, non avendo questa preoccupazione di Cartesio, non ebbe problema a propalare coram populo, anche se non fino alle estreme conseguenze, le virtualità panteistiche della ragione cartesiana, anche se Kant non se l’è sentita di andare fino in fondo, per cui anche lui alla fine distingue Dio dalla ragione umana.

In Kant la ragione umana come ragion pratica non è partecipazione della ragione divina, non ha una ragione divina al di sopra di sé dalla quale riceva esistenza, fini e norme, ma appare assoluta, e quindi divina. È ciò di cui si accorgerà perfettamente Hegel. Sembra non essere limitata da niente. Come mai questo gravissimo errore? Da che cosa dipende? Dall’errore idealistico di identificare il pensiero con l’essere identificato con l’idea.

Se l’essere è l’essere pensato, se esse est percipi, che cosa mai potrà esistere fuori del nostro pensiero? Questo evidentemente non vuol dire che per l’idealista la ragione umana sia onnisciente, conosca il dettaglio di tutte le cose. Si rende conto anche lui dell’assurdità di una simile tesi. Egli vuol dire che non esiste per noi un pensabile non pensato, ma che l’essere è di per sé un pensato. Quindi noi non pensiamo delle cose, ma dei pensati. Questo evidentemente vuol dire ridurre l’essere al nostro pensiero, alle nostre idee. Non c’è un essere, neppure Dio, che trascenda il nostro pensiero. Questo vuol dire identificare la ragione umana con la ragione divina, il pensiero umano col pensiero divino.

La reazione romantica

La reazione romantica all’astrattezza, agli eccessi e all’aridità del razionalismo illuministico kantiano e deista inglese fu in Germania, dopo il trauma della Rivoluzione francese, effetto in ultima analisi di questo razionalismo freddo e disumano, il tentativo di recupero del caldo fideismo luterano, della mistica tedesca luterana e preluterana, con un occhio aperto anche al neoplatonismo e all’ermetismo rimesso in auge dall’umanesimo e dal rinascimento italiano ed al cabalismo cristianizzato tentato in quel medesimo periodo.

Alla ragione boriosa si cominciò a contrapporre il «cuore» (Hertz), il sentimento (Gefühl) e l’animo (Gemüth), l’intuizione al posto della deduzione, la coscienza al posto della conoscenza, l’esperienza al posto del concetto, la gnosi esoterica al posto della scienza razionalistica.

Col passaggio dall’illuminismo al romanticismo e l’annesso sviluppo dell’idealismo panteista, evolve sia il concetto di ragione che quello di religione. Come sappiamo, Lutero, per il suo feticistico orrore per le opere meritorie, nutriva disprezzo per la religione intesa come parte della virtù di giustizia che rende a Dio il debito culto a Dio e vi sostituiva quella che egli chiamava «fede», la quale, però, da lui intesa come inscindibile dalla carità, finiva comunque per accettare il culto divino, ma nel contempo i luterani non se la sentirono di assumere in toto la critica di Lutero alla religione.

Certamente condannarono come «superstizione», «idolatria» e «magia» i riti cattolici, ma mantennero alla religione un significato positivo, che però era diverso dal significato proprio. Per questo la «religione», secondo questo significato nuovo, si configurò come rapporto emotivo-pratico-speculativo con Dio, con eventuali tonalità estetico-mistiche, dove la prassi liturgica aveva una funzione del tutto secondaria[3].

Col romanticismo la ragione retrocede ed appaiono in primo piano altri impulsi vitali: la sensibilità, l’emotività, il gusto estetico, il sentimento, la volontà. La religiosità e la sete del divino sembrano aumentare, ma ormai il principio cartesiano dell’autocoscienza domina incontrastato, per cui, al di là e nello sfondo della recuperata tematica teologica, motivi cabalistici, invenzione poetica, pensieri sublimi, aspirazioni mistiche, estro musicale, mitologia germanica, bisogni di comunione universale, sentimenti panici, visioni olistiche, culto della natura, genio creativo, tutto finisce alla fine per ruotare attorno all’amatissimo Io adornato degli aggettivi più solenni, come «assoluto», «trascendentale», «originario» ed «infinito».

Se con l’illuminismo dal teismo si era passati al deismo, col romanticismo e l’idealismo trascendentale che ne è la categorizzazione concettuale, si passa al panteismo. Si continua a parlare di Dio e forse più che mai. Ma dietro a quella parola sempre di più c’è l’umano e sempre meno c’è il vero divino, o se il divino è conservato, è attribuito all’uomo e non a Dio.

Schleiermacher continua a parlare di Dio, ma il suo Dio è oltrepassato da categorie trascendentali che denotano un orientamento panteistico come «Infinito», «Assoluto», «Uno», «Eterno», «Tutto», «Universo». La religione comporterebbe, per Schleiermacher, un «sentimento di dipendenza», che sarebbe sentimento dell’Infinito, che meglio coglie l’infinito che non il dogma cristiano, da lui messo alla pari con le dottrine di tutte le altre religioni. Ma col far dipendere il cristianesimo dal suo concetto di religione, dovrà essere il cristianesimo a provare un sentimento di dipendenza nei confronti della religione di Schleiermacher, la quale che cosa è poi se non il frutto dell’Io assoluto di cartesiana derivazione?  

Ma non tarderà molto, quest’io, a spogliarsi delle vesti teologiche delle quali il panteismo lo riveste, per sbarazzarsi una buona volta di qualunque fede in Dio, fosse pure nella propria divinità, per bandire la parola stessa «Dio» dal suo vocabolario, come termine ormai inadeguato a rappresentare la sua sconfinata dignità, ben superiore al concetto di Dio che si era fatto Gesù Cristo.

Dio si rivela nel senso che l’Io si rivela a se stesso

Col passaggio dall’illuminismo al romanticismo mutò presso gli idealisti anche il significato del termine «rivelazione divina», che da spregiativo, come sinonimo di superstizione, divenne positivo come conoscenza e addirittura esperienza di Dio. Resta comunque fermo in questi pensatori luterani il rifiuto del concetto di rivelazione come manifestazione dei misteri divini fatta agli Apostoli e custodita e trasmessa dal magistero della Chiesa cattolica.

Se col sorgere del deismo inglese e con Kant viene respinta una religione i cui contenuti, rivelati da Dio, oltrepassano la ragione, adesso la rivelazione è intesa come manifestazione immediata ed originaria della verità divina atematica nell’intimo dell’autocoscienza cartesiana, mediata dalla rappresentazione (Vorstellung) concettuale o eventualmente, come in Schelling, dalla mitologia. Così di rivelazione parlano Fichte, Schelling ed Hegel.

Ma è chiaro che qui non si tratta del rapporto dell’io con una Persona trascendente creatrice dell’io, ma solo di una rivelazione radicale e ultimativa dell’io a se stesso: è l’Io assoluto che appare all’io empirico. L’uomo e Dio non sono due io, ma è lo stesso Io che appare a se stesso come io umano. Non si tratta quindi del rapporto dell’io umano con un Io divino. Non è l’Io divino che rivela se stesso all’io umano, ma è l’io umano coincidente con l’Io divino, al quale io umano l’Io divino si rvela.

Così la «religione rivelata» della quale parla Hegel non è per nulla la rivelazione fatta all’uomo di divini misteri soprannaturali, ma è semplicemente la piena svelatezza di quella stessa religione «entro i imiti della pura ragione» della quale parla Kant, benché Hegel non rifiuti di utilizzare, come vedremo in questo passo, anche il dogma cristologico come immagine del concetto dell’Assoluto:

 

«L’Essenza divina[4] è rivelata nella religione rivelata. Il suo esser manifesta consiste nel venir saputo proprio in quanto essa è saputa come Spirito, come Essenza che è assolutamente autocoscienza. Alla coscienza c’è alcunché di segreto nel suo oggetto, se questo è un Altro e un Estraneo per lei e se essa non lo sa come se stessa. Questa segretezza viene a cessare dacchè l’Essenza assoluta come Spirito è oggetto della coscienza; infatti così esso è come Sé nella sua relazione con lei: cioè essa sa sé immediatamente in questo atto, ossia si è svelata nell’oggetto.

 

La coscienza stessa è svelata a sé soltanto nella propria certezza di sé; quel suo oggetto è il Sé; ma il Sé non è un elemento estraneo, sibbene l’inseparabile unità con sé, l’immediatamente universale. È il concetto puro, il puro pensare o esser-per-sé, l’essere immediato e quindi essere per altro e come questo essere per altro immediatamente ritornato in sé e presso se stesso; è dunque ciò che veramente e solamente è manifesto. …

 

L’esser svelato secondo il suo concetto è dunque la vera figura dello Spirito e questa sua figura, il concetto, è altrettanto ed esclusivamente l’essenza e sostanza sua. Lo Spirito vien saputo come autocoscienza ed è a lei immediatamente svelato, perché è lei stessa; la natura divina è la stessa che l’umana; e questa unità è ciò che viene intuìto. …

 

Quella che vien chiamata coscienza sensibile è proprio la pura astrazione[5], è il pensare, per il quale l’Essere è immediato. L’infimo è dunque nello stesso tempo il supremo; il disvelato che è venuto interamente alla superficie, è proprio allora il più profondo. Che l’Essenza suprema venga veduta, udita, ecc., come un’autocoscienza nell’elemento dell’essere, ecco nel fatto la perfezione del suo concetto; e in virtù di questa perfezione l’Essenza tanto è immediatamente là, quanto è Essenza.

 

In pari tempo questo esserci immediato non è già sola e mera coscienza immediata, ma è coscienza religiosa: l’immediatezza ha inseparabilmente il valore non soltanto di autocoscienza nell’elemento dell’essere, ma di Essenza puramente pensata e assoluta. Di ciò di cui siamo coscienti nel nostro concetto, che l’Essere è Essenza, di ciò stesso è consapevole la coscienza religiosa»[6].

Fine Terza Parte (3/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 18 luglio 2023


Il deismo, che è la posizione assunta da Kant, costituisce un indebolimento del teismo. L’immagine di Dio, passando dal teismo al deismo si sbiadisce. La visione si appanna e si annebbia. Il distinto diventa confuso. Gli attributi diminuiscono. Il mistero perde la sua misteriosità e si rimpicciolisce nelle dimensioni della nostra ragione.

Nel teismo Dio è una persona spirituale infinita e trascendente, un Tu col quale il credente parla e Che parla al credente, rivelandogli per mezzo di Cristo i misteri soprannaturali della sua intima essenza, formulati nei dogmi insegnati dal Magistero della Chiesa. Nel deismo Dio è ente supremo nel senso di una suprema idea come principio primo unificante ed originante tutto il sistema delle conoscenze e delle scienze razionali speculative e pratiche, naturali ed umane.

Possiamo dire che il Dio di Cartesio è ancora il Dio che si rivela nella dogmatica cattolica, che Cartesio come cattolico indubbiamente accettò.

Tuttavia il cogito, così come sarà esplicitato nei secoli seguenti, contiene di fatto, come lo dimostreranno gli stessi filosofi idealisti che si sono basati su di esso, pretese esorbitanti, che vanno ben al di là dei limiti consentiti dell’io umano e lo mutano in divino, come se io potessi dire del mio io “Io Sono” allo stesso modo in cui lo dice Gesù Cristo.

Il modo serio di porsi il problema dell’esistenza di Dio non è semplicemente quello se abbiamo o non abbiamo un’idea innata di Dio ed eventualmente, come fece Sant’Anselmo, affermare che Dio esiste perché abbiamo l’idea dell’id quo nihil maius cogitari potest.

Il problema è se esiste un Dio creatore. La massima potenza della ragione, il suo bisogno più profondo, la sua esigenza più radicale si manifestano quando la ragione affronta il problema della creazione. Perchè le cose esistono piuttosto che non esistere, dato che potrebbero non esistere? Chi le fa esistere? Come dev’essere il creatore della loro esistenza? Questo è il problema di Dio posto nei termini giusti, in maniera veramente seria e non come se si trattasse di un problema di idee. È un problema di realtà, non di idee.

Immagine da Internet: Statua di Anselmo d'Aosta, Cattedrale di Canterbury



[1]

[2] Critica della ragion pura, Edizioni Laterza, Bari 1965, pp.503-504.

[3] Questo significato improprio del concetto di religione purtroppo si è insinuato anche tra i cattolici. Ne è venuto fuori un trattato ibrido dove l’autentico religioso si mescola con la teologia naturale e con la morale. Vedi, per esempio le seguenti opere, del resto assai pregevoli per la validità dei contenuti: Albert Lang, Introduzione alla filosofia della religione, Morcelliana, Brescia 1972 e Fulton Sheen, La filosofia della religione, Edizioni Richter&C., Napoli 1955. Già dal titolo si vede la confusione tra filosofia e religione. La religione, come spiega bene San Tommaso (Sum. Theol., II-II. qq.81-100), è una virtù morale appartenente all’ambito della giustizia.

[4] Ogni volta che qui Hegel parla di «Essenza» intende l’Essenza divina.

[5] Qui Hegel si riferisce al mistero dell’Incarnazione, per il quale ciò c’e è più astratto, ossia l’essenza divina si unisce a ciò che c’è di più concreto, ossia l’umanità di Cristo, il massimo al minimo.

[6] Fenomenologia dello Spirito, Nuova Italia 1988, vol. II, pp.261-263.

Nessun commento:

Posta un commento

I commenti che mancano del dovuto rispetto verso la Chiesa e le persone, saranno rimossi.