Da Hegel a Marx - Il passaggio storico dal panteismo all’ateismo attraverso Feuerbach - Seconda Parte (2/5)

  Da Hegel a Marx

Il passaggio storico dal panteismo all’ateismo

attraverso Feuerbach

Seconda Parte (2/5)

L’ateismo marxista

L’ateismo marxista nasce da una maniera falsa di concepire la miseria e la schiavitù dell’uomo, una malintesa compassione per l’uomo oppresso e avvilito dalla classe dominante, un modo di pensare che conduce ad operare in una maniera ingiusta e controproducente per la elevazione e per la liberazione dell’uomo. 

Per Marx concepire un uomo soggetto a un Dio vuol dire umiliare l’uomo e non riconoscergli la sua dignità. Vuol dire approvare la schiavitù e impedire la libertà dell’uomo. La religione per lui è il modo col quale i padroni sfruttano e tengono sottomessi i lavoratori illudendoli con vane speranze ultraterrene. Dunque l’ateismo è la via della liberazione dell’uomo.

La religione secondo lui proibisce di ribellarsi all’ingiustizia patita con la falsa promessa di un compenso celeste. Ma per Marx non esiste nessun al di là; o la felicità è su questa terra o non esiste felicità per l’uomo. I comunisti di oggi devono accontentarsi di preparare con le loro lotte operaie la società comunista di domani. Questo è il discorso di Marx. 

Marx infatti suppone l’uomo come fosse Dio, ossia come «essere supremo», tema ateistico già feuerbachiano, ma radicato implicitamente in Hegel, il quale ammette bensì Dio, ma come vertice e pienezza dell’uomo. L’uomo allora costruisce la propria felicità con le proprie forze in una prospettiva puramente terrena. Tuttavia, come è risaputo, anche laddove i comunisti arrivano al governo dello Stato non proclamano mai che il comunismo è realizzato, ben consci del permanere delle miserie umane, ma parlano solo di «socialismo», che è un comunismo iniziato ma non compiuto.

Ciò ha portato alcuni marxisti a precisare che il comunismo non va concepito come un obbiettivo storico concreto, un ideale praticabile, ma  solo come utopia, un ideale al quale ci si può avvicinare solo asintoticamente, perchè la realtà è dialettica, per cui di fatto il conflitto fra uomo e uomo è ineliminabile.  Se la dialettica dovesse venir meno, il reale scomparirebbe. La descrizione che fa Marx della futura società comunista libera, felice e pacifica, simile a quanto il profeta Isaia dice dell’era escatologica, è solo un mito indicativo, simile all’ideale kantiano della ragione.

La soggezione allo sfruttamento economico da parte dei potenti, condurrebbe, secondo Marx, come è noto, il popolo oppresso, dietro suggestione dei preti,  a cercare un conforto e una speranza in un al di là e in un Consolatore divino onnipotente e misericordioso, frutto in realtà dell’immaginazione, dotato di quelle qualità e quei poteri dei quali il popolo si è alienato per trasferirli in quella realtà trascendente immaginaria, mentre compito del popolo è quello di ricorrere a queste sue energie per rovesciare il potere dominante ed ottenere la liberazione.

Per dire la verità, ciò che c’è di immaginario, visionario o campato per aria che dir si voglia, non è il Dio del teista, ancora presente in Hegel benché immanentizzato e storicizzato, ma è la stessa concezione dell’uomo, che Marx prende da Feuerbach, come ente la cui essenza coincide con la sua esistenza – qualità che per la verità appartiene solo a Dio -, secondo lo schema dialettico hegeliano dell’alienazione-perdita dell’essenza, negazione della negazione dell’essenza nella condizione di miseria e derelizione, recupero o ritorno dell’essenza all’esistenza e quindi autoliberazione dell’uomo.

L’errore è quello di immaginare un ente assoluto e divino – l’uomo – che perde se stesso, si aliena da se stesso, resta se stesso nello stato di perdizione o deiezione, nega la negazione di sé a se stesso nel suo opposto («lotta di classe»), ritorna a sé («comunismo») dalla propria negazione o alienazione («rivoluzione»).

L’errore è quello d’immaginare che l’uomo alienato e oppresso, anziché ottenere libertà e dignità da Dio giusto e misericordioso, si faccia giustizia da sé e si liberi da sé dalle catene della schiavitù e dell’oppressione. In particolare, come fa una classe operaia, povera e sfruttata, priva di cultura economica, a rovesciare con una semplice rivoluzione un regime capeggiato da uomini abili nell’organizzazione dell’economia e dell’industria, in possesso di un potere politico schiacciante, e ad instaurare di colpo una dittatura che castighi ed espropri i ricchi, sostituendosi nel governo dell’economia nazionale a gente preparata, capace e sagace? Che cosa potrà combinare?

La Rivoluzione russa del 1917, col distruggere la classe nobiliare e borghese del tempo e mettendo a capo dello Stato uomini visionari, inesperti di economia e pubblica amministrazione impreparati ed esaltati, che cosa ha ottenuto?

Marx non conosce la virtù della pazienza nell’oppresso, virtù che scambia per debolezza e l’arte di persuadere l’avversario a desistere dalla violenza, arte che Marx considera perfettamente inutile, convinto che la violenza patita si tolga solo con una violenza attiva e contraria. L’oppressore non può essere persuaso, ma solo costretto o eliminato.

Inoltre Marx non si è reso conto del beneficio che arreca alla società ed alla stessa classe operaia un’iniziativa economica o industriale privata aperta al sociale. Non ha capito che il ricco non è necessariamente un egoista, ma può essere anche generoso ed altruista. Non ha capito che occorre sapersi accattivare la benevolenza dei ricchi meritandone la fiducia. Egli pretende di trattare di rapporti sociali senza qualunque tatto, elasticità, senso delle circostanze e discernimento. Dimentica che la volontà degli uomini varia da persona e persona e può mutare nel tempo in bene o in male un ciascuno di noi.

Se si affrontano tutti i membri di una data classe sociale indiscriminatamente con durezza inesorabile come si affronterebbe un esercito nemico all’attacco o una nuvola di cavallette o un uragano in arrivo, è logico che essi reagiscano con irritazione e violenza, mentre un approccio ad essi calcolato e rispettoso, anche se franco e severo, può ottenere molto, come dimostrano nella storia della Chiesa tutti i Santi che si sono dedicati ad opere sociali. La coercizione deve valere in casi estremi, non come metodo sistematico di comportamento.

Ma Marx non si rende conto neppure dell’assurdità di credere che l’uomo alienato, misero, debole ed oppresso possa da sé vincere chi lo opprime e liberare se stesso senza un soccorso divino che gli dia la forza di compiere simile opera di autoliberazione. Solo un Dio potrebbe liberarsi da sé. Ma questo è proprio il punto, che Marx concepisce l’uomo come fosse Dio, prendendo da Hegel.

Quanto ad Hegel, esiste infatti già in lui l’identificazione dell’uomo con Dio, ma bisogna ammettere la correttezza del concetto hegeliano di Dio come Spirito e Sapere assoluto. Per questo e in tal senso si deve dire che l’hegelismo è ancora un teismo, ma è un teismo connesso essenzialmente con l’essere umano, è un Dio fatto Storia. Da qui Feuerbach attinge per dire che il Dio di Hegel non è altro che l’alienazione delle proprietà dell’uomo. E Marx aggiungerà: è il Dio che la classe dominante vuol dar da intendere alla classe lavoratrice per tenerla buona e sottomessa promettendole il premio celeste.

L’idealismo hegeliano comporta dunque la divinizzazione dell’io; il materialismo marxista, la divinizzazione della società. Per Hegel il bene comune è il bene dell’Io divino. Marx, nel suo realismo, ha la percezione del bene comune, ma nega la trascendenza della persona sul bene comune. Per Hegel il sociale si risolve nell’Io assoluto; per Marx l’io umano si risolve nel sociale. Ma in entrambi alla fine il sociale s’identifica col soggetto assoluto, che per Hegel è l’autocoscienza cartesiana e per Marx è l’autocoscienza dell’uomo.

In Hegel gli altri sono funzionali al Me assoluto e dipendono da Me; Io decido anche per gli altri; essi non sono fuori di Me, ma semplici contenuti della mia coscienza. In Marx l’individuo si risolve nel rapporto sociale. La coscienza dell’individuo è la coscienza di classe. L’individuo che non si regola su questa coscienza cade nell’individualismo e reca danno a se stesso ed alla classe[1]. Non solo l’individuo deve servire il bene comune, ma ciò che egli ha di proprio (proprietà privata) nuoce al bene comune e va soppresso. La proprietà dei mezzi di produzione non può essere del singolo, ma solo della collettività o dello Stato.

L’individuo non solo non può vivere senza il rapporto sociale, ma non esiste se non come prodotto della società. Per Hegel l’io gode di libertà assoluta e divina. Per Marx la scelta personale dell’individuo è individualismo, che isola l’individuo e fa sì che egli sia di danno alla comunità.

Non è il rapporto sociale ad essere una proprietà dell’individuo, ma è l’individuo ad essere una proprietà accidentale e passeggera della comunità. L’individuo non è una sostanza e il sociale è un accidente, ma al contrario, la sostanza è la comunità; gli individui sono accidenti. Per questo, mentre in Hegel la persona umana è divinizzata, in Marx la persona come singola sostanza è negata. Marx non prende in considerazione il bene della persona come tale; e questo è comprensibile, giacchè il bene della persona è Dio e Marx nega l’esistenza di Dio.

Hegel ammette che Dio è il bene della persona, ma solo perché divinizza la persona. Per Marx, come già per Feuerbach, solo la comunità è immortale; gli individui sopravvivono solo nel ricordo e la loro felicità sta nel preparare la futura società comunista. 

Per Hegel l’Assoluto è l’Universale che s’identifica col concreto. È lo Spirito che si fa Storia. Questo vale anche per Marx, solo che Marx sostituisce l’Uomo inteso come Gattungswesen, l’Umanità, il genere umano allo Spirito Assoluto hegeliano, che riecheggia ancora il Dio cristiano. Si sa quanta diffidenza nutra Marx per la persona singola, che per lui è egoista per essenza. Da qui viene la sua condanna della proprietà privata, che egli confonde col semplice possesso privato di fatto dei beni, senza tener conto che mentre tale possesso può essere ingiusto, ossia mentre io posso trattenere per me beni che non mi spettano, la proprietà privata è un diritto, che possiede anche chi al momento non può goderne, ossia è privo del legittimo possesso dei beni che gli spettano, perché eventualmente frutto del suo lavoro.

Inoltre Marx, che pur voleva fare professione di realismo e di concretezza, sembra non capire che, come dicono gli Scolastici, actiones sunt suppositorum, ossia è la singola persona concreta che agisce e non una classe o addirittura l’umanità in astratto, quasi fosse un’idea platonica. Ci può essere, certo un’azione comune, un’azione o gestione o proprietà collettiva; ma questo vuol dire solo che i molti singoli assieme, uno per uno, ciascuno con la propria responsabilità personale, compiono la stessa azione.

Solo il singolo, come nota San Tommaso[2], può esercitare concretamente la potestas procurandi et dispensandi, che è precisamente ciò che legittima la proprietà privata nella sua essenziale funzione sociale e di legittima soddisfazione dei bisogni e degli interessi personali. Il possedere privatamente è solo la condizione che rende possibile, legittimo e doveroso amministrare per il proprio e l’altrui bene i beni dei quali si dispone e che vengono gestiti o amministrati.

Ipostatizzare un ente collettivo come la classe sociale o l’intera umanità come fosse un soggetto concreto agente vuol dire dar corpo ad un’essenza astratta, seppur con fondamento reale nei singoli componenti dell’insieme. Succede allora che Marx, per trovare efficacia reale a questo agire astratto, escogita l’escamotage di attribuirlo al gruppo dirigente del partito o allo Stato socialista, i quali diventano così l’apparizione fenomenica del Gattungswesen, dell’Universale concreto, unico rappresentante del popolo e della classe lavoratrice.

Marx non nega, però, con Feuerbach, il valore dell’amore e del rapporto interpersonale; egli stesso ebbe forti amicizie, per esempio con Engels, e mise su famiglia; esige però che l’amore abbia solo lo scopo di operare per il bene comune o del partito comunista. I figli non appartengono ai genitori, ma alla comunità o allo Stato. Anche l’amore fra uomo e donna deve avere una essenziale finalità politica di rafforzamento del partito comunista.

Il panteismo hegeliano, benché sia agli antipodi dell’ateismo, ha già in sé i germi dell’ateismo, come dimostra la vicenda agitata che da Hegel attraverso Feuerbach approda a Marx. Infatti il panteismo non è altro che quella metafisica la cui gnoseologia è l’idealismo, il cui principio è che il pensiero s’identifica con l’essere. Qui Dio solo esiste, identità di pensiero ed essere, identico al mondo.

Dal che noi comprendiamo che nel panteismo il mondo come ente non può essere distinto e fuori di quel Dio che lo pensa, ma, dato che l’essere è l’essere pensato, per forza il mondo dovrà identificarsi con Dio in quanto pensiero di Dio e pensato da Dio. Ma allora il mondo è Dio. E il gioco è fatto. Ma se il mondo è Dio, che bisogno c’è di porre una causa esterna del mondo? Dunque Dio non esiste.

L’ateismo conduce al nichilismo

Altro principio di ateismo è il concetto di «causa di se stesso» (causa sui), che troviamo in Cartesio e Spinoza. Ma già San Tommaso nota che è un’assurdità, perché qui l’effetto dovrebbe essere prima di se stesso come causa, se è vero che la causa precede l’effetto, e dopo di se stesso come effetto, se è vero che l’effetto deve seguire alla causa.

Ma che cosa si propone l’ateo con tale principio truffaldino? Vorrebbe dar mostra di ragionare senza saper ragionare, vorrebbe salvare capra e cavoli: da una parte sostenere che il mondo non è causato da Dio, ma è causa di se stesso. Ma dall’altra vorrebbe sempre riconoscere il rapporto causa-effetto. Senonchè il risultato di questa nefanda operazione non è altro che la divinizzazione del mondo per escludere Dio mediante quest’orripilante compromesso.

Diverso invece, benché sembri assomigliargli, è il principio dell’autocoscienza scoperto da Platone.  Esso caratterizza l’attività propria dello spirito a differenza di quella materiale. Esso comporta il ritorno totale dello spirito su se stesso, così che la fine del moto coincide in qualche modo con l’inizio. Qui il sapere e il volere possono influire su se stessi: so di sapere e voglio volere. Ma è chiaro che qui il principio di causalità è salvo, perchè il sussistere dello spirito è presupposto ai suoi atti, che ne sono l’effetto.

Consideriamo inoltre che l’ateismo è favorito da quella ristrettezza di mente, quella mente «carnale», direbbe San Paolo, che non riesce ad astrarre l’universale dal concreto, non riesce ad elevarsi ad una conoscenza metafisica, che oltrepassa il sapere fisico, ossia l’orizzonte delle realtà materiali, non riesce a staccarsi dall’affetto per le cose terrene. Ora, Dio è purissimo spirito, del tutto esente da materialità. Da qui la negazione dell’esistenza di Dio o al massimo, come avviene nell’idolatria, un Dio materiale, sensibile, immaginabile, finito, corporeo, temporale, passivo, passibile, passionale e mutevole.

Inoltre l’ateo soffoca in sé i più nobili sentimenti dell’animo: l’aspirazione a superare il limite e all’immortalità, il bisogno di grandezza morale, il desiderio dell’infinito, dell’eterno, dell’assoluto, tutti valori altissimi che Dio ha posto nel cuore dell’uomo. Invece purtroppo l’ateo, anziché tendere all’ideale in tutta la sua elevatezza fidando nel soccorso della grazia divina, abbassa l’ideale per poterlo raggiungere con le proprie misere forze. Invece di elevare lo sguardo al cielo per spiccare il volo come l’aquila, starnazza nel pollaio come le galline.

Egli non sa resistere alle passioni ed alle attrattive di questo mondo e, non curandosi di smascherare gli inganni del demonio, ne resta misera vittima, per cui le sue aspirazioni si esauriscono nella banalità della quotidianità, nei discorsi e negli affari terra terra del mondo presente, negli effimeri piaceri della vita mortale o al massimo in ciò che può essere conseguìto dalle semplici forze umane della natura decaduta.

Una forma estrema e spaventosa di ateismo è il nichilismo[3], il disgusto per l’esistenza, che considera indifferente l’esistere o il non esistere, che Dio esista o che non esista, il vivere o il morire, il bene o il male, a causa di un’identificazione dell’essere col nulla. Padre Tomas Tyn nota acutamente che l’hegelismo, al di là di tutto il suo panlogismo ed ottimismo gonfiato, può avere un esito nichilista. Il nichilismo leopardiano, per il quale l’essere proviene dal nulla e torna al nulla[4], può essere ricavato dal panteismo hegeliano.

Sbaglia invece Severino nell’accusare il cristianesimo di nichilismo per il fatto di ammettere la creazione dal nulla e il divenire[5]. Un conto è che il nulla da sé produca l’essere. Ciò semmai si può assimilare alla tesi hegeliana del negativo che produce il positivo. E un conto è che l’essere assoluto, Dio, sia il creatore dell’essere dell’ente contingente. Là abbiamo la violazione del principio di causalità, che vuole che l’essere ponga l’essere; qui abbiamo l’affermazione incondizionata dell’essere come essere divino. Quanto al divenire, esso non comporta nessun nichilismo, purché inteso non hegelianamente come contraddizione di essere e non-essere, ma aristotelicamente come passaggio dalla potenza all’atto.

Le conseguenze morali dell’ateismo sono preoccupanti e devastanti. Per fortuna molti atei non le mettono in pratica, altrimenti diventerebbero fautori della propria distruzione e di dissoluzione del civile convivere. Dice bene Don Divo Barsotti quando fa osservare che essendo Dio il creatore della vita, l’ateo, se fosse coerente, si dovrebbe uccidere. Se infatti Dio è il principio della vita umana personale e sociale, come la negazione di Dio di per sé non dovrebbe comportare la negazione dell’una e dall’altra?

Kant davanti alla questione dell’esistenza di Dio

A questo punto Kant ci direbbe che se è vero che la ragion pura non può dimostrare l’esistenza di Dio, la ragion pratica è tuttavia la promulgatrice della legge morale. D’accordo; ma come a sua volta la mia ragione non sarà tenuta ad obbedire alla legge che m’impone Colui Che l’ha creata?  E come potrei obbedire a una legge se non riconosco l’esistenza del legislatore? Come posso obbedire alla volontà di uno che non esiste? I casi allora sono due: o io obbedisco alla legge morale e allora vuol dire che riconosco l’esistenza di Dio; o io non riconosco l’esistenza di Dio e allora sono esente da quella legge morale che Dio m’impone con l’avermi creato.

È vero che Kant ammette l’esistenza di Dio come «postulato» della ragion pratica affinchè essa possa funzionare. Ma ciò non basta ad una ragionevole ammissione dell’esistenza di Dio, perché ammettere Dio non è ciò che occorre alla ragione affinchè essa funzioni, ma è ciò che le occorre affinchè essa possa esistere. Il primum nel reale non è la ragione, la quale escogiterebbe l’idea di Dio a servizio del suo benessere, ma al contrario il primum è Dio, il quale progetta la ragione affinchè essa sia al servizio di Dio.

Ad ogni modo bisogna dar atto a Kant di ammettere la legittimità razionale della religione con la sua famosa opera La religione entro i limiti della sola ragione[6]. Il difetto di quest’opera è dato dal concetto di Dio che essa sottende: non è un Dio personale, che stia davanti e al di sopra dell’uomo come suo creatore e Signore, un Dio che interloquisce con l’uomo e voglia rivelargli i segreti della sua essenza, un Dio al quale l’uomo si possa rivolgere nel culto e nella preghiera per ottenere perdono e salvezza, ma è l’idea suprema della ragione, che le consente di attuare l’unità o unificazione suprema delle sue conoscenze.

Quindi la religione che cosa viene ad essere per Kant? La simbologia pratica, mitologica, immaginaria e raffigurativa in forma antropomorfica del rapporto della ragione morale empirica con se stessa, come ragione trascendentale.  La religione è un puro prodotto della ragion pratica. Ipotizzare quindi, pertanto, una religione fondata su di una rivelazione divina, è uscire dai limiti della ragione ed entrare nell’irrazionale, del fanatismo e nella superstizione.  Secondo Kant, la pretesa di superare i limiti della ragione è con ciò stesso andare contro la ragione.

L’ateo sbaglia nel determinare l’essenza dell’Assoluto

Noi non possiamo fare a meno di qualcosa di assoluto da adorare, ossia nel quale mettere in gioco la nostra vita, sul quale puntare e poggiare assolutamente, qualcosa che spieghi tutto, come fondamento dell’uomo e dell’universo, qualcosa da volere assolutamente, qualcosa o meglio Qualcuno a cui aprirci totalmente, in cui confidare assolutamente, Qualcuno, un Tu davanti a cui metterci a totale disposizione, in totale obbedienza, a cui dedicare la nostra vita, Qualcuno sul quale contare assolutamente, che appaghi la nostra sete di verità e di infinito, Qualcuno dal quale attendiamo salvezza e liberazione, Qualcuno che sia il nostro sommo bene, lo scopo della nostra esistenza, che pensiamo ci renda assolutamente liberi, eccellenti, felici e perfetti.

D’altra parte, la ragione, che nel porre le cause retrocede all’infinito senza mai fermarsi, è come se precipitasse in un baratro, è presa da vertigine e da una continua insicurezza ed inquietudine, non trova mai pace. Non è il cor inquietum di agostiniana memoria, perché esso ha la speranza dell’eterno riposo. Invece la ragione dell’ateo può forse illudersi di realizzare un continuo progresso; ma il vero progresso si ha quando la ragione si fonda su di una base sicura ed incrollabile. Solo così costruisce; altrimenti distrugge con una mano quello che fa l’altra.

Infatti nella retrocessione all’infinito il pensiero che non arriva mai ad una conclusione certa e definitiva, se non è preso da un gusto morboso, prova un senso di vuoto e di insopportabile frustrazione. Per questo Aristotele diceva: ananke stenai, bisogna fermarsi. Ed egli saggiamente si fermò sul famoso Motore immobile, che poi è Dio.

L’ateo si ferma, ma si ferma sulla sabbia. Si accorge che il suolo cede. Ma prova gusto a restare sulla sabbia. E allora si sposta su di un altro suolo ma sempre sabbioso. Della roccia non vuol sapere. Ma ecco allora che il guaio ricomincia. L’ateo non impara mai la lezione.  Così egli si aggrappa di volta in volta ad un idolo diverso, all’idolo del giorno. L’idolo lo delude, ma invece di abbracciare Dio, si aggrappa ad un altro idolo e così via.

La sana ragione ha bisogno di acquietarsi in una causa che sia solo o totalmente causa, quella che si chiama causa prima o assoluta o sufficiente, sufficiente a saziare il suo bisogno di infinito. Ora, le scienze sperimentali ci danno solo delle cause causate. Per questo, per retrocedere alla causa prima occorre elevarsi al sapere metafisico, che concepisce l’ente astraendo dalla materia, principio di finitezza, per cui, potendo conoscere l’ente nella sua universalità analogica, può formare il concetto di ente supremo o causa prima.

Forse l’ateo potrebbe obiettare: ma la ragione non conosce mai quiete; essa è sempre in movimento. D’accordo, ma c’è moto e moto: un conto è il moto dello sportivo e un conto è l’agitazione del malato. È chiaro che la ragione dev’essere in continuo progresso od avanzamento nel sapere. Il teismo non ha nulla a che vedere con l’immobilismo e il conservatorismo. Si tratta solo di porre le fondamenta dell’edificio. Poste queste, è chiaro che potremo costruire con sicurezza l’edificio il più alto possibile.

L’ateo invece si ferma nel finito e rimane bloccato lì. È sedotto dal finito. Non solleva lo sguardo. È costretto allora ad infinitizzare il finito; ad assolutizzare il relativo; ad eternizzare il mutevole; a mettere in alto ciò che è basso; ad umiliare ciò che è alto; è costretto a trasformare in causa prima la causa seconda. Il che è come dire che l’ateismo non è che è una forma di idolatria, per la quale l’ateo adora la creatura al posto del creatore.

Per illustrare l’idolatria, la Bibbia parla del pescatore che adora il proprio giacchio (Ab 1,15) perché gli procura abbondanza di pesce. È la disgrazia che è capitata a Feuerbach, il quale attribuisce la divinità ai mezzi materiali di sussistenza proprio come fa l’idolatra della Bibbia. E lo stesso farà Marx. La potenza del denaro non affascina solo il capitalista, ma anche il marxista. Resta comunque che la forma peggiore di idolatria è quella per la quale l’uomo è l’adoratore di se stesso. Il pescatore adora il giacchio perché, invece di adorare chi ha creato e lui e il giacchio, adora se stesso.

Fine Seconda Parte (2/5)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 20 dicembre 2021

 

Una forma estrema e spaventosa di ateismo è il nichilismo, il disgusto per l’esistenza, che considera indifferente l’esistere o il non esistere, che Dio esista o che non esista, il vivere o il morire, il bene o il male, a causa di un’identificazione dell’essere col nulla.

Padre Tomas Tyn nota acutamente che l’hegelismo può avere un esito nichilista.

Il nichilismo leopardiano, per il quale l’essere proviene dal nulla e torna al nulla, può essere ricavato dal panteismo hegeliano.

La ragione, che nel porre le cause retrocede all’infinito senza mai fermarsi, è come se precipitasse in un baratro, non trova mai pace.

Infatti nella retrocessione all’infinito il pensiero che non arriva mai ad una conclusione certa e definitiva, se non è preso da un gusto morboso, prova un senso di vuoto e di insopportabile frustrazione. Per questo Aristotele diceva: ananke stenai, bisogna fermarsi. Ed egli saggiamente si fermò sul famoso Motore immobile, che poi è Dio.

La sana ragione ha bisogno di acquietarsi in una causa che sia solo o totalmente causa, quella che si chiama causa prima o assoluta o sufficiente, sufficiente a saziare il suo bisogno di infinito. Ora, le scienze sperimentali ci danno solo delle cause causate. Per questo, per retrocedere alla causa prima occorre elevarsi al sapere metafisico, che concepisce l’ente astraendo dalla materia, principio di finitezza, per cui, potendo conoscere l’ente nella sua universalità analogica, può formare il concetto di ente supremo o causa prima.

Immagini da internet: P. Tomas Tyn, Leopardi, Aristotele


[1] Al limite dev’essere eliminato. Questo è il motivo delle purghe staliniane.

[2] Vedi il commento del Maritain: Persona e proprietà, in Strutture politiche e libertà, Morcelliana, Brescia 1968, pp.145-161.

[3] Cf. Vittorio Possenti, Il nichilismo teoretico e la "morte della metafisica", Armando, Roma 1995; Terza navigazione. Nichilismo e metafisica, Armando, Roma 1998. Nuova ed. ampliata, Armando 2004.

[4] Emanuele Severino, Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 1998; nuova edizione, 2006.

[5]  Emanuele Severino, Cosa arcana e stupenda. L'Occidente e Leopardi, Milano, Rizzoli, 1998; nuova edizione, 2006.

[6] Editori Laterza, Bari 1985. Le Costituzioni massoniche londinesi di Anderson del 1723 ammettono l’esistenza di Dio come Grande Architetto dell’Universo e la religione naturale secondo la concezione di Kant, come sostiene il massone Giuliano Di Bernardo in Filosofia della massoneria, Marsilio, Venezia 1992.

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