La pace come effetto della vittoria sul nemico - Prima Parte (1/3)

 La pace come effetto della vittoria sul nemico

Prima Parte (1/3)

Il timore del Signore fa fiorire la pace

Sir 1,16

Che cosa è la pace

Esiste una convinzione diffusa negli ambienti pacifisti che il trattare di pace, il discutere di come ottenere, praticare e conservare la pace deve lasciar fuori dai nostri discorsi il discutere sulla guerra, dopo che ne abbiamo pronunciata una generica condanna senza appello, come se nulla la guerra avesse a che fare con la pace se non per escluderla assolutamente, così come nel far le lodi della vita supponiamo il rifiuto della morte o trattando di un cibo sano escludiamo il pensiero di un cibo avariato.

Ora, senza negare che la pace sia il contrario della guerra e che tutti sentono la pace come amabile e la guerra come odiosa, se riflettiamo seriamente come vorrei proporre brevemente al Lettore di questo articolo sulla vera natura della pace e sulla vera natura della guerra, ci accorgeremo che esse non sono del tutto prive di rapporti, come a tutta prima può sembrare e che capire quali sono i loro rapporti viene a tutto vantaggio dell’acquisto della vera pace e serve ad evitare la guerra.

L’idea oggi diffusa che basterebbe un atto di buona volontà per porre fine per sempre a tutte le guerre, seduce certamente, ma è un pensiero illusorio perché basato su di una concezione utopistica ed irreale della vita presente, che non tiene conto delle conseguenze del peccato originale e delle misure che siamo obbligati a prendere per difenderci da queste conseguenze o limitarle al massimo.

È la visione di persone che credono che l’umanità sia ancora nell’eden o sia già in paradiso oppure di non credenti, i quali sognano una natura umana ideale che non esiste, cancellano dai loro occhi la dura realtà e con i loro discorsi per aria finiscono per non saper fare ciò che veramente procura la pace. 

Non sbagliavano gli antichi Romani ad avvertirci: si vis pacem, para bellum. Il concetto che vorrei svolgere in questo articolo è su questa linea, ma perfezionato dalla sapienza biblica, la quale ci dice chiarissimamente che la pace non è un qualcosa di ottenibile con un semplice atto di buona volontà mediante un dialogo tranquillo e benevolo. Questo ci vuole, ma non basta: la pace è uno stato di felicità raggiungibile dopo aver vinto i nemici della pace. Questa è infatti il risultato di un complesso lavoro dello spirito e di una saggia disciplina interiore, la quale organizza le potenze vitali del soggetto, così da dare la guida della persona alla vita ed ai valori dello spirito, così che esso sappia dominare le passioni e non consenta loro di prevalere sullo spirito.

Forte infatti in tutti noi è l’attrattiva dei beni e dei piaceri sensibili, i quali ci danno l’illusione di costituire la nostra felicità, e ci fanno dimenticare che essa invece sta nell’esercizio della virtù e nella fruizione dei beni dello spirito, sommo fra tutti la comunione con Dio e l’amore del prossimo.

La concupiscenza ci spinge a sopravvalutare i piaceri fisici e a sottovalutare le gioie dello spirito. Da qui il disprezzo per i valori intellettuali, morali e religiosi e l’apologia e l’attaccamento al passionale, all’emotivo, al passeggero, all’effimero, al caduco, ai beni precari che fuggono, con la conseguenza di false soddisfazioni ed una continua insoddisfazione di fondo che ci rende amari, egoisti, irascibili, invidiosi e quindi ci rende continuo principio di conflitti, divisioni, aggressioni e guerre.

Si tratta di una grande stoltezza, quando invece i beni dello spirito - onestà. mitezza, moderazione, carità, solidarietà, compassione, generosità, pietà, devozione -, che sono quelli che ci danno la vera felicità, sono sempre a nostra disposizione solo che lo vogliamo, dando il loro vero sapore ai piaceri del corpo e procurandoci una pace che nessuno può toglierci, mentre non è in nostro potere trattenere i piaceri dei sensi, delle emozioni, della fortuna, della salute fisica e del successo umano. Chi dà a questi piaceri il primato è un impostore se vuol presentarli agli altri come validi, è un illuso e un infelice se vuol goderli per sè, non trova mai la pace, è in guerra con se stesso e la provoca nella società.

Anche la superbia è una tentazione sottile e pericolosissima, che ci fa credere di esser noi principio a noi stessi e della stessa realtà, respingendo quindi Dio come nostro creatore e facendoci credere di esser noi e non Dio i dominatori della natura e dell’umanità. La superbia sconvolge il nostro ordine interiore, ci getta in una radicale inquietudine e ci spinge ad una crudele aggressività e volontà di potenza perturbatrice della pace sociale e fomentatrice dell’odio e della guerra.

San Tommaso nel suo commento al trattato sui Nomi divini di Dionigi l’Areopagita enuncia alcune elevate considerazioni sull’essenza della pace, che qui mi è grato riportare:

 

«Ogni cosa appetisce la sua perfezione, che riceve in partecipazione da Dio e quando l’ha acquistata, il suo appetito si acquieta, nella quale quiete consiste anche la ragione di pace»[1].

 

«Si dice che alcuni uomini sono in pace quando la loro volontà concorda in una sola cosa»[2].

 

«La pace divina è unitiva di tutte le cose, in quanto fa sì che tutte le cose comunichino in uno; ancora è generativa quanto alla sua prima istituzione; ed operativa, quanto al governo, al consenso e alla connaturalità di tutte le cose; così che il consenso si riferisce alla concordia delle volontà; la connaturalità alla concordia di più appetiti»[3].

 

«La pace divina è la causa finale di tutte le cose. Ora è naturale per ogni cosa desiderare l’unità, così come l’essere e il bene, poiché a causa della divisione la cosa vien meno e si corrompe e la sua bontà diminuisce. E poiché la pace divina causa l’unità nelle cose, per questo tutte le cose a loro modo desiderano la pace divina, in quanto essa unisce tutte le cose; essa converte a tutta l’unità la loro divisibile moltitudine, in quanto le cose che sono in se stesse divise vengono adunate in uno»[4].

 

«Le cose che naturalmente sono in contrasto fra di loro, a causa della contrarietà che hanno nella loro natura, concordano nell’ordine dell’universo, secondo il quale in qualche modo si uniscono e coabitano nel mondo: e ciò avviene per partecipazione della pace divina, la quale, in quanto è desiderata da tutte le cose, ha ragione di fine»[5].

 

«La prima causa della pace interviene semplicemente in tutte le cose, benché siano diverse le cose nelle quali essa opera; tuttavia da parte dell’operante non c’è diversità né nell’operazione né nel modo di operare»[6].

 

«L’unità della pace consiste nella tranquillità dell’ordine, per la quale tranquillità sono necessarie tre cose: la prima, che le cose siano distinte fra di loro; non può esservi infatti ordine se non fra cose distinte, per cui si dice che la pace definisce ogni cosa. Secondariamente, è necessario che per la tranquillità dell’ordine nessuna delle cose distinte esca dai limiti della sua natura e per questo si dice che la pace determina. In terzo luogo, bisogna che questa definizione e terminazione sia stabilizzata; e per questo si dice che la pace dà fermezza. Altrimenti, se la definizione e terminazione non fosse ferma, ma uscendo una cosa dai suoi confini, invadesse i confini di un’altra cosa, si confonderebbe l’ordine delle cose e così non potrebbe esservi la tranquillità dell’ordine»[7].

 

«Dio non permette che delle cose distinte si disperdano nell’indeterminato e nel non definito, cioè che le operazioni e i mutamenti delle cose non tendano verso un fine certo e determinato, quasi esse siano disordinate e prive di un proposito proprio, ossia ferme su di un principio che le conservi. Ora questo sparpagliarsi alla rinfusa si opporrebbe all’unione in quel triplice modo di cui sopra,  che avviene in forza della partecipazione delle cose alla pace divina»[8].

La pace è innanzitutto, come abbiamo visto, un bene spirituale ed interiore, addirittura un bene divino. Per la Scrittura, shalom è il bene sommo per eccellenza, è uno dei nomi divini. Gerusalemme, come dice l’etimologia stessa del nome, è la Città della Pace ed è appunto la figura della futura umanità pacificata da Cristo, vittoriosa sui nemici della pace, dai quali i pacifici sono liberati per sempre, per essere in eterno incarcerati nella prigione infernale a sfogare per sempre il loro odio verso Dio, verso il prossimo e verso se stessi.

Per la Bibbia il concetto della pace è associato ai massimi valori e a tutto ciò che ci preme di più e più ci sta a cuore: il benessere, la felicità, la perfezione, la vita, la divinità, l’amore, la verità, l’identità, l’unità, l’universalità, la gioia, l’eternità, la stabilità, la quiete, la tranquillità, la serenità, la solidità, la certezza, la sicurezza, la giustizia, l’ordine, la determinatezza, la diversità, la concordia, la comunione, la verità, il bene, il bello, l’armonia.

Essa esclude il contradditorio, l’assurdo, il conflittuale, l’irrazionale, il torbido, il tenebroso, il caotico, il disordinato, l’imperfetto, l’infido, il falso, l’incerto, l’instabile, il dubbio, l’ambiguo, l’inquietudine, l’agitazione, il turbamento, la paura, l’angoscia, la tristezza, l’odio, il nocivo, il precario, il corruttibile, il maligno, la sofferenza, il vizio.

La pace è un sommo bene all’edificazione del quale la nostra buona volontà deve concorrere con quella di Dio, perché la pace è sì conquista umana, ma è soprattutto dono di Dio, dono di Cristo, il quale ci ottiene la pace con Dio e fra di noi mediante il sacrificio della Croce. Essa è per eccellenza dono dello Spirito Santo, che è lo Spirito dell’Amore e dell’Unità.

La pace è così riconciliazione fra nemici che diventano amici; riconciliazione con Dio, riconciliazione col fratello. Essa suppone la vittoria su di un nemico: sul peccato, sul demonio, sulla nostra superbia, sul nostro egoismo, sui nostri vizi.  In questo articolo, tuttavia, concentreremo l’attenzione sulla pace come effetto della vittoria di Cristo su Satana e sui suoi seguaci, paradigma escatologico della lotta che i giusti devono condurre contro i malvagi fin da adesso per la salvaguardia, la difesa e l’ottenimento della pace.

Ciò vuol dire che nella visione cristiana la pace escatologica è quella dei giusti accolti nel regno di Dio e definitivamente separati dai malvagi, ossia coloro che non vi sono voluti entrare. Questa separazione, che Cristo paragona alla separazione del grano dalla zizzania, può in qualche modo iniziare adesso ad opera dei pastori della Chiesa per esempio con l’istituto della scomunica o delle pene ecclesiastiche, ma nel contempo la Chiesa oggi più che mai, ci raccomanda di fare ogni sforzo per mezzo della testimonianza, del servizio fraterno, del dialogo e dell’ecumenismo, di lavorare per la riconciliazione con i fratelli separati nell’edificazione dell’unità non monolitica ma pluriforme e diversificata secondo i doni propri di ciascuno, sopportandoci a vicenda con amore negli inevitabili dissensi, incomprensioni  e contrasti dovuti alla fragilità della natura ferita dal peccato. Nella misura in cui si edifica l’unione e l’unità, si eliminano i contrasti e i conflitti, ma essi restano sempre nella vita presente. Si tratta allora di lavorare con speranza e spirito di sacrificio, pacificando innanzitutto noi stessi e con Dio e così saremo abilitati e qualificati per mettere in pace gli altri.

La pace nasce dal cuore e si estende alla società

La pace si forma e matura nel cuore, nell’ordine interiore della mente e della volontà sottomesse a Dio e signore delle potenze inferiori, nell’ordine del sapere sul sentire, della ragione sugli istinti, della volontà sulle passioni, dello spirito sulla carne, dell’anima sul corpo, e si esprime all’esterno nel rapporto ragionevole e pratico con la natura, nel rapporto caritativo della persona con l’altra persona e con la società.

L’uomo può edificare la pace attorno a sé, in quanto l’ha già in sé. Se non è in accordo con se stesso, se le passioni fanno guerra all’anima, se l’emozione la vince sulla volontà, se l’idealismo e la fantasia prevalgono sul realismo e sul dato dell’esperienza, se non è deciso e coerente nella scelta di Dio contro Satana, ma oscilla tra l’uno e l’altro e serve due padroni, se si regola sul rispetto umano e non sulla buona coscienza, se non sa risolvere i propri conflitti interiori, che ne sa di che cosa è la pace?  Come può insegnare che cosa è la pace? Come può pacificare gli animi agitati e sedotti dalla violenza, dalla guerra e dalla partigianeria? Come può essere imparziale nel giudicare fra due partiti o nazioni in lotta? Come può comprendere il significato e le cause di una guerra? Come può suggerire accordi di pace? Come può mettere d’accordo i litiganti? Su quale base?

Le concezioni volontariste non sono fatte per promuovere la pace, perché essa è l’applicazione nei fatti di ciò che è concepito dall’intelletto. Posizioni come quella di Blondel, il cui estremo è rappresentato dal volontarismo di Nietzsche, che pretendono che non sia la ragione e l’intelletto a dire che cosa è vero, vengono sostanzialmente a sostituire il sentimento e l’emozione alla volontà ed al libero arbitrio, perché, se il nostro sapere morale non è illuminato dall’intelletto, non resta che ricorrere al senso e all’immaginazione, che sono i princìpi delle passioni e degli istinti animali, sicchè alla fine il predicatore o l’oratore che si ispira a alla gnoseologia di Blondel non fa leva sull’intelletto e sulla volontà della gente, ma sulle sue passioni e sugli istinti, i quali, - come abbiamo visto nell’oratoria di un Hitler o di un Mussolini - non essendo controllati dalla ragione, suscitano fanatismi collettivi, suggeriscono folli programmi politici, progetti criminali, visioni immaginarie distorte, utopistiche o guerrafondaie dei rapporti sociali o dei destini di una nazione o del modo di vivere in pace o di ottenere la pace.

Ma non dobbiamo credere che l’oratoria pacifista alla Gandhi o alla Turoldo o alla Rousseau abbia vera efficacia a promuovere la pace. Sono progetti costruiti non sulla base della realtà, ma dell’immaginazione, che sognano un’umanità ideale che non esiste. Simili a queste vedute sono quelle di Leibnitz, il quale era talmente convinto nell’universale potenza della ragione, che ritenne come possibile la pace in Europa fra cattolici e protestanti sulla semplice base di un rigoroso calcolo delle proposizioni, allo stesso modo col quale si fa il calcolo matematico.

Devo dire per onestà che le cose, in realtà, stanno ben diversamente, per quanto mi renda conto di deludere sia i blondeliani che i pacifisti. Infatti sia la oratoria volontarista che quella pacifista, se ben riflettiamo, sono loro alla fine ad essere causa di guerra. Che infatti i blondeliani siano gli ispiratori dell’oratoria dei dittatori, dei demagoghi e degli arruffapopolo, non è difficile dimostrarlo. L’oratore onesto, infatti, nell’esortare la folla e spingerla a retti propositi, deve far leva sulla ragione e non sulle emozioni o sugli impulsi.

La volontà non è mossa dalla volontà o dall’emozione, ma dall’intelletto possibilmente colto. Non si tratta certo di fare delle lezioni di teologia morale. Si possono anche solo lanciare slogan o semplici appelli, come tante volte ha fatto Papa Francesco, che si ispira allo stile di Cristo stesso.

Eppure vediamo come i detti icastici del Vangelo o di San Paolo o San Giovanni sono oggi come 2000 anni fa più efficaci che mai a scuotere la coscienza degli uomini e lo saranno fino alla fine del mondo.  E se la predica ha alle spalle la teologia scolastica, niente di male, con buona pace di Maurice Blondel. Vuol dire che se essa è ostica per i semplici, sarà persuasiva per gli intellettuali. Non si devono salvare anche loro?

È vero dunque che il principio che la pace è effetto della vittoria sul nemico, sembrerebbe a tutta prima un motto fascista. E invece comporta esattamente la negazione della dittatura e del bellicismo, ed è il principio per la conquista vera della pace vera . È un vero principio di pace, nonostante l’apparenza contraria. È questa la tesi che mi propongo di dimostrare in questo articolo.

Cominciamo col dire che è vero, come nota Romano Guardini, che nella società esistono tensioni polari. Egli si sforza, per la verità, di distinguere quelle malsane, che devono essere tolte, da quelle che egli giudica legittime e addirittura fautrici di unità e di progresso. Ma poi, quando ci spiega quali sarebbero queste opposizioni polari proficue, ci accorgiamo che egli non si libera del tutto, come vedremo più avanti, dalla sintesi del sì e del no, tipica della dialettica hegeliana, dalla quale egli pur dichiara di voler prendere le distanze.

Bisogna allora distinguere nella vita sociale i dissidi profondi da quelli leggeri. Tensioni possono esistere a tutti i livelli della conflittualità sociale. I dissidi profondi sono quelli così divisivi, che impediscono o distruggono alla radice la stessa convivenza civile e dissolvono una società, soprattutto in forme di guerre civili, sedizioni, insurrezioni o rivoluzioni, come è successo per l’Impero romano, per l’Ancien Régime, per l’Impero austroungarico, per l’Impero Ottomano, per la società fascista o nazista e come è successo per la società sovietica.

Ma è tale l’ostinazione e la presunzione dei marxisti nella loro convinzione di essere loro i maestri della pace universale, che non hanno ancora imparato nulla dalla storia e tuttora in Cina si illudono di essere in grado di realizzarla, tanto che la Cina ha la spudoratezza di presentarsi come mediatrice di pace fra Stati Uniti e Russia nell’attuale guerra in Ucraina.

Ora, esiste certamente in una società democratica la normale dialettica delle opinioni e dei confronti-scontri fra partiti e gruppi, che non fuoriescono dalla normale libera e pluralistica convivenza civile. Ed esistono tensioni che non devono essere sottovalutate e alle quali si può e si deve rimediare con una paziente e sapiente opera di conciliazione avvicinando le parti in lotta ed aiutandole alla mutua comprensione, a spegnere i rancori, ad apprezzarsi vicendevolmente offrendo ad esse i valori che esse hanno già in comune. Già Hegel pretendeva di aver trovato un riscontro in natura alla sua dialettica negli studi che allora si facevano sui fenomeni elettromagnetici di recente scoperti.

In realtà i rapporti umani nulla hanno a che vedere con questi determinismi fisici di attrazione e repulsione, dove la tensione che tiene vincolate tra di loro in maniera fissa e costante due forze fisiche di per sé contrarie è una inderogabile legge di natura, che struttura deterministicamente i moti elettromagnetici secondo leggi matematicamente formulabili.

Per questo, la pace sociale non consiste in una sintesi che tiene assieme due forze contrarie e reciprocante escludentesi, così come l’atomo tiene assieme il nucleo e gli elettroni o il sole trattiene con la sua attrazione i pianeti che di per sé tenderebbero ad allontanarsi o il polo positivo della pila elettrica è in uno stato di tensione col polo positivo perché i due poli si attraggono e si oppongono ad un tempo. Ma non è questo il modo col quale dev’esser realizzata la pace nella società e nella Chiesa.

È vero che a seguito del peccato originale gli uomini tendono ad opporsi gli uni agli altri. Ma questa tensione reciproca, questa polarità non è per nulla naturale e voluta da Dio. La pace, quindi, non nasce dalla sintesi dell’opposizione polare, ma dalla reciproca corrispondenza delle diversità e dalla reciproca complementarità. La scissione dell’atomo produce la bomba atomica.

L’antitesi dell’opposizione duale non è affatto sorgente della pace, ma è il principio dell’esplosione della guerra. Se non vogliamo questa esplosione non dobbiamo prender spunto di quelle opposizioni fisiche, ma far convergere le volontà verso il bene comune nella libertà delle scelte legittime togliendo ogni motivo di dannoso dissenso e di lacerante conflitto.

Massimo Borghesi in un suo libro di recente pubblicato vede con favore un simile metodo di pensare, che lo porta a parlare, a proposito di Romano Guardini, di «polarità dialettica»[9]. Sempre su questa linea Borghesi parla di «pensiero antinomico» del Guardini[10].

Ora, bisogna dire che tutto ciò ci lascia alquanto perplessi per l’evidente ambiguità per non dire erroneità di simili qualifiche. Infatti un «pensiero antinomico» fa pensare a un pensiero incoerente o intenzionalmente contradditorio. Con questo non neghiamo l’utilità di un sapiente uso del paradosso. Un illustre esempio di modo paradossale di esprimersi ci è dato da San Paolo; ma ciò è solo il segno della sua imperfezione di oratore e sappiamo tutti come Lutero è rimasto ingannato da questi apparenti paradossi.

Per questo, fare l’apologia del pensiero antinomico e dell’opposizione polare come se si trattasse di un paradigma del pensare, non è assolutamente conveniente ed è assai pericoloso, senza che ciò sia detto per arrivare agli eccessi di Hegel, rifiutati dallo stesso Guardini. Eppure, di tale scorretto modo di pensare, non si deve trovare neppure l’ombra nel pensatore onesto e limpido, che pur conosce bene i grandi conflitti dell’umanità, come è testimoniato dalla grande tradizione della teologia cattolica e dello stesso Magistero della Chiesa.

Il parlare nei termini di Borghesi rimanda la nostra mente a un pensare doppio o incapace di armonizzare i propositi dello spirito con gli impulsi della carne.  Certo, ciò non corrisponde a quanto Guardini intende dire, considerando la sua ricca spiritualità; ma bisogna dire quantomeno che questo modo di esprimersi non è per nulla chiaro e presta il fianco alla mia interpretazione.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 17 maggio 2023

L’uomo può edificare la pace attorno a sé, in quanto l’ha già in sé. Se non è in accordo con se stesso, se le passioni fanno guerra all’anima, se l’emozione la vince sulla volontà, se l’idealismo e la fantasia prevalgono sul realismo e sul dato dell’esperienza, se non è deciso e coerente nella scelta di Dio contro Satana, ma oscilla tra l’uno e l’altro e serve due padroni

Le concezioni volontariste non sono fatte per promuovere la pace, perché essa è l’applicazione nei fatti di ciò che è concepito dall’intelletto. Posizioni come quella di Blondel, il cui estremo è rappresentato dal volontarismo di Nietzsche, che pretendono che non sia la ragione e l’intelletto a dire che cosa è vero, vengono sostanzialmente a sostituire il sentimento e l’emozione alla volontà ed al libero arbitrio, perché, se il nostro sapere morale non è illuminato dall’intelletto, non resta che ricorrere al senso e all’immaginazione

La volontà non è mossa dalla volontà o dall’emozione, ma dall’intelletto possibilmente colto. Non si tratta certo di fare delle lezioni di teologia morale. Si possono anche solo lanciare slogan o semplici appelli, come tante volte ha fatto Papa Francesco, che si ispira allo stile di Cristo stesso.

Vediamo come i detti icastici del Vangelo o di San Paolo o San Giovanni sono oggi come 2000 anni fa più efficaci che mai a scuotere la coscienza degli uomini e lo saranno fino alla fine del mondo.

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[1] Cap.XI, lect.I, n.880.

[2] N.885.

[3] Ibid.

[4] N.886.

[5] Ibid. Qui vediamo l’aspetto positivo della teoria che esamineremo più avanti di Romano Guardini circa le opposizioni polari e la permanenza normale di tensioni anche in una società pacifica. Queste tensioni, tuttavia, a parte quelle inevitabilmente causate dalla fragilità della natura umana, non vanno tanto riferite alla convivenza umana, ma alla famiglia dei viventi inferiori, nella quale vale il principio mors tua vita mea. Per quanto riguarda il mondo della chimica, qui esiste certamente l’opposizione polare, ma essa, come vedremo, che è una legge naturale, non può essere assolutamente presa come termine di paragone delle tensioni sociali, che sono uno spiacevole fenomeno della natura decaduta.

[6] N.889.

[7] N.891. È esattamente quello che sta succedendo in Ucraina: sono i Russi che hanno invaso un territorio ucraino o sono gi Ucraini che vogliono per sé un territorio appartenente di diritto alla Russia?

[8] N.892.

[9] Massimo Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale, Jaca Book, Milano 2017, p.39.

[10] Ibid., p.33.

4 commenti:

  1. Padre Cavalcoli,
    lascia che faccia una domanda che capisco sia correlata all'argomento di cui lei si stai occupando in questo articolo.
    Papa Francesco ha detto: "C'è stato un tempo in cui le nostre Chiese parlavano ancora di guerra santa o di guerra giusta. Oggi non si può più parlare così. Si è sviluppata una coscienza cristiana dell'importanza della pace... Le guerre sono sempre ingiuste."
    La mia domanda, allora: come conciliare una simile affermazione del Papa con quanto si è sempre sostenuto nella Chiesa sulla dottrina della guerra giusta?

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    1. Caro Carlo Maria,
      il Santo Padre assume la parola “guerra” nel senso dello scatenamento collettivo della violenza con tutti i danni e i disastri che esso produce. In questo senso anche la Scrittura, benchè parli di “guerra santa”, prevede che nella vita futura non ci saranno più guerre.
      Quindi è ovvio che questo senso usato dalla Scrittura corrisponde al linguaggio del Papa.
      D’altra parte il Santo Padre in occasione della guerra in Ucraina ha fatto sapere, per mezzo del card. Parolin, che gli Ucraini hanno il diritto di difendersi contro l’aggressione russa.
      Certo, il Cardinale non ha usato l’espressione “guerra giusta”, tuttavia è evidente che egli ha giudicato cosa giusta difendersi con le armi contro l’aggressione dei Russi.
      Per questo l’espressione tradizionale “guerra giusta”, con le spiegazioni che si danno a questa espressione, vale ancora, per cui non è proibito usare questa espressione accanto a quell’altra usata dal Papa. Non è che queste due espressioni si escludano a vicenda, perché il Papa si riferisce ad un atto intrinsecamente criminoso, e possiamo dire che in ogni guerra è presente un crimine, se non altro quello dell’aggressore, mentre ‘espressione “guerra giusta” si contrappone a “guerra ingiusta”, così come l’uso onesto di un mezzo si oppone all’uso disonesto.
      Si potrebbe aggiungere che tutte le volte che uno Stato scatena una guerra, parla di “guerra giusta”. Tuttavia bisogna verificare di volta in volta chi è sincero e chi è bugiardo.
      Il guerreggiare in se stesso non è altro che un’arte, la cosiddetta “arte militare”, che ha le sue regole di umanità, per cui il soldato non può fare tutto quello che gli pare, magari col pretesto che sta combattendo una “guerra giusta”, perché esiste un tribunale militare che può condannarlo anche a morte, per la violazione delle regole del Codice militare.
      Essa assume una connotazione etica a seconda del fine per il quale questo mezzo viene usato. Se si guerreggia per salvare la Patria oppure per liberare un popolo oppresso, è un conto; se si guerreggia per dominare un altro Stato o per imporre con la forza un credo religioso, è un altro conto.

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    2. Con il suo commento sembra che il nero sia diventato bianco!
      Devo allora ringraziare, padre Cavalcoli, perché senza di lei saremmo così stolti da interpretare il Papa nel senso letterale dei suoi termini?... Ma questo mi fa venire molti dubbi...
      Peccato che Francisco non dia le spiegazioni che ci dai. Il povero si confonde sempre e finisce per essere ambiguo. Sempre confuso...

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    3. Caro Carlo Maria,
      ammetto che il Papa non è del tutto chiaro, ma d’altra parte non è possibile una interpretazione diversa dalla mia, perché da una parte, attraverso il card. Parolin, ha confermato la teoria della guerra giusta, giustificando la guerra dell’Ucraina.
      Ma dall’altra, per quanto riguarda la condanna assoluta della guerra, ripeto che si tratta di una accezione della parola presente anche nella Scrittura.
      Quindi basta uno sforzo benevolo di intelligenza per capire che cosa il Papa ha inteso dire, senza fargli delle accuse gratuite.

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