Le opinioni del
Papa
Prima parte
I.
Le interviste giornalistiche non fanno magistero
È cosa evidente e comprensibile che ad un
Papa, trattando in maniera improvvisata, soprattutto con privati e non con
autorità ecclesiastiche o coram populo
Dei di argomenti che toccano la fede o i costumi, sia lecito parlare a
ruota libera, esprimendo sue private opinioni o sentimenti del momento o
particolari influssi culturali orecchiati e quindi non fruendo del munus dottrinale petrino, ossia di
quella infallibilità della quale fa uso quando come Successore di Pietro
intende, nel suo magistero ordinario, insegnare pubblicamente alla Chiesa
universale la dottrina della fede.
Chi dunque registra e diffonde le parole del
Papa, anche se lo fa col consenso del Papa, ma lo fa solo come persona privata,
per quanto possa essere un famoso giornalista accreditato in Vaticano, quindi senza
mandato pontificio o autorità apostolica, come potrebbe averla un Vescovo o un
Cardinale, rappresentante ufficiale del Papa, soprattutto se della Santa Sede,
lo fa evidentemente senza autorità apostolica, ma solo come persona privata,
per quanto si sforzi di riferire fedelmente ciò che ha detto il Papa. Ma la
firma di quel che dice è solo la sua, non è quella del Papa o di un suo rappresentane
o incaricato ufficiale.
Quindi
anche il nome «Francesco», che Tornielli ha messo in alto nella copertina del
suo libro, come se il Papa fosse l’autore del libro, è fuorviante. L’autore non
è il Papa; l’autore è Tornelli. Non rischiamo di mettere Tornielli tra i
documenti pontifici. È vero che sotto, in piccolo, si dice: «una conversazione con
Andrea Tornielli». Ma questo doveva apparire in grande come titolo del libro e,
se si fosse stati chiari, il libro avrebbe dovuto intitolarsi così: «Il Papa parla
con Andrea Tornielli», oppure: «Il Papa secondo Tornielli».
Non che temiamo che Tornelli non sia fedele
nel riferire – questo dubbio non ci sfiora. Tornielli non è Scalfari -; solo
che Tornielli, come ho già detto, non è l’organo ufficiale degli insegnamenti
del Papa. Sotto questo punto di vista, per esempio, qualsiasi officiale della
Segreteria di Stato, rappresenta di più l’autorità dottrinale pontificia che
non Tornelli.
Per questo, nessun teologo serio, che vorrà
presentare in futuro la dottrina ufficiale del Papa sul tema della misericordia
divina, citerà l’intervista di Tornelli, se non eventualmente a titolo di
curiosità, o solo in quanto possiede un interessante valore aneddotico, ma non
certo per una sua inesistente autorità dottrinale.
Questo
uso dei Papi di esprimere opinioni personali a privati, non indirizzate alla
Chiesa come tale, ma semplicemente da far conoscere al pubblico, anche non
credente, trattando anche di materia di fede, ma senza autorità apostolica o intento
magisteriale petrino, è relativamente recente. Lo inaugurò San Paolo VI con i
suoi famosi «colloqui con Jean Guitton», famoso ed illustre scrittore ed intellettuale
cattolico francese.
San Giovanni
Paolo II, che aveva doti di scrittore e poeta, ed era stato docente di morale
prima di essere eletto Papa, permise che fossero pubblicate o fece pubblicare
sue opere letterarie, come «La bottega dell’orefice» e opere di teologia morale
di alto livello teoretico, ma del tutto prive di autorità magisteriale.
Conosciamo tutti la preziosa trilogia cristologica
di Benedetto XVI: un capolavoro di sapienza teologica e di esegesi biblica del
dottissimo teologo Ratzinger: eppure nella prefazione egli avverte chiaramente
il lettore che non si tratta di magistero pontificio; tanto è vero che invita
formalmente il lettore alla discussione, come potrebbe fare un qualunque
docente di cristologia con i suoi studenti o con i colleghi cristologi.
Ora, quando un Papa insegna alla Chiesa come
maestro della fede, fosse anche un’udienza generale o l’omelia di una Messa, sa
bene di non presentare discutibili idee sue, ma la dottrina tradizionale, oggettiva,
perenne ed immutabile del Magistero della Chiesa, e più in particolare del
magistero pontificio precedente, della Sacra Scrittura, della Tradizione dei
Concili, dei Padri, dei Dottori e dei Santi.
La
novità introdotta da Papa Francesco in questa forma di dottorato privato ed
estemporaneo, in questo esprimere improvvisato a ruota libera le proprie
opinioni in materia di fede e di morale, quelle che oggi sono chiamate
«esternazioni», sono soprattutto le interviste a giornalisti, persone che
possono essere indubbiamente credenti,
ma che non necessariamente costituiscono i canali o portavoce ufficiali
del magistero pontificio; e non è detto che costoro siano i migliori interpreti
delle parole del Papa e soprattutto che sappiano distinguere ciò che in questo colloquio
il Papa lascia come traccia contingente della sua fragile umanità, ciò che
esprimono come segno del suo discutibile e fallibile opinare, da ciò che invece
è chiara testimonianza dell’infallibile Maestro della fede.
A questo punto può sorgere una domanda: come
mai e perché i Papi del passato non hanno mai avuto una simile idea? Eppure il
giornalismo è una professione ormai vecchia di tre secoli. Come non esistono
interviste a Gregorio XVI o al Beato Pio IX? Certamente sempre sono esistiti araldi,
banditori, messaggeri, annunciatori ufficiali e non ufficiali, che informassero
i pastori, i credenti, la gente e il popolo degli atti, dei fatti e delle
decisioni dei Sommi Pontefici. Essi ne hanno sempre avuto bisogno.
Ma ciò che hanno sempre ritenuto inutile per
non dire dannoso per i fedeli è stato proprio quest’uso che, a partire da San Paolo
VI, oggi è divenuto corrente, soprattutto con Papa Francesco: esporre a braccio
le proprie opinioni in fatto di fede e di morale a privati richiedenti non
appartenenti alla gerarchia ecclesiastica e comunque non rappresentanti
ufficiali del Papa o senza mandato pontificio o incarico speciale da parte del
Papa, ma su loro richiesta, sia pur col consenso del Papa.
Perché uso dannoso? Perchè i Papi si
concentravano molto sul loro ufficio magistrale, per cui rifuggivano
dall’esprimere, in materia fede e di morale, idee che non fossero la
ripetizione o la esposizione del dogma o comunque dottrine in linea con quanto
avevano detto i Papi precedenti, che a loro volta erano esclusivamente
preoccupati di insegnare ai fedeli soltanto dottrine assolutamente certe, che
quindi non potessero essere in alcun modo riflesso di idee personali dei singoli
Papi.
In ciò vediamo un’istanza validissima ed
essenziale del magistero pontificio: la conservazione del depositum fidei integro, intatto, immutato, non annacquato e non
decurtato. Sapevano che questo era il compito dottrinale essenziale del Papa.
Altre idee, altre dottrine, altre opinioni, per quanto lecite e lodevoli, per
quanto personalmente le condividessero, ma magari incerte od opinabili, si
astenevano dall’esprimerle al popolo e ai fedeli, nel timore che queste idee,
solo perchè sulla bocca del Papa, potessero esser prese come oro colato, quasi
fossero verità di fede.
Giovanni Paolo II simpatizzava personalmente
per la fenomenologia e per il Beato Duns Scoto. Ma quando doveva parlare da
Papa, raccomandava San Tommaso. Benedetto XVI aveva simpatia per San Bonaventura,
per Sant’Agostino e per Romano Guardini. Ma da Prefetto della CDF seguiva S. Tommaso
e da Papa raccomandò esplicitamente Tommaso.
Lo stile inaugurato da Papa Francesco ha i
suoi vantaggi e suoi rischi: vantaggi, in quanto dà al Papa la possibilità di
congiungere all’espletamento del suo ufficio magisteriale la manifestazione
delle sue preferenze teologiche o delle sue opinioni personali.
I rischi sono dati dal fatto che Papa
Francesco espone a volte opinioni private, idee strane di teologi o pensatori
non approvati dalla Chiesa, idee che si discostano o sembrano discostarsi dal
magistero pontificio precedente, il suo e quello dei Papi precedenti. Occorre
allora lasciar cadere queste opinioni ed accogliere ciò che emerge dal suo
magistero autentico. Portiamo qui l’esempio del suo insegnamento sulla misericordia,
come lo troviamo in un documento che non è magistero, ma una semplice intervista
concessa ad Andrea Tornelli, da lui pubblicata sotto il titolo di Il nome
di Dio è misericordia[1].
Il libro contiene naturalmente una giusta
nozione naturale e soprannaturale della misericordia divina. Ma proprio alla
luce di questo giusto concetto, vediamo qui quali sono le opinioni del Papa,
che da esso si discostano.
II. Esame
delle proposizioni
Il
significato più alto del Vangelo
Il Papa sembra affermare in vari modi che la
misericordia è l’opera divina più alta nei confronti dell’uomo. «La centralità
della misericordia per me rappresenta il
messaggio più importante di Gesù»[2]
. Notiamo quel «per me», che è il segno che qui il Papa esprime non un dato
oggettivo di fede, ma una sua opinione.
Egli riprende un’affermazione di Papa Benedetto
XVI: «La misericordia è in realtà il nucleo centrale del messaggio evangelico,
il nome stesso di Dio, il volto con il quale Egli si è rivelato nell’antica
Alleanza e pienamente in Gesù Cristo, incarnazione dell’Amore creatore e
redentore»[3].
Addirittura «è il primo attributo di Dio»[4].
«È il nome di Dio»[5], come
recita, del resto, il titolo stesso del libro «Il nome di Dio è misericordia».
Secondo la Scrittura, in realtà, le cose
stanno diversamente. Dio stesso rivela il Suo Nome a Mosè: «Io sono Colui Che
È» (Es 3,14) e l’opera massima, l’espressione massima dell’amore e della bontà
di Dio a favore dell’uomo, come è detto nella Lettera a Tito, (3,4), non è la misericordia, che solleva l’uomo
dalla miseria del peccato e lo guarisce con la sua grazia, ma è quella
«benignità» (chrestòtes, benignitas)
e «filantropia» (philanthropìa, humanitas),
quella grazia elevante e divinizzante, che innalza l’uomo alla dignità di
figlio di Dio in Cristo, «guidato dalla Spirito Santo» (Rm 8,14), dignità per
la quale ha voluto renderci «eredi della vita eterna» (Tt 3,7). La quale, come
ci spiega Gesù, consiste nella celeste visione del Padre e del Figlio (Gv 17,3.24).
La misericordia è il nome di Dio, supponendo l’esistenza di un mondo,
quale quello nel quale viviamo, dove esiste il peccato e quindi la miseria e la
sofferenza. Ma Dio avrebbe anche potuto non creare il mondo ed esistere da solo, giacché Egli, nella sua infinita
perfezione, infinitamente beato, autosufficiente e completo in sé stesso, non
aveva bisogno altro che di Sé stesso per essere felice.
Se quindi ha creato il mondo, non è perché
esso completasse la sua essenza, così da essere un vero Dio completo e
perfetto, perchè lo era già prima nell’eternità. Creando il mondo, non è che
Dio abbia aumentato e perfezionato la sua essenza, perché Egli è infinito e
l’infinito non può aumentare; è il sommo bene e al sommo bene non si può
aggiungere nulla. Dio non ha creato il mondo neppure per necessità di natura,
ma volontariamente e del tutto liberamente. Chi dunque connette essenzialmente
o necessariamente il mondo a Dio, viene ad assolutizzare o divinizzare il mondo
e diventa un idolatra.
Di
fatto il mondo è un insieme di enti contingenti, tipici effetti di una libera
scelta divina, come avviene anche nel caso del libero arbitrio umano. Noi non
scegliamo ciò che non dipende da noi o da enti che per noi non possono non
essere, come per esempio il pianeta Saturno. Noi non scegliamo o decidiamo che
il pianeta Saturno esista. Ci interessi o non c’interessi, Saturno esiste.
Invece dipendono dalle nostre scelte quei nostri atti o eventi, dei quali siamo
i padroni con la nostra volontà.
Un’altra cosa da tenere presente è che Dio
esercita la sua misericordia nella vita presente, ma il fine ultimo, l’atto più
grande e sublime del suo amore per l’uomo e dell’opera di Cristo è quello di condurre
l’uomo ad una vita beata e celeste oltre la morte, la vita eterna, nella quale
l’uomo, perfettamente libero da ogni male e da ogni miseria non avrà più bisogno di ricevere la
misericordia divina, ma fruirà semplicemente in eterno della sua infinita
bontà.
Da qui si ricava che l’annuncio più sublime Vangelo,
ancor più della remissione dei peccati grazie alla misericordia, è la possibilità di diventare figli di Dio (Gv
1,12; I Gv 3,2). Questo è il messaggio più importante di Gesù. Questo è il vero
nucleo centrale del messaggio evangelico. La remissione dei peccati, ossia la
fruizione della misericordia è solo il primo gradino della perfezione e della
santità cristiane: ve n’è un altro, superiore e supremo, che è il fruire del
Dio trinitario anima e corpo nella gloria celeste.
Come
appare infatti chiaramente dalle richieste che Gesù rivolge al Padre nella preghiera
sacerdotale del c.17 di Giovanni, volontà del Padre nei nostri riguardi non è
solo liberarci dal peccato e dalla morte, ma soprattutto donarci quella stessa gloria che Egli ha donato a suo Figlio (Gv
17,22). Quindi possiamo dire che l’opera più grande che Dio compie a favore
dell’uomo non è la misericordia, che in fin dei conti si limita a risanare la
natura umana ferita dal peccato, ma è la glorificazione
divina dell’uomo, è render l’uomo partecipe della stessa gloria divina.
Questa finalità contemplativa del cristianesimo,
al di là di una visione meramente soteriologica, è stata bene espressa dalla Chiesa
e dai Santi dei secc. XI-XIV, dopo la riforma gregoriana, che mise in auge
l’eccellenza della vita monastica fra tutti gli stati di vita cristiani.
Pensiamo, fra i Santi, a San Romualdo, a San Bernardo, a San Giovanni
Gualberto, a San Bruno, a Sant’Anselmo, ai Cluniacensi, al fiorire
dell’eremitismo.
E nel magistero della Chiesa il Concilio
Lateranense IV del 1215, commentando Gv 17,22, prospetta la visione celeste del
Padre come fine ultimo del cristiano (Denz.806). Il Concilio di Viennes del
1312 chiarisce la natura della beatitudine finale, confutando le eresie dei
beguardi e dei beghini (Denz.471-478). Nel 1336 Benedetto XII definisce la
natura della visione beatifica (Denz.1000-1001).
È invece a partire dal sec. XV che la Chiesa
comincia a volgere l’attenzione all’opera
della Redenzione come nobilitazione ed
esaltazione dell’uomo e dell’agire umano e quindi comincia a sorgere una
spiritualità più umanistica e soteriologica che ascetica e contemplativa. Sia
la riforma luterana che quella tridentina seguono questa via.
Ci vorranno il Concilio Vaticano I, col suo
richiamo alla conoscenza teologica naturale e soprannaturale, nonché il
Vaticano II con il suo insegnamento sul rinnovamento della vita religiosa e
sulla chiamata universale alla santità, per ritrovare questa suprema istanza
del Vangelo, che stava eclissandosi per l’invadenza immanentistica ed
antropocentrica della modernità.
Non è buono
solo il Dio misericordioso, ma anche il Dio severo
Una grave assenza nel libro di Tornielli è il
discorso sulla severità. Il Papa si
limita a parlare delle sanzioni della giustizia umana, ma sulla severità divina
non una parola. Ma si può concepire una giustizia umana senza parlare della
giustizia divina? Su che cosa si fonda la giustizia umana? Su sé stessa?
Sarebbe la peggiore delle dittature.
Gli Stati atei sono distruttori dell’umanità
appunto perché non fanno riferimento alla giustizia divina, appunto perché non
prendono a modello la giustizia divina, appunto perché non attendono la giustizia
divina, appunto perché vogliono sostituirsi alla giustizia divina. Parlare
della giustizia umana senza parlare della giustizia divina vuol dire sostituire
l’uomo a Dio.
Su quale base deve fondarsi la giustizia
umana, se non su quella divina? Quale ne è il modello e la regola, se non la
giustizia divina? Chi rimedia ai difetti della giustizia umana, se non quella
divina? Quindi il discorso della giustizia umana senza una base nella giustizia
divina resta puramente campato per aria; difetto tanto più grave, dato che qui
si tratta di chiarire la condotta di Dio verso gli uomini.
Ora, bisogna dire che, trattando della
misericordia, non si può non parlare anche della severità, così come parlando
del bene non si può parlare anche del male, perché la misericordia elargisce ed
aumenta il bene, e ripara al male, mentre la severità si oppone direttamente al
male ed infligge la pena. Così pure, parlando del peccato, non si può non
parlare del castigo del peccato. Un peccato impunito o automaticamente perdonato
è un male confuso col bene, perché è il bene che non merita castigo, ma premio.
E trattando della misericordia divina, che salva e pratica la giustizia
premiando i giusti, non si può non parlare della giusta severità che castiga i
malvagi. Credere che Dio usi misericordia con tutti, che salvi tutti, che non
castighi nessuno è credere in un Dio che non esiste.
Dio certo avrebbe potuto creare un mondo nel
quale non esistesse il peccato, nel quale tutti sarebbero stati sani, virtuosi
e felici, senza commettere o subire alcun male e alcun castigo. Non sarebbe
stata necessaria neppure la misericordia, perché non ci sarebbero stati mali da
togliere, peccati, miserie e sofferenze da alleviare. Oppure, avrebbe potuto
creare un mondo, dove sarebbe esistito il peccato, ma avrebbe potuto fare che tutti
si pentissero, così da far misericordia a tutti e salvare tutti.
E invece le
cose non sono andate così. Dio, nei piani imperscrutabili della sua bontà e
provvidenza, ha voluto permettere che il male entrasse nel mondo e col male il castigo
del peccato, la sofferenza e la morte. Sarebbe stato ingiusto se avesse
permesso l’esistenza del peccato senza castigarlo.
Sappiamo dalla Scrittura che il castigo
divino può avere un duplice fine: correttivo, se lo infligge in questa vita per
far ravvedere il peccatore, che è ancora in tempo a salvarsi; afflittivo, ed è
la pena dell’inferno, dove il peccatore è ormai incorreggibile per sempre. Dio
può mandare la sofferenza anche all’innocente per metterlo alla prova: è il
caso di Giobbe o per unirlo alle sofferenze redentrici di Cristo: è il caso di
tante sante anime mistiche innocentissime, che vollero o furono chiamate a
condividere i dolori atroci della Passione di Cristo. Oppure Dio può
procrastinare il castigo al fine di dare al peccatore il tempo di ravvedersi.
Può anche mitigare o togliere il castigo.
Per non parlare però della severità,
bisognerebbe che il male non esistesse, che il peccato non esistesse, che il castigo
del peccato non esistesse. Ma ciò impedirebbe il discorso sulla misericordia.
Infatti, se non esistessero questi mali, non esisterebbe neppure la
misericordia, perché essa è sollievo della sofferenza, perdono del peccato, possibilità
data da Dio in Cristo per misericordia di espiare la colpa mediante la trasfigurazione
del castigo in mezzo di redenzione.
La nostra salvezza è l’effetto della
congiunzione e cooperazione della giustizia e della misericordia, da parte di
Dio e da parte nostra. Il Padre ci fa misericordia e rimette i nostri debiti
per i meriti di Cristo, che ha preso su di sé il castigo dei nostri peccati e
ha dato soddisfazione al Padre per le nostre colpe, pagando il debito del
peccato. Noi, a nostra volta, per misericordia del Padre, possiamo in Cristo contribuire
a dar soddisfazione al Padre con le nostre sofferenze, le opere buone e,
soprattutto praticando la misericordia verso il prossimo.
Misericordia
e severità
Misericordia e severità sono in sinergia, ma anche
alternandosi e succedendo l’una all’altra, due metodi educativi fondamentali,
che da millenni hanno contribuito alla formazione di tutte le grandi civiltà e
mancano laddove regna la barbarie, l’arretratezza e il disprezzo per la persona
umana.
La misericordia si piega al bisognoso,
arricchisce il povero, rafforza ciò che è debole, solleva dalla miseria,
conforta nella sofferenza, perdona il peccato, rispetta la buona fede, attende
con pazienza, tratta con dolcezza, innalza l’umile, accetta i limiti, cura il
malato, irrobustisce il sano, dona gratuitamente, sovviene non richiesta.
La giustizia rende a ciascuno il suo, rispetta
i patti, mantiene le promesse, onora i superiori, obbedisce alla legge, retribuisce
secondo i meriti, castiga il malvagio, premia il giusto, riscuote il dovuto,
paga i debiti, ricambia il favore ricevuto, pratica il rispetto del diritto,
resiste ai superbi, abbatte i tiranni, riscatta i prigionieri, sconfigge il
nemico, difende il debole, vendica i torti subìti, rende giustizia agli
oppressi, favorisce gli accordi di pace.
Proviamo chiederci: come mai Gesù non è misericordioso
con tutti, ma con alcuni è durissimo, lancia invettive e minaccia terribili
castighi? E non è da dire che Cristo cessasse mai dall’esercizio della carità, giacché
la carità è una di quelle virtù che sono talmente necessarie alla vita
dell’anima, che va esercitata a tempo pieno. Il che allora vorrà dire che la
severità può e deve essere, quando occorre ed è necessario, una forma di carità.
Altre virtù, come la mitezza, la magnanimità,
il coraggio, la castità, la sobrietà, la parsimonia, nonché la stessa
misericordia e la severità vanno esercitate quando si presenta l’occasione. Ma
la carità, che è la vita dell’anima, dalla quale dipendono tutte le altre
virtù, dev’essere sempre attiva. Così, ora potremo muovere le gambe, ora le mani;
ma il cuore deve battere sempre.
Il buonista, ossia chi vuol usare solo la
misericordia e respinge incondizionatamente la severità temendo che essa sia
sinonimo di cattiveria, crede che tutti gli uomini siano buoni, in buona fede e
di buona volontà, soltanto bisognosi di essere compassionati, tollerati ed istruiti
e pensa che non esistano veri peccati, ossia il fare il male volontariamente,
ma solo sviste, sbagli, o errori involontari per debolezza o ignoranza. Per
educare a fare il bene, non ci vogliono né punizioni, né metodi coercitivi, né
proibizioni, né rinunce, né minacce, ma solo metodi colloquiali, garbati, dolci
e persuasivi.
Il misericordista, che vorrebbe esercitare
sempre e solo la misericordia e mai la severità è come quel tale che volesse
tenere l’ombrello sempre aperto, anche quando c’è il sole o volesse tenere
sempre il riscaldamento in funzione, anche d’estate.
Ebbene,
costui non tiene conto delle conseguenze del peccato originale, le quali sono
all’origine in ciascuno di noi di tendenze cattive, la «concupiscenza», che durano
per tutta la vita presente e, benché possano indebolirsi già da adesso con gli esercizi
ascetici e il soccorso della grazia, saranno totalmente estinte solo alla fine della
vita presente.
Il misericordista è un illuso. Il risultato
della sua opera educativa, bene che vada, sarà quello di creare caratteri molli
e influenzabili, con una volontà fiacca e cedevole alle passioni, alle lusinghe
del mondo ed agli inganni del demonio, una mezza figura, che si adagia nella
mediocrità, un voltagabbana, un servo di due padroni, una canna sbattuta dal vento,
uno stolto che costruisce sulla sabbia.
Chi respinge in blocco la severità per
praticare la sola misericordia, perde di vista il criterio per praticare una
giusta severità. Succede allora che, quando inevitabilmente si presenterà
l’occasione o il dovere di affrontare un nemico o essere severi, mancandogli la
giusta misura, peccherà o per eccesso o per difetto, tra la crudeltà e la
vigliaccheria.
La misericordia compatisce ed allevia il male
di pena, la sofferenza; la severità castiga e proibisce il male di colpa, il
peccato. Se si insiste troppo sulla misericordia trascurando la severità, c’è
il rischio di ridurre ogni male al male di pena, da qui la tendenza in una
certa predicazione a ridurre il peccato alla categoria dell’«esser ferito», al
ricevere una ferita, dimenticando che il peccato propriamente è un ferire. Così abbiamo una gran quantità
di feriti senza che ci sia alcun feritore.
Così si finisce per dimenticare l’esistenza
della cattiva volontà e si tende a ritenere che tutti siano di buona volontà,
delle povere vittime, deboli ed innocenti. In realtà non dovrebbe esser difficile
riconoscere che, in noi e negli altri non c’è sempre la buona volontà e che non
esistono solo peccati per ignoranza o per fragilità, ma ci sono anche peccati
con piena coscienza, deliberazione, calcolo e malizia, peccati diabolici, per
distoglierle dai quali non servono neppure le minacce degli eterni castighi,
perché sono anime così spavalde ed indurite nel peccato, così presuntuose, che
sono completamente prive del timor di Dio, per cui, dovessero morire in
quell’istante, se non sono fulminate dalla grazia all’ultimo istante,
precipitano direttamente nell’inferno.
L’alternanza della misericordia e della
severità dev’essere la regola del buon pastore, il quale dev’essere come un
buon cuoco e un buon dietologo. Misericordia e severità sono come due cibi, uno
dolce, l’altro amaro. In linea di principio fanno bene tutti e due; ma bisogna
sapere dosarli ed usare a tempo e a luogo, a seconda delle singole persone,
perché ad una può far male la misericordia, ad un’altra può far bene la
severità. Non bisogna eccedere né scarseggiare, si tratti della misericordia o
si tratti della giustizia.
Il buon pastore dev’essere esigente ma ad un
tempo accondiscendente. Deve facilitare il cammino del discepolo, ma nel contempo
chiedergli molto, anzi il massimo, convincendolo della bontà e dell’utilità di
questo massimo. Allora stimolerà in lui la voglia e la forza per cercare quel
sommo bene, Dio, al quale si aspira dando il massimo, pronti togliere ogni
ostacolo, pronti al sacrificio e alla rinuncia. Deve saperlo rimproverare
quando nota la cattiva volontà, compatirlo quando nota la debolezza.
Responsabilizzarlo, quando sa che può farcela, scusarlo se non ce la fa.
Severo, se ciò lo rende umile; misericordioso, se ciò lo incoraggia.
Misericordia e severità sono anche, come
diceva San Giovanni XXIII, due medicine, due pratiche sanitarie: la
misericordia può essere paragonata ad una cura farmacologica; la severità ad un
intervento chirurgico. La severità toglie l’occhio che scandalizza. La
misericordia, constatando che non scandalizza, lo lascia funzionare.
La giustizia è come l’ingessatura ad un
braccio. È una limitazione della libertà. Limita i movimenti, ma affinchè il
braccio guarisca e sia libero. Guarito il braccio, le succede la misericordia,
che ridona libertà al braccio. Se l’umanità fosse rimasta nell’Eden senza
peccare, non ci sarebbe stato bisogno della severità, che limita, castiga,
proibisce, taglia, ferisce, reprime e ci obbliga alla rinuncia, ma tutto sarebbe
stato libertà, armonia, dolcezza, tenerezza. Adesso per raggiungere questo,
occorrono la severità, il rigore e l’austerità.
Misericordia e severità hanno la loro prima radice,
scaturigine e giustificazione a livello
biologico animale, nell’alternanza fra l’ira e la concupiscenza, fra l’amore
per il bene e l’odio per il male, fra l’attaccamento al piacere e il rifiuto
del dolore, fra l’aggredire o difesa dal nemico e l’affettività ed amore per
l’amico, nell’amore alla vita e nel rifiuto della morte.
Esse hanno una base biologica e sono entrambe
necessarie ed indispensabili per la conservazione, la difesa e l’espansione
della vita del soggetto. Invece l’istinto o l’impulso alla distruzione e alla
violenza, che nasce dall’odio o da un’ira irragionevole, è chiaramente una
corruzione della naturale aggressività e della giusta severità. Esiste un
giusto odio, una giusta ira, una giusta vendetta, una giusta punizione, una
giusta coercizione, una giusta guerra. Nel campo della severità occorre distinguere il giusto dall’ingiusto.
Non è detto che il far soffrire l’altro sia sempre peccato o crudeltà, se ciò serve
per farlo riflettere e correggersi, facendo penitenza.
E non è detto che il togliere o il risparmiare
all’altro la sofferenza sia sempre misericordia, se ciò lo lascia in balia delle
sue passioni e dei suoi egoismi e lo porta a non dare importanza al peccato. La
vera misericordia non dà mai spazio all’ingiustizia personale o sociale, né
coonesta l’oppressione dei violenti nei confronti dei deboli e degli indifesi, per
lasciare magari il criminale a piede libero.
Misericordia e severità, sono sì opposte fra
loro, perché la misericordia toglie la pena, mentre la severità la infligge; ma
non si capisce l’una se non si parla dell’altra, perché nella condotta morale
occorre saper usare ora l’una ora l’altra a seconda delle circostanze e delle
necessità. Invece si ha l’impressione che il Papa parli di un Dio sempre
misericordioso, che in realtà non esiste.
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