Dio in sé e
Dio per me
Prima che nascessero i monti
e
la terra e il mondo fossero generati,
da sempre e per sempre Tu Sei, Dio.
Sal 90, 2
Qual
è il vero assoluto?
Riguardo al concetto di Dio gioca il binomio
relativo-assoluto. Il relativo è per essenza relativo a un assoluto. Invece l’assoluto
non è relativo a nulla; può stare o esistere anche da sé senza un altro, ossia
un relativo che gli sia relativo. Con Hegel, invece, nasce la relatività reciproca:
il mondo è relativo a Dio; ma anche Dio è relativo al mondo. Per Hegel l’assoluto
è relativo all’altro da sè, che è a sua volta assoluto per lui. E viceversa.
Quindi, per Hegel il mondo non può stare senza
Dio; ma anche Dio non può stare senza il mondo. Il mondo è orientato a Dio e Dio
è orientato al mondo. Dio è per essenza nel mondo (immanentismo) e il mondo è
per essenza in Dio (buonismo).
Dio non è al di sopra del mondo; non è
trascendente; non vale più del mondo; ma Dio e mondo sono alla pari (univocità
dell’essere), sono allo stesso livello ontologico e si collegano, si intrecciano
o influenzano dialetticamente tra di loro per formare, secondo Hegel, quella che
è la vera somma Unità e Totalità: il Dio-mondo, sintesi di essere e divenire,
di uno e di molti.
Eppure sorgono alcune la domande: io sono
relativo a Dio o Dio è relativo a me? Dio è per essenza un Dio che potrebbe fare
a meno di me o è per essenza un Dio per me? È un Dio che pone me o sono io che
pongo Lui? Qui sta il problema della teologia di Fichte. E ancora: è un Dio per me o anche un Dio secondo me? Esiste un concetto oggettivo
ed universale di Dio? Dio è essenzialmente un Dio fatto uomo o poteva anche non
incarnarsi? Se avesse voluto, poteva non creare il mondo e restare solo?
Queste domande sorgono alla lettura di Hegel.
Ma dov’è l’errore di fondo di questa teologia? È l’assurdità di concepire due assoluti,
due «padroni» e di volerli servire entrambi, perché l’un padrone è al servizio
dell’altro. E nel contempo l’uno comanda sull’altro, scambiandosi i ruoli. I
due poli, quindi, si attraggono e si respingono simultaneamente. Per questo la dialettica
hegeliana è un moto che non hai mai pace, ma comporta la continua oscillazione tra
i due poli opposti, perché non è un passaggio dalla potenza all’atto, ossia un
moto di perfezionamento, ma è un moto conflittuale, per cui nel momento in cui un
polo aggredisce il polo opposto, questo lo respinge e lo rinvia al punto di partenza;
e il moto ricomincia continuando così all’infinito.
È falso credere che la dialettica hegeliana sia
promotrice di progresso, perché il vero progresso rafforza e sviluppa un valore
assodato, indiscusso e immutabile e non
lo mette in crisi, né addirittura lo nega. Ma nel vero progresso il nuovo, come
ha insegnato Papa Benedetto proprio in relazione alla riforma conciliare, è in
continuità e non in rottura con l’antico, da conservare con cura e fedeltà.
È chiaro che qui siamo davanti a una
concezione falsa dell’assoluto, che non può essere doppio, ma dev’essere uno
solo. Ab-solutus vuol dire
«sciolto-da», «libero-d», «indipendente-da». L’assoluto non può aver bisogno di
un altro da sé o rimandare ad un altro da sé per essere completato, ma è
perfetto e completo da sè ed autosufficiente. Non ha un fine fuori di sé, ma è
fine a se stesso e tutto il resto è finalizzato a Lui. Questo è il vero
assoluto, questo è il vero Dio.
Eppure, tutte le suddette domande hanno cominciato
a farsi sempre più impellenti a partire da due famosi personaggi: Lutero e
Cartesio, i quali, avendo posto il loro io come assoluto criterio di verità e
volendo tuttavia continuare a credere in Dio, hanno modificato il concetto di
Dio, in modo da concepire un Dio non come ente supremo, sommo bene e fine
ultimo, al quale obbedire, da servire e da onorare, ma come garante e fornitore
della nostra salvezza, del nostro potere e della nostra felicità.
In questa visuale soteriologistica, attributo
divino sommo ed essenziale non è quindi l’infinita bontà divina, ma la
misericordia, che suppone evidentemente l’esistenza del mondo, per cui, se il mondo
non esistesse, Dio non avrebbe modo di applicare a nessuno la sua misericordia,
e quindi non sarebbe più Dio.
Con l’accentuarsi successivo di questa
concezione di Dio, si continua a credere in un Dio che salva; ma nel contempo l’uomo
non riconosce più come Dio se non un Dio che si occupi di lui, come se l’uomo
fosse lo scopo di Dio, come se Dio avesse un fine creato, l’uomo, un fine che
non sia Egli stesso. Dio si sdoppia: rimane il Dio creatore e signore
dell’uomo; ma questo Dio adesso è affiancato da un altro dio, che è l’uomo, al
quale il primo Dio deve servire, se vuol esser riconosciuto come Dio.
Un Dio
funzionale alla ragione umana
È questo il Dio di Kant e della massoneria.
Ma questo Dio non avrà lunga vita. Dopo il compromesso hegeliano dell’uomo
mutato in Dio e del Dio mutato in uomo, falsificazione panteista del mistero
dell’incarnazione, il secondo Dio, l’uomo, rivendicherà il diritto di essere
l’unico Dio, per cui, con Feuerbach, Marx, Comte, Nietzsche e Freud, espungerà
il primo Dio dall’orizzonte dell’essere.
Ma fermiamoci un momento a Kant. Egli parla
bensì di religione, anzi vi ha dedicato addirittura un trattato[1].
Ma appare chiaro che Kant non sa che cosa è veramente la religione, perché la
confonde con la morale:
«La
religione, considerata soggettivamente, è la conoscenza di tutti i nostri
doveri come comandamenti divini»[2],
precisando poi ulteriormente che noi non abbiamo
propriamente doveri verso Dio[3],
ma solo verso il prossimo, dettati dalla ragione. È uno sviluppo razionalistico
della concezione luterana della carità, per la quale non esiste una carità
verso Dio, ma solo verso il prossimo.
In realtà la religione è distinta dalla
morale e soprattutto dalla morale kantiana, per la quale la legge morale non si
fonda su di una partecipazione della Ragione eterna, ma sulla volontà della
ragion pratica. Kant non comprende che il comando divino non è una
rappresentazione antropomorfica del comando della ragione, ma è la volontà di
Dio che comanda alla ragione; e l’atto di obbedire a Dio proprio della morale o
di render culto a Dio, proprio della religione, non suppone affatto, come teme
Kant, la pretesa di dare qualcosa a Dio o di «agire su di Lui o per Lui»[4].
Ma si tratta invece di dedicarci a Lui nel
culto divino, di ascoltare la sua parola e di lasciarlo agire su di noi con i
doni della sua grazia, perfezionando noi stessi col mettere in pratica i suoi
comandi. In Kant non si dà un vero e proprio concreto ed esistenziale rapporto dell’uomo
con Dio, ma tutto e Dio stesso avviene solo nella ragione, anche se ovviamente
essa con la volontà produce gli atti
esterni. Tuttavia, si tratta di idee, intenzioni e volizioni, che, nati dalla ragione,
si muovono nella ragione e terminano nella ragione, al servizio della ragione.
Kant recupera certamente l’aspetto operoso e razionale
dell’etica e rivaluta la religione contro Lutero; ma resta l’idea luterana del
Dio-per-me, la quale perde i suoi connotati biblici personalistici, e non è
più, come era ancora per Lutero, un Tu assoluto davanti a me, il Quale mi
parla, mentre io Gli parlo. Tutto ciò per Kant è illusione, mentre posso esser
certo che, come egli dice[5],
«un Essere
supremo come causa suprema, è semplicemente relativa, pensata in servizio
dell’unità sistematica del mondo sensibile e qualche cosa di semplicemente
ideale, di cui, per quel che sia in sé, non abbiamo nessun concetto». «Posso
ammettere un tale Essere inconcepibile, oggetto di una semplice idea, relativamente
al mondo sensibile, benché non in se stesso. Infatti, se a base del massimo uso
empirico possibile della mia ragione c’è un’idea della completa unità
sistematica, la quale in se stessa non può essere mai mostrata adeguatamente nell’esperienza,
sebbene sia impreteribilmente necessaria per raccostare l’unità empirica al più
alto grado possibile, io non sono soltanto in diritto, ma nella necessità di
realizzare questa idea, cioè di assegnarle un oggetto reale, ma solo come
qualcosa in generale, che io stesso non conosco punto, ma al quale, come
principio di quella unità sistematica e in rapporto a questa, do proprietà
analoghe a quelle che do ai concetti dell’intelletto nell’uso empirico. Io,
dunque, per analogia alle realtà del mondo, alle sostanze, alla causalità e
alla necessità, concepirò un Essere che possiede tutto ciò nella più alta perfezione;
e in quanto questa idea poggia semplicemente sulla mia ragione, potrò concepire
questo Essere come Ragione indipendente, che, mediante idee della massima
armonia è causa dell’universo»[6].
Dio, dunque, pertanto, non è un Essere reale,
ma un’idea o, come si esprime Kant con un termine scolastico, un «ente di
ragione», costruito quindi dalla ragione ed immanente alla ragione, anche se
viene pensato come tale per dare a se stessa il principio della sua massima
unità sistematica nella conoscenza del mondo sensibile. È un Dio al servizio
della ragione, mezzo e strumento dell’autoaffermazione della ragione. Dio è il
garante della verità e della bontà della ragione, così come il Dio luterano
garantisce la salvezza del credente della «sola fide».
Abbiamo
dunque un concetto di Dio, che si occupa dell’uomo, il quale non corrisponde
alla verità della divina provvidenza e misericordia. Ed è quell’idea che
concepisce l’io, il soggetto umano, la ragione o l’autocoscienza come un
assoluto che per realizzarsi o per organizzarsi o per funzionare o per esplicarsi necessita di opportuni mezzi
o strumenti che egli stesso pone e che consentano di soddisfare a queste sue
esigenze. Tra questi mezzi c’è Dio stesso.
In questa visuale Dio è concepito come se
fosse realmente esistente, una realtà in sè, indipendente dall’io, creatore
dell’io, fine ultimo dell’io; come fosse l’assoluto, ossia il primo e sommo
ente e la causa prima. Ma in realtà ciò che esiste assolutamente sono l’io o la
ragione o il soggetto umano o l’autocoscienza.
E Dio, come abbiamo visto in Kant, diventa un’idea,
un ente di ragione, un simbolo che rappresenta l’unità sistematica della
ragione, posto dalla ragione o dalla fede, ente di ragione concepito come se
fosse ente reale, concepito per analogia con l’idea di causa o sostanza, come garante
assoluto della certezza dell’io, del suo pensare e del suo agire.
Ma non si
può servire a due padroni
Tuttavia, con Dio non si può fare il doppio
gioco. Non posso ad un tempo credere in Dio e credere in me stesso come fossi
Dio. Non posso, come fa Enzo Bianchi, trovare le vie di Dio partendo ad un
tempo dal Vangelo e dal mondo, come fossero sorgenti paritarie di verità.
Certo, il mondo ha una sua verità, è stato creato da Dio; tuttavia in esso la
verità è inquinata dall’errore; il mondo è dominato dal principe di questo
mondo.
Bisogna servire Cristo e il Vangelo al di
sopra di questo mondo, che va giudicato alla luce del Vangelo. Occorre saper
riconoscere le insidie e i pericoli del mondo alla luce del Vangelo e saper
rinunciare a certi allettamenti del mondo per seguire il Vangelo. Le verità del
mondo, scoperte dalla ragione e proprie della coscienza morale naturale, per
quanto stimabili, non devono competere o mescolarsi con quelle della fede,
tratte dal Vangelo; ma devono preparare le vie del Vangelo ed essere utilizzate
per interpretarlo e farlo mettere in pratica.
La vera fede in Dio evita questa doppiezza,
che peraltro costituisce un equilibrio instabile, forzato e precario, che può
portare fino alla pazzia, perché la coscienza è
continuamente e volontariamente lacerata tra due opposti assoluti: Dio e il
proprio io. È vero che, finchè siamo in questa vita mortale, sempre avvertiamo
la tentazione dell’ateismo e dell’empietà; ed è per questo che anche i santi
commettono spesso almeno peccati veniali.
Gesù stesso ci avverte che non è possibile
servire a due padroni. La cosa non può durare a lungo. O ci si decide
sinceramente per Dio o Lo si respinge apertamente. O per lo meno Gesù ci vuole
avvertire della patente contraddizione. Ci sono però degli spiriti doppi, di
«lingua doppia» (Sir 28,13), che della contraddizione e dell’incoerenza, magari
con untuoso contegno, fanno il loro
sistema di vita.
Tuttavia, si deve dire con assoluta certezza
che ogni uomo, se vuole, può vincere
questa doppiezza farisaica, può sostanzialmente attuare con umiltà, coraggio e
lealtà, una sincera, serena e perseverante fedeltà a Dio, sia pur tra alti e
bassi, nella crescita della carità e di tutte le virtù e in una costante
vittoriosa lotta quotidiana contro le tentazioni e contro Satana, e nella certa
speranza della vittoria finale, pregustata da già fin da ora nelle primizie
della futura resurrezione.
Dio ci
promette la salvezza se osserviamo i comandamenti
Non si tratta della presuntuosa certezza
luterana di essere sempre e comunque perdonati dalla misericordia di Dio, quasi
a ritenersi dei predestinati; chè invece ogni giorno dobbiamo curare la nostra salvezza
«con timore e tremore» (Fil 2,12), sapendo, come dice S.Agostino, che «chi ti
ha creato senza di te, non ti salva senza di te».
È chiaro che è Dio il nostro salvatore e che non
ci salviamo da soli. Ma Lutero intende la misericordia divina come il fatto che
Dio lo accetta così com’è, con tutti i suoi peccati, da Lutero considerati
invincibili ed inevitabili. Per cui Dio fa finta di non vederli
(«giustificazione forense»), mentre Lutero si ritenne dispensato dal compimento
dello sforzo ascetico, da lui giudicato inutile e dannoso; e da qui il suo rifiuto
dei voti monastici.
Si vede allora come Lutero non è centrato su
Dio, ma su se stesso, sulla propria «salvezza». Non diciamo che il problema della
propria salvezza non sia importante. Anzi, questo forte bisogno di essere salvo
e di sentire un Dio misericordioso è senza dubbio segno in Lutero di un animo profondamente religioso.
Tuttavia, per suo stesso riconoscimento, Dio
non lo interessa affatto in Se stesso e per Se stesso, per contemplare il mistero
trinitario. Non sente il bisogno di un Dio amabile, ma di un Dio utile ed utile a lui. Non dice col
Salmista: «Una cosa ho chiesto al Signore; questa solo io cerco: abitare nella casa
del Signore tutti giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore ed
ammirare il suo santuario» (Sal 27,4). Tutto, per Lutero, passa in seconda linea.
Una cosa sola lo interessa. Egli è certo di salvasi, non in forza delle buone
opere, ma solo, come egli dice, «per fede», perché, a suo dire, Dio stesso glielo
ha promesso; e Dio non può mancare alle sue promesse.
D’accordo, ma Lutero dimentica due cose: prima,
che l’arcano mistero della predestinazione degli eletti, cioè il sapere chi
sarà eletto e chi non lo sarà, non è assolutamente alla nostra portata, e quindi
non è per nulla un dato di fede, ma, come
insegna il Concilio di Trento[7]
è un sapere riservato solo a Dio. Immaginiamoci se io dovessi sapere fin da adesso
che non mi salverò, che cosa diventerebbe la mia vita? Ma anche il sapere che mi
salverò sarebbe pericolosissimo, perché mi sentirei autorizzato a compiere tutti
i peccati che mi piacciono, dicendo a me stesso: tanto mi salvo lo stesso.
E seconda cosa, che l’adempimento delle
promesse di Dio non è incondizionato, ma è condizionato al fatto che osserviamo
i comandamenti. La grazia è sì gratuita. Ma se non vi corrispondiamo con i
meriti delle opere buone, non serve a nulla.
Dunque un Dio funzionale all’uomo, ma non solo
all’uomo: funzionale a Lutero. Non neghiamo
certo che Dio, nella sua bontà e misericordia, si renda utile a tutti, ma non sta
a noi determinare tale utilità in base ad una nostra autoreferenzialità o un ripiegamento
su noi stessi, ma Dio ci sarà veramente utile, soltanto sulla base del
presupposto che noi abbiamo precedentemente accettato e messo in atto le
condizioni da Lui poste, che rendono operante la detta utilità.
«Il Figlio
dell’uomo è venuto per servire» (Mt 20,28)
In sostanza e in ultima analisi, Dio ci serve
sì, ma affinchè noi serviamo Lui. Non è come il barista che ci porta la
Coca-Cola al tavolino o dove siamo comodamente seduti e tutto finisce lì. Non è
che dopo aver ricevuto il servizio noi contempliamo il barista. Ma è quel Dio
che Si umilia fino a morire sulla Croce, perchè noi abbiamo l’umiltà e la
grandezza d’animo di desiderare Lui al di sopra di ogni cosa e della nostra
stessa vita.
Invece nel caso del fine ultimo dell’uomo, la
beatitudine non sta nel concentrare l’attenzione su ciò che Dio fa per noi, ma
bensì su Dio in se stesso, così come è logico che un bene infinito, quale è Dio,
ci interessi immensamente di più di un bene finito quale siamo noi. In special
modo, come ci insegna la Chiesa, la nostra eterna beatitudine celeste consiste
nella «visione intuitiva ed immediata dell’essenza divina, senza la mediazione di
alcuna creatura»[8].
Naturalmente si tratta dell’essenza divina trinitaria.
In Es 3,14 Dio rivela il suo Nome Jahvè (eb. Ehièh escer ehièh) corrispondente all’«Io Sono» (Egò èimi), che ricorre più volte sulle
labbra di Cristo. Solo S.Tommaso ha interpreto correttamente questo nome
misterioso con la famosa espressione Ipsum
Esse per Se subsistens. Altri vanamente hanno tentato di aggiungere un riferimento
all’uomo, come per esempio: «Io sono con voi». Sbagliato. La beatitudine sta
nella contemplazione dell’ipsum Esse. È
contemplando amorosamente Dio fin da ora in stato di grazia, illuminati dalla
fede adesso e poi dalla visione in cielo, che noi, come dice S.Giovanni, potremo
raggiungere la pienezza della nostra figliolanza divina, che già adesso
possediamo, e della nostra somiglianza con Lui, «perché Lo vedremo come Egli È»
(I G 3,2).
Il desiderio della salvezza, quindi, non può
essere autentico, se non sottende almeno implicitamente il desiderio della
visione beatifica, che colma sovrabbondantemente il desiderio naturale
dell’uomo di conoscere l’essenza di Dio, causa prima e fine ultimo
dell’universo. Salvarsi dunque non vuol dire ridurre Dio alle nostre misure
umane ed ai nostri interessi umani, ma allargare il nostro cuore ed elevare la nostra
mente fino a Lui, obbedendo alla sua volontà nella ricerca della santità.
P.Giovanni Cavalcoli
Varazze, 28 marzo 2019
Pubblicato il 07.04.2019 da:
[1] La religione entro i limiti della sola ragione, Editori Laterza,
Bari 1985, quasicchè uscire da quei limiti non possa essere trascenderli per
attingere a una realtà sovrarazionale e soprannaturale, ma sia follia e
superstizione. Dove si vede che la ragione umana crede di occupare tutto lo
spazio della verità e quindi erige se stessa ad assoluto. Kant lo dice apertis verbis: la ragione non cerca una
realtà che la
trascende e non si eleva ad essa, perché,
secondo lui questa realtà, che poi sarebbe Dio, non è concettualizzabile, ma la
ragione «non si occupa d’altro che di se stessa» (Critica
della ragion pura, Editori Laterza,Bari 1965, p.538). Dio, quindi, è funzionale alla ragione.
[2] Ibid., p.168.
[3] Ibid., nota.
[4] La religione, op.cit., p.168.
[5] Critica della ragion pura, op.cit., p.537.
[6] Ibid., p.536.
[7] Denz.1540.
[8] Denz.1000. Cf Andrea Vaccaro Il dogma del paradiso, Lateran
University Press, Roma 2005.
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