Riflessioni sulla nozione di creazione


Riflessioni sulla nozione di creazione

La nozione della creazione è stata preparata da Platone ed Aristotele

La dottrina secondo la quale il mondo è stato creato da Dio dal nulla (ex o de nihilo) è di fatto una dottrina rivelata dalla Sacra Scrittura (Gn 1,1), ma di per sé è dimostrabile razionalmente, anche se di fatto neanche i più grandi filosofi pagani, come Aristotele e Platone, sono riusciti a dimostrarla, ed anzi non si sono neppure posti la questione, la quale suona così: come fa il mondo ad esistere, se di per sé potrebbe non esistere, ossia è contingente? 

Essi infatti non fecero questa considerazione: per loro il mondo, la materia e la forma esistono, sono un dato evidente, scontato ed indubitabile e basta. Non pensarono di porsi il problema del perchè dell’esistenza del mondo. Questo è il sintomo che essi, forse inconsciamente, tendevano a divinizzare il mondo, perché è solo di Dio che non ci domandiamo perché esiste.

Il dogma della creazione garantisce contro il panteismo e suppone la distinzione fra Dio e il mondo. Esso infatti suppone da una parte l’esistenza di Dio e dall’altra l’esistenza del nulla dal quale Dio trae l’essere del mondo. La creazione invece diventa impossibile o inutile, se si concepisce il mondo come eterno e assoluto e Dio come essenzialmente connesso al mondo, sì che Dio non sarebbe concepibile senza il mondo. Quindi in questa visuale il mondo non è creato da Dio dal nulla, ma esiste ab aeterno come attributo di Dio. Ma questo è appunto il panteismo, corrispettivo dell’ateismo. 

La differenza fra i due è data dal fatto che mentre nel panteismo il mondo è Dio e Dio è il mondo, nell’ateismo Dio non esiste perché il mondo sta al posto di Dio. Ma in entrambi i casi è chiaro che abbiamo la divinizzazione o assolutizzazione o eternizzazione del mondo, lo si chiami o no «Dio».

Il dogma della creazione è la risposta al perchè dell’esistenza del mondo. Constatiamo infatti che il mondo è un insieme di enti contingenti, ciascuno dei quali non ha in sé stesso la ragione sufficiente del suo esistere, ossia non esiste necessariamente, non esiste per essenza. Esiste, sì, ma potrebbe non esistere, ha avuto un’origine nel tempo ed è corruttibile. Cioè il mondo è l’effetto di una causa, la quale, per spiegarlo sufficientemente, dev’essere una causa assoluta, ossia solo e tutta causa e non a sua volta effetto di una causa precedente. Se no, non spiega niente. Non dà sufficiente rendiconto dell’esistenza del mondo. 

A proposto della questione della creazione, dobbiamo fare una premessa metodologica. Quando ci interroghiamo sul perché di qualcosa, dobbiamo fare attenzione a che la domanda sia una domanda saggia e non stolta. È stolto chiedersi il perchè dell’esistenza del necessario o dell’assoluto o di Dio, perché sono enti autofondati, che per loro essenza non hanno bisogno di una spiegazione o di una fondazione. 

Nell’antichità pagana sono altresì esistite concezioni dell’essere che fanno apparire insensato il problema della creazione, e sono il concetto parmenideo dell’essere come essere assoluto e il concetto eracliteo come divenire. È chiaro che se l’essere è di per sé assoluto, e non esistono enti contingenti e divenienti, non ha senso chiedersi perchè esiste l’assoluto e non ha senso chiedersi il perché dell’esistenza di enti che non esistono. 

E d’altra parta, se tutto diviene e non esiste un ente immutabile, che spieghi il perché dell’esistenza del divenire e del diveniente, tutto è senza causa e crolla nel nulla e nell’assurdo, mentre in realtà i divenienti esistono. Dunque aveva ragione Aristotele nell’obiettare ad Eraclito, che se non ci fosse l’immutabile, non ci sarebbe neppure il mutevole. 

È impressionante inoltre lo smarrimento intellettuale, che Kant dimostra nel chiedersi stoltamente «da dove viene» l’Ente assoluto, come a chiedersi perchè Dio esiste. Dice egli infatti: «non si può evitare, ma non si può nemmeno sostenere il pensiero che un Essere, che ci rappresentiamo come il sommo fra tutti i possibili» - dunque si tratta di Dio! - «dica quasi a sé stesso: Io sono ab aeterno in eterno; oltre a me non c’è nulla, tranne quello che è per volontà mia:» - dunque si tratta del creato! - «ma donde son io dunque?»[1].

Per la verità, come è noto, Kant ammette una prova morale dell’esistenza di Dio, che assicura dopo la morte il compenso alla virtù. Tuttavia, come è altrettanto noto, egli non riesce ad applicare il principio di causalità in metafisica, sicché non arriva a dimostrare che Dio è il creatore del mondo. Cosicché Kant ritorna miseramente alla concezione pagana del mondo, come ab aeterno increato, quando già i pagani Aristotele e Platone avevano dimostrato l’esistenza di un sommo bene e di un motore immobile.

Segno di saggezza è invece l’accorgersi di ciò che ha bisogno di essere spiegato e di ciò che non ne ha bisogno. I pagani non si accorgevano che l’esistenza del mondo non giustifica se stessa, ma ha bisogno di essere spiegata, ha bisogno di una causa o di un fondamento ontologico. E per questo divinizzavano il mondo e non sono giunti al concetto della creazione, perché l’essere creato è la risposta al perchè dell’esistenza dell’ente contingente, generabile e corruttibile. 

Ci sono invece domande sul perchè che sembrano profonde e intelligenti e invece sono inutili, stolte e insensate. Una di queste, a proposito dell’esistenza, è famosa: perché c’è l’essere e non il nulla

La stoltezza di simile domanda appare subito evidente, solo che riflettiamo al fatto che l’essere come tale abbraccia l’assoluto e il relativo, il necessario e il contingente, il causato e l’incausato, per cui non si può sottoporre a domanda sul perchè dell’essere come tale, che abbraccia in sé stesso sia ciò che dev’essere spiegato, sia ciò che non ne ha bisogno. Ma occorre secernere dall’essere l’essere contingente o relativo, focalizzare questo e lasciar stare l’essere necessario o assoluto (Dio). Vogliamo chiederci perché esiste Dio?

Questa domanda, dunque, in quanto insensata, non può avere nessuna risposta, e vana pertanto è la risposta avanzata da alcuni, secondo i quali la risposta sarebbe l’«amore» col quale Dio ha creato il mondo. Senonchè la domanda non è domanda sul perché Dio ha creato, ma sul perchè esiste l’essere. 

Siccome, però, come ho detto, è male impostata, essa non ci conduce affatto alla scoperta di Dio creatore e non ci porta a capire il fatto che Dio ha creato per amore, per quanto ciò sia verissimo, ma ci pone davanti ad una falsa alternativa – o l’essere o il nulla -, che non ha nessun significato, perché il fatto dell’esistenza dell’essere, implica l’esistenza dell’essere divino, circa il quale non possiamo chiederci perchè esista Lui e non piuttosto il nulla, perché il solo porre un’alternativa del genere sarebbe l’ipotesi di un nichilismo demenziale e un’orrenda bestemmia contro Dio.

Intelligente, invece, opportuna e necessaria è la domanda sul perchè dell’essere contingente, quell’essere che c’è, ma potrebbe non esserci, quell’essere che adesso c’è, ma prima non era e domani non sarà, come sono gli enti del mondo, me compreso. È questa la domanda, la cui risposta è Dio creatore.

Domanda intelligente è allora il chiedersi il perchè di ciò che è causato o contingente (esse ab alio). Questo sì che ha bisogno di essere spiegato, perché non si spiega o non si giustifica da sé stesso, ma ha bisogno di un altro (esse a se), che esista da sé ed assolutamente, che ne spieghi l’esistenza. 

La dottrina della creazione è la risposta alla domanda sul perché dell’esistenza del mondo nel quale viviamo, ossia degli enti contingenti. Vediamo allora brevemente adesso la posizione metafisica dei pagani. 

Platone

Platone si accorse che il mondo è stato plasmato secondo un progetto ideale, per cui pose l’esistenza del famoso Demiurgo, una divinità intermedia fra le Idee divine che circondano il sommo Bene e la materia del mondo. Perché questa divinità intermedia? Perché Platone vedeva nella materia una forza ostile allo spirito e al bene e quindi al mondo delle idee ed alla suprema Idea del Bene. Inoltre Platone, come tutto il mondo pagano antico, non si chiedeva il perché dell’esistenza della materia e del mondo. L’unico problema da risolvere era quindi come può un mondo sensibile di per sé contrario all’intelletto e allo spirito, possedere una partecipazione al mondo delle idee, del bene e dello spirito. 

Gli parve allora che la soluzione stesse nel porre l’esistenza del Demiurgo, il quale, guardando alle Idee come a modelli di perfezione e di bellezza, dà forma alla materia, così che questi prodotti da lui elaborati, che sono le cose sensibili, possano imitare, seppur imperfettamente l’essere, la verità, la bellezza e la bontà del mondo ideale celeste o «iperuranio». 

Platone, dunque, ha capito che le cose del mondo, compreso il corpo umano, sono l’effetto di una divina causa efficiente, ma limitò questo effetto alla sola opera formatrice e plasmatrice di una materia eterna preesistente, indipendente dal Demiurgo e dallo stesso sommo Bene.  In Platone, quindi, come in tutto il mondo pagano antico, non c’è il concetto di un nulla, dal quale possano essere tratte da Dio le cose, perché il mondo esiste da sempre.

Quanto all’anima umana, per Platone non è creata dal nulla, ma esiste ab aeterno nell’iperuranio a contemplarle le idee. Egli però ritiene che le anime siano cadute nella materia per una colpa originaria. Qui vengono castigate nelle tenebre, schiave della materia e delle passioni. Tuttavia esse possono ricordare la felicità passata, liberarsi con l’ascetica dai legami col corpo mediante la morte e risalire a quel cielo dal quale sono cadute.  Con la morte non salgono là dove prima non erano mai state, ma tornano là da dove sono venute. Ecco perché è brutta l’abitudine diffusasi in questi ultimi anni di buonismo di designare la morte come un «tornare alla casa del Padre». 

Aristotele

Il contributo di Aristotele ha elaborato una fondamentale dottrina delle cause: materiale, formale, efficiente e finale, le quali si aggiungevano alla dottrina platonica della causa esemplare o ideale. Egli si è avvicinato al problema dell’esistenza del mondo, ma si è fermato alla questione della causa del suo divenire, elaborando la dottrina della generazione, della corruzione, dell’alterazione, della trasformazione e del moto. 

La sua causa prima, quindi, è il famoso motore immobile, motore che muove tutte le cose, ne causa il moto, il divenire e il mutamento nel tempo, pur senza essere mosso da altro; è già il concetto di Dio, solo che manca il potere creatore, ossia quello che spiega come le cose passano dal non-essere all’essere. Non è un Dio che fa passare le cose dal non-essere all’essere o che attualizza il possibile. Non è un Dio creatore. 

Aristotele ha il merito d’aver scelto, per la questione dell’origine del mondo, le due causalità più adatte e cioè la causa efficiente o produttiva e la causa finale. Soprattutto è importante la prima, perché è quella che maggiormente porta a impostare il problema della creazione, con l’interrogarsi sull’origine dell’atto d’essere delle cose. Il concetto di creazione nasce quando ci poniamo in maniera radicale la questione del perchè dell’esistenza del mondo, anche se, come abbiamo visto, Aristotele si ferma alla questione del divenire e non mette in discussione l’essere delle cose. Ma imbocca la strada giusta, al termine della quale c’è la nozione biblica della creazione. C’era solo da concepire la causalità nel senso radicale, come causa efficiente produttiva dell’essere dal nulla.

Per Aristotele sembra che l’anima umana abbia un’origine solo biologica. Egli riconosce come Platone il primato dello spirito sulla materia, ma respinge la tesi della materia come nemica dello spirito e rifiuta la dottrina platonica della preesistenza dell’anima nell’iperuranio e con essa respinge, come si sa, la dottrina platonica delle idee. Manca con ciò la dottrina della caduta originaria. Il peccato dipende solo dal fatto che il soggetto non cerca la virtù. Non è chiaro se ammette l’immortalità dell’anima. San Tommaso, con la sua benevolenza, glie l’attribuisce.

La dottrina della creazione è una radicalizzazione della dottrina aristotelica dell’agente che fa passare l’ente dalla potenza all’atto. La radicalizzazione consiste nel fatto che l’agente, ossia Dio, fa passare l’ente dalla possibilità di essere all’essere attuale. Aristotele conosce l’essere possibile, ma per lui realizzabile solo in un soggetto reale preesistente. Non contempla la possibilità di un agente, come Dio, che lo realizzi nella sua totalità.

Aristotele distingue l’essenza (usìa) dall’essere (einai), ma non vede nell’einai l’atto dell’essenza. Questa sarà la scoperta di San Tommaso, che avrà il colpo di genio di applicare al rapporto essentia-esse il rapporto aristotelico potenza-atto, che Aristotele limita al rapporto materia-forma. Sarà pertanto Tommaso ad accorgersi che l’esse nella creatura non è essenziale alla creatura stessa, da cui la conclusione che la creatura riceve l’essere dall’ipsum Esse, cioè è creata da Dio.

Aristotele si avvicina moltissimo all’idea del Dio creatore, quando lo concepisce come Pensiero sussistente (Noesis Noèseos). Bastava che da ciò deducesse che Dio è Essere-Pensiero sussistente, ed avrebbe raggiunto l’ipsum Esse di Es 3,14. Da qui avrebbe potuto capire che l’ipsum Esse è la causa, ossia il creatore degli enti mondani, il cui essere, viceversa, non è necessario, ma è aggiunto ed avventizio all’essenza, è aggiunto da Dio affinché possano esistere nella realtà, anche se possono perderlo e quindi hanno bisogno di essere fondati nell’essere e sostenuti da Dio nell’essere. 

Per capire la creazione, occorre avere il concetto metafisico del nulla

Creare dal nulla non deve farci pensare che il nulla sia un qualcosa da cui Dio ricava le cose, perchè questo vorrebbe dire entificare il nulla. Creare una cosa dal nulla significa che per la potenza creatrice di Dio, quella cosa che prima non c’era, adesso c’è. Quando un essere umano viene concepito, Dio crea la sua anima. Il che vuol dire che mentre prima del concepimento quell’anima non esisteva, adesso c’è. In un istante dal non-essere è balzata all’essere. 

Il concetto del nulla necessario per capire che cosa è la creazione «dal nulla», non dev’essere il concetto corrente empirico, noto anche ai pagani, il nulla-di-questa-cosa. Per esempio, io dico: in quella stanza non c’è nulla. Intendo evidentemente riferirmi alle cose che potrebbero esserci o che c’erano o che ci saranno in quella stanza. No. Il concetto del nulla da utilizzare per formare il concetto della creazione, dev’essere ricavato non da cose particolari, ma dal concetto metafisico dell’essere come essere. E poi si tratta di negare questo essere. Da qui si ricava il concetto metafisico del nulla, senza il quale è impossibile sapere che cosa è la creazione.

Il concetto del nulla come non-essere è dunque connesso col concetto della creazione. Per questo, chi non ha il concetto della creazione, come sono stati i pagani, non può avere il concetto del nulla nella radicalità richiesta dalla nozione della concezione. Infatti per il pagano, certamente, può non esistere quel dato uomo o quella data cosa, ma restano sempre ab aeterno ed immortali, la sostanza, la materia e la forma del mondo. Il pagano non saprebbe concepire che il mondo possa non esistere.

L’esser creato è un passaggio istantaneo dal nulla all’essere, non comporta divenire, perché tra il non essere e l’essere non c’è un divenire ma uno stacco netto, un’opposizione per contraddizione: una cosa o c’è o non c’è. Non esistono vie di mezzo o stadi intermedi, così come dalla notte gradualmente sorge il giorno. Si può fare piuttosto il paragone con quando accendiamo la luce in una stanza: il passaggio dal buio alla luce è istantaneo. 

Il divenire avviene in un soggetto, ma nella creazione non c’è un soggetto che acquisti qualcosa, ma semplicemente il soggetto prima di essere creato non c’è. Ecco perché la filosofia parla di creatio ex nihilo sui et subiecti. Prima dell’atto creativo non c’è nulla, né del qualcosa di nuovo (sui) nel soggetto, né del soggetto che ha quel qualcosa di nuovo (subiecti).

Errori circa la nozione della creazione

Esistono molte idee insufficienti circa la natura della creazione. Per esempio, emanare da sé non è creare, il dar forma non è ancora il creare, l’incarnare un’idea nella materia non è ancora creare, l’applicazione di un modello non è ancora il creare, il metter ordine nel caos non è ancora creare, l’unificare il molteplice non è ancora il creare, la sublimazione della materia non è ancora il creare, l’indirizzare al fine non è ancora il creare, il far dipendere non è ancora il creare, il dar fondamento non è ancora il creare, lo scioglimento della contraddizione non è ancora il creare.

Alcuni confondono il creare con un semplice dare origine. È la teologia pagana. Si ammette l’esistenza di un dio, il quale però non crea nulla, ma semplicemente è il mitico fondatore di una religione o di una città o di un popolo o di una stirpe, o l’inventore di un’arte o di una scienza o di una morale. Non dà origine all’essere del mondo, ma semplicemente sulla base di un fondamento mondano preesistente, fa sgorgare o scaturire da esso dati valori o una data attività o produzione.

C’è poi la dottrina emanazionista di Plotino e dell’induismo: Dio è come il sole, che manda i suoi raggi. Noi non diciamo infatti che il sole crea i raggi dal nulla. Ma i raggi provengono dal sole, sono emanazione o irradiazioni solari generate dal sole, quindi, della stessa sostanza del sole. Inoltre, il sole non manda i suoi raggi per libera scelta, ma per necessità di natura. Invece Dio crea per libera scelta e potrebbe anche non creare questo o quello.

Invece il creato, nel vero concetto della creazione, non è della stessa sostanza divina, la quale, nella sua assoluta semplicità, è impartecipabile, e non è neppure una partecipazione di detta sostanza, la quale viceversa è ontologicamente infinitamente al di sopra della finitezza dell’ente creato, che non è puro essere, ma ha un essere che confina col nulla, e che può sempre perdere cadendo nel nulla.

Alcuni filosofi, come Hegel e Bontadini, interpretano la creazione come processo dialettico della soluzione della contraddizione ontologica. La categoria qui utilizzata non è quella della causa efficiente, ma della negazione dell’essere, che non è il semplice nulla, il semplice non-essere, ma è non-essere antitetico all’essere. 

Nel caso di Hegel Dio nega sé stesso come mondo e il mondo, negando sé stesso, torna a Dio. Bontadini invece procede partendo dal mondo, il quale nega sé stesso nel divenire, ma siccome la contraddizione va risolta, allora per impedirla, occorre affermare l’esistenza di Dio, affermata la quale, qui Bontadini si aggancia ad Hegel: Dio nega il mondo in quanto contradditorio e questi, per liberarsi dalla contraddizione, sale a Dio. 

Ora non pare assolutamente conveniente spiegare la creazione come fosse un fatto dialettico. Non si tratta di opporre affermazione a negazione, ma di stare sul piano dell’essere: essere contingente ed essere necessario. Il contingente giustifica la sua esistenza contingente col fatto che il suo essere non è necessario, ossia che è stato creato dal nulla dall’Essere assolutamente necessario.

Altro concetto sbagliato di creazione è il credere che Dio possa creare enti cattivi o difettosi. I manichei, per esempio, credevano che Dio avesse creato il diavolo nella sua malizia o che il creato materiale fosse cosa cattiva, opera di un Dio malvagio. 

Osserviamo che Dio può bensì creare mezzi e strumenti di correzione o di punizione. Non vuole però ma può permettere il male di colpa, per ricavarne un maggior bene e liberare l’uomo in Cristo dalla colpa e dalla sofferenza. Vuole il male di pena per provare, correggere e purificare; ha sì creato l’inferno, ma come carcere per la custodia dei dannati che sono afflitti da una giusta pena.

Altro concetto sbagliato è quello di Mons. Bruno Forte[2], secondo il quale «Dio Padre nell’atto creatore limita Se stesso, affinché le creature possano esistere nella loro alterità e libertà». 

Rispondiamo con due osservazioni: la prima, che Dio infinito non può assolutamente limitare sé stesso, neanche se lo volesse. Infatti l’infinità divina non è un’entità immaginaria, come potrebbe essere un infinito matematico, finitizzabile a nostro piacimento, ma si tratta di un’infinità ontologica, la quale per sua essenza non ammette un passaggio dall’infinito al finito. 

E questo perché si dovrebbe supporre che Dio atto puro di essere cessi di essere tale per diventare atto misto a potenza, il che è lo statuto ontologico dell’ente finito. Ma perché ciò possa avvenire, dovrebbe aggiungere all’atto puro di essere una potenza finita, il che è assurdo, perché l’atto puro d’essere è per definizione esente da potenza.

Seconda osservazione è che la creatura, ammesso e non concesso che Dio possa autolimitarsi, non è una limitazione dell’infinito, ma è un ente finito per sua essenza. E questa finitezza le deriva dal fatto che la sua essenza è distinta dal suo essere, come la potenza è distinta dall’atto, per cui essa può ricevere in essa quel tanto di essere, che corrisponde dalla sua finita capacità

Inoltre, creare non vuol dire semplicemente far dipendere. Io posso far dipendere da me un congegno da me costruito, sicché esso dipende da me. Ma il far dipendere suppone quindi qualcosa di preesistente a colui che vuol farlo dipendere da lui.  Creare, se vogliamo, è un far dipendere, ma di tale potenza che colui da cui dipende il dipendente non ha nulla di presupposto a colui, che lo rende dipendente, ma dipende da lui nella totalità del suo essere.

Altri teologi, come Teilhard de Chardin, intendono la creazione come unificazione del molteplice materiale preesistente, con finalità perfettiva ed evolutiva, fino al raggiungimento del «punto Omega», che sarebbe Gesù Cristo. In Teilhard l’essere sale soltanto, ma non scende; ossia c’è la causa finale, ma non quella efficiente. 

Il Dio di Teilhard de Chardin non è il Dio Spirito Signore e vivificatore della materia, ma è la Materia autoesistente ed eterna, che si autotrascende trasformandosi in Spirito. Non è Cristo il Signore del mondo, ma il «Cristo cosmico», vertice del mondo. Il Padre è un Dio che coesiste con la materia, che egli non crea dal nulla, ma soltanto unifica e fa salire ed evolvere verso il «Pleroma» di Materia-Spirito.

Non è l’atto che attua la potenza, ma è la potenza che si eleva da sé all’atto. In realtà è un’assurdità, perché risulta che il nulla è causa dell’essere.  E così dal meno sorge il più senza una ragione sufficiente, anche se ciò sembrerebbe documentato dall’esperienza. Ma l’esperienza sensibile, seppur scientifica, è racchiusa nell’orizzonte dell’ente sensibile e nulla sa della trascendenza della dello spirito sulla materia, della causa sull’effetto, dell’atto sulla potenza e dell’essere sull’essenza, princìpi necessari per raggiungere la nozione della creazione.

Via sterile e sbagliata per farsi il concetto della creazione è l’uso esclusivo della causa esemplare e della causa formale. Tale uso è certamente in sé stesso da approvarsi, ma dev’essere moderato, e non deve prevalere sulla categoria dell’efficienza, che è quella della sana ragione e della Scrittura. La Bibbia paragona Dio creatore ad un vasaio, che indubbiamente concepisce e progetta un vaso, ma innanzitutto lo fa esistere, il che è l’effetto della sua causalità efficiente. Fermarsi all’idea o alla forma non è ancora attingere l’essere. L’essere è certo idea e forma, ma idea e forma non sono necessariamente essere.

La concezione di Padre Barzaghi

Secondo Padre Barzaghi la creazione è una «relazione fondativa». È evidente qui l’uso della causa formale al posto della causa efficiente, che a Padre Barzaghi pare inadeguata, perché essa comporta una produzione, un far essere, un far passare dal non-essere all’essere e una relazione al tempo, mentre secondo lui la creazione dev’essere spiegata solo sul piano dell’essere eterno ed intemporale e quindi del formale. Egli ricorre allora alla relazione di dipendenza, che non comporta nessun passaggio dal non-essere all’essere, ma solo un ordine interno all’essere, ossia una relazione tra dipendente o fondato e il suo fondamento. 

Non è vero, inoltre, come dice Barzaghi, che tutto ciò che esiste è tutto ciò che può esistere e che tutto va bene così com’è, per cui nel creare il mondo Dio mette in atto tutte possibilità della sua onnipotenza, sicché non potrebbe fare di più di quanto già esiste dall’eternità.  Ciò che esiste, per Barzaghi, è l’attuazione di tutto il possibile. 

Nel mondo, infatti, secondo lui, ogni cosa è necessariamente connessa all’altra, a costituire con tutte le altre presenti, passate e future, un solo ed unico Essere eterno e immutabile, che egli chiama «Intero», per cui tutto ciò che c’è è necessario all’esistenza del Tutto divino. Per questo Barzaghi sostiene che anche se venisse meno una formica, tutto l’universo sparirebbe. Egli invece dovrebbe umilmente e lealmente riconoscere che, se anche lui non esistesse, il mondo potrebbe andare avanti lo stesso, anche se privo di una creatura intellettualmente molto dotata.

Questa posizione di Padre Barzaghi dipende dall’avere egli assunto il concetto severiniano dell’essere ispirato a Parmenide come essere uno, univoco ed eterno, che è Dio stesso. In questa visione, il tempo e il divenire si pongono sul piano dell’apparenza illusoria, per cui non ha più senso parlare di un ente contingente temporale, che diviene, sorge e perisce, un ente che prima non c’era e adesso c’è, prodotto dal nulla nel tempo da Dio. 

Infatti per Barzaghi, che prende a pretesto che il nulla è un non-essere, il nulla non esiste, perché, come negazione dell’essere, è, secondo lui, un concetto contradditorio. Infatti si verrebbe a dire che il nulla è qualcosa.  Ma Barzaghi non tiene conto che quando diamo una definizione dell’essenza del nulla, abbiamo ben in mente qualcosa di intellegibile, un ens rationis, se no, non ne parleremmo e non ci intenderemmo quando parliamo del nulla. Noi concepiamo il nulla come se fosse ente (ad instar entis), sapendo che non è ente. 

Ma purtroppo Barzaghi, a causa del suo idealismo che identifica essere e pensare, da una parte entifica il nulla, ma dall’altra vuol negarne l’esistenza dimenticando che il nulla è un ens rationis, non è ente reale. Così evitiamo di identificare il nulla con l’essere e possiamo ammettere senza contraddizione l’esistenza del nulla, concetto necessario per capire che cosa è la creazione. Se invece il nulla non esistesse, non potremmo neanche capire che cosa è la creazione. Se il nulla non esistesse, saremmo obbligati a concepire l’essere creato non come tratto dal nulla, ma dall’essere divino. 

D’altra parte, nella visione di Severino, fatta propria da Barzaghi, non c’è nulla che prima non c’era e adesso c’è, perché creato dal nulla, ma ciò che adesso c’è, è l’apparire di ciò che c’è già ab aeterno. Barzaghi, quindi, al seguito di Severino, risolve la generazione e la corruzione del diveniente nell’apparire e sparire dell’ente di per sé eterno.

Invece il giusto concetto di creazione deve rifarsi alla nozione tomista di productio totius entis, atto possibile solo all’onnipotenza divina, perché non si tratta semplicemente di far essere una forma in una materia presupposta, ma di far essere la stessa materia. Invece la causa formale si ferma alle sole essenze e trascura il divenire nel tempo, del quale non si può non tener conto per un adeguato concetto della creazione. Solo la categoria della causa efficiente può rendere ragione del passaggio dal nulla all’essere, che è precisamente quanto avviene quando Dio crea.

 Quanto alla causa finale, essa entra in funzione quando ci chiediamo a che cosa tende l’azione, qual è l’ottimo nella scala dei valori, il massimo dei gradi dell’essere, qual è lo scopo dell’esistenza e della vita, qual è il fine dell’universo e dell’uomo, id quo nihil maius cogitari potest. È questa l’impostazione platonica della teologia. Il fine e il bene attirano l’efficiente all’azione. Dio crea il mondo per amore del mondo e per diffondere in esso la sua bontà. Ma questo lo sappiamo quando sappiamo che Dio ha creato il mondo.

Indubbiamente dunque non è possibile questo proiettarsi dell’azione verso il fine, questa tensione verso il bene, se l’intelligenza non ha previamente capito che il mondo tende a Dio, perché Dio è il creatore del mondo, se quindi non ha cominciato col mettere in opera in modo radicale la causa efficiente come causa dell’esistenza del mondo. 

Invece in Platone ed Aristotele, come abbiamo visto, Dio è solo causa del divenire, ma non dell’essere delle cose. La materia e la forma delle cose è presupposta alla mozione, con la quale Dio le muove. Ma non crea la materia e la forma. Né Platone né Aristotele s’interrogano sul perché o sull’origine della materia e della forma. Non ipotizzano per nulla che la materia e la forma potrebbero non esistere. L’eventualità che il mondo potrebbe non esistere a loro non viene assolutamente in mente.

Sì, certamente, per Aristotele e Platone, Dio esiste, pensiero sussistente, primo ente, sommo bene, fine ultimo dell’universo, motore primo di tutte le cose, provvidente, sommamente benefico e desiderabile dall’uomo, luce dell’intelletto umano, ordinatore della vita umana, giusto giudice delle azioni umane, diffusivo di sé. Ma Dio esiste, eterno, da sempre accanto al mondo eterno, sia pure signore del mondo. Il pagano non sa concepire Dio senza il mondo. Per lui sarebbe come concepire un sovrano senza i sudditi. 

Ci sono così teologi come Giovanni Colzani e Jean-Luc Marion, che identificano l’essere con l’amare, per cui sostengono che la migliore definizione di Dio non è l’Esse ipsum, ma la definizione giovannea «Dio è Amore» (I Gv 4,8). In tal modo essi riconducono il creare non alla causa efficiente, ma a quella finale: il bene amato. Non c’è dubbio che Dio crea per finalità d’amore, ma la questione della creazione, prima di sapere perchè Dio crea, è di sapere se Dio crea e cosa vuol dire creare. L’amore di Dio per il mondo suppone evidentemente un mondo che Egli ha già creato. Dunque Dio ama il mondo dopo averlo creato. 

Ma da che cosa dipende originariamente, fondamentalmente e radicalmente in Dio il creare? Dal suo amare o dal suo essere? Questo è il punto da chiarire. Il problema della creazione si pone quando ci chiediamo non perché il mondo è buono e amabile, ma perchè esiste. Che Dio crei con amore e per amore non c’è dubbio. Ma il creare non è un amare: è un produrre, un causare e il causare suppone un essere causante. Il fatto che un ente sia amabile, suppone che questo ente esista. Dunque occorre porre la causa efficiente della esistenza del mondo, causa che non può che essere l’ipsum Esse. Che il mondo sia amabile e che l’ipsum Esse ami il mondo, non fa problema. Ma non è questo il problema della creazione. 

Ora i suddetti teologi non considerano invece che lì Giovanni non vuol dare una definizione dell’essenza di Dio, come invece abbiamo in Es 3,14, ma si riferisce all’opera di Cristo, come spiega subito dopo. Dunque Giovanni evidentemente suppone il mondo già esistente e si riferisce al rapporto di Dio col mondo, rapporto conseguente al fatto che Dio ha creato il mondo. 

Ma la domanda sulla creazione, pur partendo dalla considerazione del rapporto di Dio col mondo, si interroga su chi può essere Colui che dà ragione dell’esistenza del mondo. E la risposta non può essere Dio in quanto buono, ma Dio in quanto Essere, perché è l’Essere incausato che dà ragione dell’essere causato.

Ci sono poi di quelli che rifiutano in ogni modo ed in ogni senso il concetto di creazione. Possiamo ricordare i nichilisti e gli atei. È chiaro che se l’ente non esiste, manca la partenza del problema della creazione. Severino enuncia esattamente gli assiomi dei nichilisti: primo, l’essere è nulla e secondo l’essere viene del nulla e va al nulla. Anche Hegel, che identifica l’essere col non-essere, si può considerare un nichilista, nonostante la sua speculazione sull’Assoluto.

Nel nichilismo l’essere ha origine o deriva dal nulla. Di per sé il principio non è del tutto sbagliato; infatti questo vale in certo modo anche per la dottrina della creazione, con la differenza che mentre nel nichilismo è l’essere come tale che deriva dal nulla, nel creazionismo si tratta dell’essere contingente, creato da Dio dal nulla. Invece l’essere come tale comprende anche l’essere che non deriva dal nulla, ossia l’essere increato e creante, Dio, il quale non deriva dal nulla, essendo fondato su sé stesso, come essere assoluto. 

Severino invece sbaglia nel credere che il concetto di creazione sia nichilistico. Egli crede che unisca l’essere al non-essere. Ma non è così. Il dogma della creazione non suppone che un ente possa essere e non essere ad un tempo, ma può non-essere o essere solo possibile un tempo ed essere in atto in un tempo successivo. Ma Severino trova comunque la contraddizione perchè esclude il tempo. Ma escludendo il tempo dall’essere temporale, si pone fuori della realtà.

L’ateo poi nega la creazione semplicemente perchè nega l’esistenza di Dio. L’ateo conosce benissimo la contingenza del mondo, ma non gl’interessa affatto fondarla in Dio, nel quale non crede.  Egli è soddisfatto della sua volontà, che, come dice Hegel, «vuole sé stessa».

Dio può esistere da solo

Invece sta qui la differenza dal Dio biblico: che Dio esisteva ab aeterno prima della creazione del mondo, come risulta da due cose: prima, il fatto che il mondo ha avuto un inizio temporale: «in principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1: eb. berescìt barà Elohim), espressione che il Concilio Lateranense IV del 1215 spiega così: «Deus sua omnipotenti virtute simul  ab initio temporis utramque de nihilo condidit creaturam» (Denz.800). 

Il Concilio ammette dunque che con la creazione del mondo, in concomitanza al momento nel quale il mondo ha cominciato ad esistere, ha avuto inizio anche il tempo, che non è altro che un accidente del mondo, la misura della durata del mondo: per questo, se il mondo esistesse da sempre, nel tempo passato si potrebbe retrocedere all’infinito. È interessante invece notare come anche la fisica moderna sostenga parimenti, col suo proprio metodo d’indagine, che, retrocedendo indietro nel tempo, a un certo momento troveremmo un inizio, il cosiddetto «big bang».

La seconda cosa dalla quale risulta che Dio esisteva prima della creazione del mondo, sono le stesse parole di Cristo nella preghiera sacerdotale al cap.17 di Giovanni «prima che il mondo fosse» (v.5) e «prima della creazione del mondo» (v.24). Nonostante queste chiarissime parole di Cristo, il Padre Barzaghi ha avuto l’audacia di negare la possibilità di un «prima» della creazione del mondo con un argomento tanto specioso, quanto ingannevole, osservando che il «prima» e il «poi» sono i due termini che definiscono lo scorrere del tempo, per cui, il porre un «prima» del momento della creazione comporterebbe un collocare la creazione nel corso tempo, ossia vi sarebbe un tempo «prima» della dell’inizio del tempo, cosa evidentemente assurda.

Per togliere questa contraddizione, Barzaghi propone di negare che il tempo abbia avuto un inizio, così da non mettersi nelle condizioni di dover ammettere un tempo prima dell’inizio del tempo. Ma con ciò egli va contro il dogma del Lateranense IV, che ho citato.

Occorre dunque ammettere che Dio, dopo essere esistito da solo dall’eternità beatissimo e senza aver bisogno di nulla, non per necessità di natura, ma con liberissimo consiglio («liberrimo consilio», come dice il Concilio Vaticano I (Denz.3001), abbia deciso di creare il mondo a un certo misterioso punto preciso della sua eterna durata. Se Cristo stesso non ha avuto alcuna remora a parlare di un «prima» dell’esistenza del mondo, atteso anche il fatto che c’è stato un inizio del tempo, chi può essere tanto stolto e temerario dal volersi esprimere in un modo diverso da quello usato da Cristo? Certo, occorrono spiegazioni. Ma una volta fatte, non dobbiamo avere alcun problema ad esprimerci come si è espresso Cristo. 

Indubbiamente non può trattarsi di un prima temporale, dato che il tempo non esiste ancora; ma si tratta di un’inevitabile e legittima concessione al nostro modo umano di pensare e di esprimere anche le realtà atemporali in categorie temporali. Questo «prima» trascendentale vuol significare la nascita eterna del Figlio da Dio Padre.

L’ente creato non si risolve nel suo esser creato

Esiste un raffinatissimo sofisma sulla creazione del Padre Giuseppe Barzaghi, il quale, partendo da una premessa teistica, finisce nel panteismo. Egli inizia affermando quella che sembra essere la radicale dipendenza del mondo da Dio dicendo che l’essere del mondo si identifica col suo essere creato. Osserviamo, per iniziare il confronto che, se l’essere del mondo si identifica col suo essere creato, ciò a tutta prima può effettivamente dar l’impressione della sua totale dipendenza da Dio. Invece porta alla conclusione che il mondo è Dio e che Dio è il mondo. Vediamo perché. 

Cominciamo col dire che in realtà l’esser creato non è la sostanza il mondo, ma un accidente del mondo, accidente inseparabile ed essenziale, ma accidente, ossia si aggiunge alla sostanza del mondo e da essa è distinto. Caratterizza lo statuto ontologico del mondo, ma non costituisce il mondo in quanto ente. Il quale è il soggetto dell’esser creato, mentre l’esser creato è il predicato del soggetto.

Ora il creare è atto di Dio identico al suo essere, benché il creare non definisca l’essenza di Dio, perché Dio potrebbe esistere anche senza creare. Ora, al creare corrisponde l’esser creato. Se il creare dipende da Dio, anche l’essere creato dipende da Dio. Quindi l’esser creato è nel mondo l’impronta o il sigillo o la firma di Dio, del suo Fattore. Appartiene a Dio, non al mondo. È il divino nel mondo. Ma il mondo, proprio in quanto creato, è distinto da Dio. 

Se si identifica il mondo col suo esser di fatto creato, s’identifica il mondo col sigillo di Dio nel mondo, con un accidente del mondo, sia pure un accidente predicabile, ossia esterno all’essenza, quell’essere senza il quale il mondo non esisterebbe. Solo Dio esiste per essenza. 

Ora, all’esser creato corrisponde il creare, che è sì atto libero di Dio, ma nella sua essenza il creare è identico all’essenza di Dio. Ora l’esser creato viene da Dio ed è, come si è detto, la firma dell’Autore nella sua stupenda opera d’arte. Occorre allora evitare di identificare la firma del pittore in una sua pittura col pittore stesso. 

Per questo, l’identificare il divino nel mondo, cioè il suo esser creato, col mondo stesso, comporta l’identificazione del mondo con Dio, tutto l’opposto di ciò che l’astuto sofisma pareva volesse dimostrare, e cioè la grandezza di Dio creatore rispetto alla creatura, e la totale dipendenza della creatura dal Creatore. 

Occorre invece dire che il divino presente nella creatura, ossia l’esser di fatto creata, non è una proprietà ontologica della creatura, costitutiva dell’essere della creatura, ma è appartenenza divina, è il sigillo divino nella creatura, e per questo bisogna dire che la creatura è un bene che, prima di appartenere e a se stessa, appartiene a Dio: è Lui il suo primo proprietario, perché ne è l’autore e il creatore, così come il primo proprietario di una pittura è lo stesso pittore, che l’ha dipinta. Se la pittura potesse parlare, direbbe: quella firma che porto non sono io, ma è solo il segno in me di colui che mi ha fatta. Io sono distinta da quella firma, ho un essere per conto mio, distinto dall’essere del pittore che mi ha fatta. 

Così il creato esistente di fatto ha un essere proprio, sostanziale, reale, per conto proprio, autonomo, anche se creato dal nulla da Dio e quindi totalmente dipendente da Dio. Ma questa dipendenza nell’essere non vuol dire assolutamente che il suo essere si risolva nel suo esser creato da Dio, ma è presupposto a questo esser creato, non nel senso evidentemente che il mondo abbia un suo essere prima di esser creato e indipendentemente dall’essere creato, cosa che non ha senso, ma nel senso che il mondo esistente è il supporto ontologico e il soggetto dell’esser creato, altrimenti avremmo un predicato (è creato da Dio) senza il soggetto (il mondo). 

Se io dico che il mondo è creato da Dio, evidentemente penso a un ente sostanziale esistente in atto, al quale attribuisco l’esser di fatto creato come una proprietà accidentale, non perchè il mondo non sia essenzialmente creato, ma perchè è accidentale che esso esista, giacché è contingente, ossia potrebbe anche non esistere. Dunque si tratta di un accidente predicabile, necessario all’esistenza, ma non all’essenza. Non è un accidente predicamentale, ma è un fatto sostanziale, perchè senza l’essere l’ente non esiterebbe. In ogni caso è un accidente della sostanza, non è la sostanza del mondo esistente di fatto. 

In altre parole, l’esistere non entra nell’essenza del mondo, è accidente predicabile, ma è tuttavia proprietà sostanziale e non accidentale, ossia non è accidente predicamentale, in quanto è necessario alla sua esistenza. Solo Dio è esistente per essenza. Ora, questo esistere del mondo è il suo esser creato. E dunque l’esser creato è essenziale al mondo, ma è accidentale al suo esistere di fatto, perché potrebbe anche non esistere e mantenere comunque la sua essenza di ente essenzialmente creato. 

Il risolvere dunque l’essere del mondo nel suo esser di fatto creato, rende sostanziale ed essenziale al mondo ciò che di fatto gli è accidentale, e poiché l’esser creato è divino, come abbiamo dimostrato, proprio questa operazione apparentemente pia rende in realtà divino il mondo e incastra Dio nel mondo col pretesto dell’esser creato del mondo e dell’esaltazione del dominio di Dio sulla creatura. 

Vicino al concetto barzaghiano della creazione è quello di chi sostiene che il mondo creato da Dio non proviene dal nulla, ma da Dio. Anche in questo caso non si dà passaggio dal non-essere all’essere per opera dell’onnipotenza divina, ma abbiamo un concetto di Dio, per il quale il mondo non si presenta come effettivamente causato da Dio, e quindi distinto da Dio, ma come una teofania, un’apparizione di Dio, e quindi non come l’effetto in rapporto alla causa, cioè la creatura in rapporto al creatore, ma come ciò che appare di Dio a Dio stesso.

Conclusione

Il dogma della creazione ci insegna che siamo creati da Dio dal nulla a sua immagine e somiglianza, un Dio che ci conserva nell’essere, dal quale dipendiamo nell’essere, un Dio che ci ha progettati, voluti ed amati dall’eternità, un Dio che ha risposto al nostro peccato col darci suo Figlio, per renderci in Lui suoi figli, eredi della vita eterna, partecipi nella grazia della stessa natura divina, templi dello Spirito Santo, membri della Chiesa, Corpo mistico di Cristo, per la gloria della Santissima Trinità.

P. Giovanni Cavalcoli
Fontanellato, 16 giugno 2020
 

[1] Critica della ragion pura,Editori Laterza, Bari 1965, p.491.
[2] Recensione del libro Trinità per atei, recentemente apparsa sul sito della Fondazione Collegio San Carlo di Modena.

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