La nuova esegesi del racconto del sacrificio di Abramo - Seconda Parte (2/2)

 La nuova esegesi del racconto del sacrificio di Abramo

Seconda Parte (2/2)

Dalla Dei Verbum (11):
«Le verità divinamente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo. La santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr. Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori, tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte».

È vero che Dio ha voluto che l’agiografo scrivesse solo e tutte le cose che Egli intendeva rivelarci. Tuttavia dobbiamo distinguere la cosa rivelata dal modo di essere espressa, dal genere letterario nel quale viene espressa e dalle categorie con le quali viene espressa.

Tutti questi elementi stilistici cadono sotto la responsabilità dell’agiografo, non del divino Ispiratore dei contenuti che l’agiografo deve comunicarci. Questa distinzione ci viene insegnata dal metodo storico-critico. Per comprendere che cosa significa il metodo storico-critico segnalo:

-        https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19930415_interpretazione_it.html

-        https://it.wikipedia.org/wiki/Marie-Joseph_Lagrange

L’episodio del sacrificio di Abramo va quindi letto secondo i canoni del suddetto metodo, altrimenti, come ho detto più volte, si presenta un Dio che non corrisponde al vero volto del Dio biblico e neppure ai dati della teologia naturale.

Di norma la Sacra Scrittura va interpretata così come suona la lettera, ut littera sonat. Se però capita che questo tipo di interpretazione crea difficoltà dal punto di vista dottrinale, bisogna rinunciarvi e rendersi conto che questa interpretazione non vale, ma va sostituita facendo ricorso al metodo storico-critico.

Però negare per esempio la storicità dei miracoli di Gesù, abusando di questo metodo, è una operazione obiettivamente disonesta.


Commenta Paul Beauchamp:
«Possiamo dire che certe cose nella Bibbia vengono da Dio e certe altre dagli uomini? Magari che quello che nella Scrittura appare come troppo oscuro, troppo inesatto, troppo urtante è dell’uomo e tutto ciò che ci sembra inattaccabile è di Dio? La risposta del Concilio è assolutamente negativa.

I criteri che Beauchamp ci offre per conoscere la Parola di Dio e distinguerla dalle opinioni umane, non sono quelli che ci presenta Beauchamp, ma si tratta semplicemente di enucleare nel testo biblico ciò che corrisponde alla verità su Dio da ciò che non vi corrisponde.

Per distinguere ciò che nella Bibbia corrisponde a verità da ciò che eventualmente ci può essere di erroneo, è necessario l’uso del metodo storico-critico, il quale appunto serve a distinguere ciò che è il dato rivelato, evidentemente vero, dalla presenza di eventuali concezioni erronee su Dio provenienti dall’agiografo.

A tal riguardo Papa Benedetto XVI, nel famoso discorso* che fece a Ratisbona, ci ha ricordato quello che è un difetto della esegesi del Corano, fatta dagli esegeti mussulmani, difetto che consiste appunto in quel metodo letteralistico del quale ho già parlato.

* https://www.vatican.va/content/benedict-xvi/it/speeches/2006/september/documents/hf_ben-xvi_spe_20060912_university-regensburg.html

Questo difetto è la causa per la quale il Dio coranico appare, come disse il Papa, un Dio irrazionale e volontaristico, fautore di violenza e responsabile dello stesso peccato.


Prima di tutto, l’ispirazione dello Spirito Santo tocca “tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, in tutte le loro parti” (Dei Verbum III, 11). E poi, i “veri autori” hanno scritto soltanto ciò che Dio voleva.

Riguardo alla questione dei “veri autori” che hanno scritto ciò che Dio voleva, ho già spiegato come questa espressione va interpretata.


[…] La Bibbia ci introduce nella storia degli uomini con Dio. Come potremmo non trovarvi la realtà umana in ciò che ha di più terribile? È una garanzia di verità. Ma è pur vero che Dio è presentato come colui che approva o che ordina le azioni più terribili dell’uomo, e specialmente le guerre. Impossibile negare quest’aspetto della Bibbia. Israele era un popolo guerriero e faceva la guerra così come gli uomini della sua epoca. Possiamo anche dire: come gli uomini di tutte le epoche. Vi è certamente un mistero assai temibile nel fatto che Dio sembra fare la guerra a fianco del suo popolo, incoraggiarlo, e persino ordinargli di farla. Il capitolo 20 del Deuteronomio, espressione di un’epoca assai evoluta della storia d’Israele, fornisce precetti d’umanità: le città nemiche saranno attaccate solo se rifiutano la pace; donne e bambini saranno risparmiati. Ma una tale moderazione non si applica “alle città di quei popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità: non lascerai in vita nessun essere che respiri (Dt 20,16)

Per quanto riguarda gli “ordini di Dio”, bisogna dire che per quanto essi possono essere in alcuni casi terribili, come per esempio lo sterminio dei nemici, essi non vanno interpretati come comandi a commettere un peccato. Oppure, se il modo di esprimersi della Bibbia può dare questa impressione, è chiaro che anche qui occorre applicare il metodo storico-critico, che ci fa riconoscere la forma di antropomorfismo, che dev’essere accantonata se vogliamo evitare di concepire un Dio che ordina di peccare.


[…] Il fatto che questo popolo sia stato condotto alla mitezza da Dio è per noi più eloquente che se si fosse trattato di un popolo (ma ne esistono?) senza violenza […] Ma il mistero risiede in ciò: per condurre questo popolo sino alla fine, bisognava che Dio fosse con questo popolo sin dal principio […] In che modo possiamo sapere che Dio era con Israele anche in quegli inizi che sembrano barbari? Il solo mezzo è di verificare come Dio abbia effettivamente guidato il suo popolo fino a fargli ammirare e praticare la mitezza […] Perché era necessario che Dio passasse attraverso tali inizi nell’accompagnarci? Per liberarci dalle apparenze […]
Se Dio era (imperfettamente) presente alle vittorie (imperfette) del suo popolo quando faceva la guerra, è perché noi sapessimo che la mitezza non è debolezza. Quando, con il Cristo, noi amiamo la mitezza, è ancora la forza che amiamo. Quando camminiamo dietro il Cristo che porta la croce, è dietro un vincitore che camminiamo. Camminando con un popolo guerriero, Dio lo conduceva verso la propria mitezza. Ma, manifestandosi nella mitezza del Cristo, Dio realizza la più assoluta e radicale di tutte le vittorie sul nemico».

È noto a tutti che la Sacra Scrittura è un trattato di pedagogia divina, vale a dire che è la narrazione di una sapientissima opera educatrice con la quale Dio, alternando la misericordia alla giustizia, la dolcezza alla severità, la minaccia di castighi e la promessa di premi, forma durante millenni il suo popolo prediletto come un padre educa un figlio.

Il discorso può essere allargato all’intera umanità, perché è chiaro che per mezzo di Israele educa l’intera umanità, così da farla passare dallo stadio primitivo quasi bestiale nella schiavitù delle passioni ad una graduale assunzione di responsabilità, controllo delle passioni, aumento progressivo e miglioramento della scienza morale, nonché un continuo progresso nella virtù, col passaggio dal regime veterotestamentario della Legge alla conquista dello stato di figli di Dio, discepoli di Cristo, mossi dallo Spirito Santo ed aspiranti alla santità.

Per quanto riguarda il problema della guerra, è chiarissimo nella Scrittura il progresso che Israele gradualmente realizza dal concetto di una guerra crudele, che viene considerata come voluta da Dio, verso una nuova concezione della guerra come legittima difesa e opera di giustizia.

Certo, sarebbe utopistico il credere che oggi ormai l’umanità possa evitare la guerra grazie ai progressi compiuti, soprattutto per merito del cristianesimo. Infatti, l’umanità attualmente si trova ancora in uno stato di natura decaduta, dove è impossibile quella perfezione delle virtù, che ci potrebbe assicurare la pace stabile ed universale.

Infatti questa pace perfetta è soltanto quella della Gerusalemme celeste, alla quale il cristiano tende pur dovendosi adattare in estreme circostanze all’uso delle armi per difendersi da un ingiusto aggressore.

Il documento conciliare sottolinea che la sacralità e canonicità del Vecchio e del Nuovo Testamento, deve essere intesa per “tutti interi” i libri che li compongono, i quali “hanno Dio per autore”, il quale scelse degli uomini “come veri autori”, agendo in essi e per loro tramite, affinché scrivessero “tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte”.
E Beauchamp chiosa:
«Possiamo dire che certe cose nella Bibbia vengono da Dio e certe altre dagli uomini? Magari che quello che nella Scrittura appare come troppo oscuro, troppo inesatto, troppo urtante è dell’uomo e tutto ciò che ci sembra inattaccabile è di Dio? La risposta del Concilio è assolutamente negativa […] i “veri autori” hanno scritto soltanto ciò che Dio voleva».
Penso che tanto le sottolineature della Dei Verbum, che il relativo commento dell’esegeta francese, debbano esser tenute presenti, ogniqualvolta, accostandoci al Sacro testo, in particolare all’A.T., capita di imbattersi in frasi o brani che saremmo portati a respingere o a derubricare come solo umani…

È chiaro che tra i contenuti della Sacra Scrittura non possiamo operare una scelta, perché questa sarebbe una airesis, cioè una scelta arbitraria, cosa che sarebbe eresia, perché tutto quello che è contenuto nella Scrittura è Parola di Dio e la vera fede porta ad accettare tutto quello che il Rivelatore dice, senza la pretesa di fare un vaglio, quasi si trattasse di un oggetto sottoposto al giudizio della nostra ragione.

Quindi, il problema non è questo, ma, come ho già detto, il problema ermeneutico non esige una scelta di contenuti, ma nel presupposto che tutti i contenuti, ossia le verità di fede, debbano essere accettati, il metodo storico-critico riguarda non i contenuti, ma i modi espressivi. E’ questo metodo che ci aiuta a riconoscere la lettera che uccide, ossia il letteralismo, accettando il quale mancheremmo di rispetto alla verità degli attributi divini.

Quindi, nel caso del sacrificio di Abramo, possiamo cogliere la verità circa la convinzione umana di Abramo, che è veramente convito che Dio voglia il sacrificio di Isacco, e la verità divina che si manifesta attraverso l’angelo. Abramo segue prima la sua coscienza e poi accetta con gioia la rivelazione divina, obbedendo in entrambi i casi per fede, per cui Abramo ha meritato presso Dio per tutto il corso della prova.

Lei ha scritto: «un Dio che chiede ad Abramo di uccidere il figlio sarebbe un Dio che comanda di peccare».
Sono costretto a ripetere cose già dette in precedenti commenti.
Il libro di Giuditta conferma pienamente che l’unica intenzione divina, che sottostà alla prova di Abramo, è, esclusivamente, di saggiare la sua fede:
«Ricordatevi quanto ha fatto con Abramo, quali prove ha fatto passare a Isacco […] come ha passato al crogiuolo costoro con il solo scopo di saggiare il loro cuore» Giuditta (8, 26–27)
Ciò esclude che il comando divino di uccidere il figlio possa essere inteso come qualcosa che, potenzialmente, Dio potrebbe chiedere agli altri uomini.
“[…] con il solo scopo di saggiare il loro cuore” significa che nessuno è autorizzato ad estrapolare il comando divino, dal suo contesto di prova della fede abramitica, per interpretarlo come invito al gravissimo peccato di uccidere un figlio.
Purtroppo, lei Padre Giovanni, continua a leggere quel comando fuori dal suo contesto, assolutizzandolo, e facendo così dire al testo biblico ciò che non dice, ovvero che Dio inviti gli uomini a sacrifici umani, sicché si trova poi costretto a doverlo rifiutare, perché “altrimenti risulterebbe un Dio omicida”, ma questa conseguenza è errata perché derivante da un presupposto errato.
Nell’articolo https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/ancora-sul-sacrificio-di-abramo.html, lei ha cercato di smontare la conferma di Giuditta all’interpretazione tradizionale, con le seguenti parole:
«Le lodi che vengono fatte ad Abramo dal Libro di Giuditta e da San Giacomo, non si riferiscono tanto al fatto che Abramo credette di dover sacrificare il figlio, ma all’angoscia tremenda che egli passò nel credere che Dio gli avesse ordinato una cosa simile».
Ma questa sua precisazione non regge, perché il soggetto della frase di Giuditta, Colui che ha fatto passare le prove ad Abramo ed Isacco “con il solo scopo di saggiare il loro cuore”, è inequivocabilmente Dio, e non quello che erroneamente avrebbe creduto Abramo.

Nessuno dubita che Dio mette alla prova Abramo e che Abramo supera la prova facendosi grandi meriti. Questi contenuti vanno senz’altro presi alla lettera, perché non solo non offrono difficoltà interpretative, ma in esse rifulge la verità formale della sapienza e della provvidenza divine e la grande virtù di Abramo.

Chiediamo piuttosto in che cosa consiste la prova, alla quale Dio ha sottoposto Abramo. Innanzitutto dobbiamo allontanare quell’antropomorfismo che ci porterebbe ad immaginare un Dio che, non sapendo come Abramo si sarebbe comportato, vuole saggiare la sua fede, un po’ come un costruttore della FIAT mette alla prova un’automobile per saggiare la sua resistenza.

La prova che Dio manda consiste nel far pesare sulla coscienza di Abramo un’opera che ad Abramo appare dolorosissima, per cui Abramo si convince in buona fede di dover sacrificare suo figlio e per questo motivo obbedisce, per cui Abramo diventa esempio di obbedienza e di credente. D’altra parte Dio permette che Abramo cada nell’equivoco. Anche questo gesto divino fa parte della prova. E Abramo già da adesso regge alla prova.

Tale prova continua poi con la rivelazione dell’angelo, rivelazione che richiede ad Abramo una modifica della sua volontà umana una rinnovata fede e quindi un ulteriore aumento del merito della prova.


Anche Papa Francesco conferma pienamente che l’unica intenzione divina, che sottostà alla prova di Abramo, è, esclusivamente, di saggiare la sua fede, e non certo di invitare gli uomini a compiere sacrifici umani.
Dall’ Angelus del 22 dicembre 2013, https://www.vatican.va/content/francesco/it/angelus/2013/documents/papa-francesco_angelus_20131222.html:
«Una prova simile a quella del sacrificio di Abramo, quando Dio gli chiese il figlio Isacco (cfr Gen 22): rinunciare alla cosa più preziosa, alla persona più amata. Ma, come nel caso di Abramo, il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa, una via di amore e di felicità […]»
Pertanto, Francesco afferma chiaramente che:
1) il sacrificio di Abramo è “una prova” e solo in tale contesto deve essere letto;
2) in cui “Dio gli chiese”, quindi il soggetto è inequivocabilmente Dio e non la mente confusa di Abramo;
3) “il figlio Isacco”, quindi l’oggetto della richiesta di sacrificio è inequivocabilmente Isacco, e non un animale.
4) “il Signore interviene: ha trovato la fede che cercava e apre una via diversa”, quindi l’intervento divino che, tramite l’angelo, ferma la mano di Abramo, è dovuto al fatto che Dio “ha trovato la fede che cercava”, il che conferma che la prova viene terminata quando ha raggiunto quello che era il suo unico scopo: testare la fede di Abramo. Ciò implicitamente respinge la sua interpretazione, Padre Giovanni, che l’intervento dell’angelo serva a far capire ad Abramo che Dio non gli avrebbe chiesto il sacrificio di Isacco ma di un animale. Senza il disporsi di Abramo al sacrifico del figlio, Dio non avrebbe “trovato la fede che cercava”.
Dall’Udienza generale del 3 giugno 2020, https://www.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2020/documents/papa-francesco_20200603_udienza-generale.html:
«Così Abramo diventa familiare di Dio, capace anche di discutere con Lui, ma sempre fedele. Parla con Dio e discute. Fino alla prova suprema, quando Dio gli chiede di sacrificare proprio il figlio Isacco, il figlio della vecchiaia, l'unico erede […] Dio stesso fermerà la mano di Abramo già pronta a colpire, perché ha visto la sua disponibilità veramente totale (cfr Gen 22,1-19)»
Anche in questo secondo intervento Papa Francesco ribadisce che:
1) “Fino alla prova suprema”, il sacrificio di Abramo è “una prova” e solo in tale contesto deve essere letto;
2) “quando Dio gli chiede di sacrificare”, quindi il soggetto è inequivocabilmente Dio e non la mente confusa di Abramo;
3) “proprio il figlio Isacco”, quindi l’oggetto della richiesta di sacrificio è inequivocabilmente Isacco, e non l’ariete.
4) “Dio stesso fermerà la mano di Abramo già pronta a colpire, perché ha visto la sua disponibilità veramente totale”, quindi l’intervento divino che ferma Abramo, è dovuto al fatto che Dio “ha visto la sua disponibilità veramente totale”, e ciò conferma qual era l’unico scopo della prova, e smentisce la sua preoccupazione, Padre Giovanni, che il comando divino possa leggersi come un invito a peccare.

Come ho già detto, non c’è alcun problema a riconoscere che Dio ha messo alla prova Abramo, ed anzi questo atto divino è uno dei più importanti tra quelli compiuti da Dio per la nostra salvezza, come d’altra parte il gesto di Abramo è a sua volta uno dei più importanti nella medesima storia della salvezza.

D’altra parte è comprensibile che il Santo Padre assuma l’interpretazione tradizionale. Ciò non significa affatto che un domani, se la Chiesa lo riterrà opportuno, non possa accogliere la nuova interpretazione da me proposta. Infatti il Magistero della Chiesa non ha l’abitudine di far sue tutte le nuove interpretazioni ben fondate, perché esse possono essere sufficienti per suscitare l’interesse dei fedeli.

Mantenendoci in questo orizzonte ermeneutico, vorrei inoltre ricordare che Papa Francesco ha ordinato di cambiare il testo del Padre Nostro, relativo alle prove che dobbiamo subire, prove che qui vanno sotto il nome di tentazioni, nel senso che in questo luogo noi chiediamo a Dio di sostenerci nella prova e di non permettere che noi cadiamo nella tentazione, ossia di cadere sotto il peso della prova. Questo mutamento è l’effetto di una esegesi storico-critica, avallata dall’autorità dottrinale del Sommo Pontefice.

Lei, Padre Giovanni, mi ha mosso questa obiezione:
«Lei dice che Dio non pretese il sacrificio «fino all’ultimo». Dunque lo pretese all’inizio. Ma allora ho ragione io nel dire che Lei sostiene che, almeno all’inizio, Dio avrebbe voluto il sacrificio, salvo poi a cambiare idea o a dare un contrordine mediante l’angelo».
No, col dire che Dio non pretese il sacrificio “fino all’ultimo”, intendevo dire che Dio, comandò ad Abramo di disporsi al sacrificio di Isacco, ma poi non pretese che tale sacrificio fosse condotto “fino all’ultimo”, perché non era certo questa la Sua intenzione, che invece era, di provare la fede del patriarca.
Inoltre, un conto è comandare un processo che per essere portato a termine richiede necessariamente un certo tempo preparatorio, e la possibilità di poterlo interrompere, un altro conto è comandare un ordine che deve essere prontamente eseguito e quindi completato.
Nel caso di Genesi 22.1, siamo decisamente nella prima fattispecie. Come avevo argomentato nella lettera che lei ha ripreso in https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/nel-sacrificio-di-abramo-dio-non-si_27.html, il comando di Dio, non è di uccidere immediatamente Isacco. Richiede invece di compiere un lungo percorso preparatorio (durerà tre giorni), che è sì geografico, ma soprattutto interiore. Il comando, infatti, non è “Abramo, offrimi ora Isacco in olocausto”, bensì “va' nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò”.
Come già scrissi: «E’ proprio su ciò che Abramo passerà, come reagirà e, in definitiva, se si arrenderà o rimarrà fermo nella fede, durante tutto questo itinerario, che egli verrà valutato da Dio, è il “percorso” che costituisce la “prova”. E in tale percorso, la prospettiva di dover uccidere il proprio figlio, costituisce il tarlo, il tormento angosciante che dovrà pesare come un macigno sulle spalle di Abramo […]».
Ora se noi per sintetizzare il testo biblico, nell’ottica di cogliere l’essenziale, lo riduciamo a “Dio comandò ad Abramo di sacrificargli il figlio”, in realtà stiamo decurtando il comando divino di due aspetti fondamentali che lo caratterizzano: innanzitutto manchiamo di sottolineare che il comando è espresso all’interno della prova di fede cui è sottoposto Abramo, e solo in questa trova senso; il secondo aspetto che dimentichiamo, anzi travisiamo, è che siamo portati a compiere l’equazione “sacrificare = uccidere subito”, annullando di fatto il tema della via crucis che viene richiesta ad Abramo dove, come scrissi «in ciascuno dei vari momenti e degli atti da compiere, il padre di Isacco avrebbe potuto cedere e implorare Dio di non fargli portare a termine quella richiesta, o di non essere umanamente in grado di soddisfarla». In tali casi, la prova sarebbe comunque terminata in modo incruento, ma Abramo l’avrebbe fallita.
La “durata” del percorso preparatorio per arrivare a quell’ultimo atto (che Dio non vuole, ma Abramo deve provvisoriamente crederlo), da un lato, consente a Dio di valutare fino a che punto riesce a resistere la fede del patriarca (in realtà per mostrarlo a noi, Lui nella sua preveggenza lo sa da sempre), dall’altro permette ad Abramo di sperare sempre che l’esito finale possa non compiersi, che Dio abbia misericordia… E ciò che Abramo dice, tanto ai servi che al figlio, potrebbe interpretarsi in questo senso, per cui la grandezza della fede abramitica consisterebbe anche nel “credo che Tu sia misericordioso nonostante ciò che mi hai chiesto”. Questo aspetto della durata del percorso preparatorio, che non sarebbe stato possibile con un comando di esecuzione immediata della sentenza, è ulteriore conferma che quanto Dio sta chiedendo è ben altro che la “semplice” uccisione del figlio, come sembrerebbe dalla frase “Dio comandò ad Abramo di sacrificargli il figlio”.
Una frase di sintesi, lunga, ma più corretta sarebbe: “Dio, per mettere alla prova la fede e l’obbedienza di Abramo, gli comandò di effettuare un percorso di sacrificio che, gli fece credere, doveva concludersi con l’olocausto di Isacco, cosa che Dio non avrebbe comunque permesso”.

Quello che posso concederle è che la prova di Abramo inizia nel momento in cui lui ritiene in buona fede che Dio gli comandi di sacrificargli il figlio. Questo significa inserire nella prova i tre giorni impiegati da Abramo per giungere al luogo del sacrifico.

Che poi Dio chieda ad Abramo di compiere il sacrificio subito o più tardi, questo elemento temporale non ha nessuna importanza ai fini della nostra discussione, nella quale, se vogliamo giungere a un chiarimento, dobbiamo tenere presente l’essenziale, che consiste, così come intende Abramo, nel comando divino di compiere il sacrificio di Isacco.

Quanto al “contrordine” che Dio non può dare, pena il contraddirsi, ho già replicato in
https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/abramo-maestro-di-liberta-religiosa.html:
«la situazione, il contesto in cui avviene il primo comando, e […] in cui avviene la revoca dello stesso, sono profondamente diverse […] Dopo tutto quanto Abramo ha dimostrato, nella propria carne e nel proprio spirito, non è forse cambiata la sua situazione esistenziale e spirituale, per lui e davanti a Dio? E dunque, il comando di fermare il sacrificio del figlio [...] non contraddice il primo comando ma sancisce il superamento di quella prova, richiesta da Dio, che non si sarebbe potuta realizzare se non tramite la prima richiesta».

Anche il mutamento della situazione emotiva di Abramo non ha nessuna incidenza risolutiva nella nostra discussione, perché è un elemento del tutto estrinseco al contenuto del comando divino ut littera sonat. D’altra parte il mutamento emotivo di Abramo, dal primo al secondo tempo si spiega con la massima evidenza: l’angoscia del primo momento e un respiro di sollievo nel secondo.

Quanto poi a dire che “quella prova, richiesta da Dio, non si sarebbe potuta realizzare se non tramite la prima richiesta”, è una supposizione del tutto gratuita, per il fatto che Dio poteva ordinare immediatamente ad Abramo di sacrificare un ariete, senza farlo passare dal primo momento della prova. Anzi, proprio il fatto che Dio interviene per annullare il sacrificio di Isacco, dimostra quella che era ed è la Sua volontà e ci fa capire che Abramo aveva frainteso.

Lei ha scritto:
«ribadisco per l’ennesima volta che io non reinterpreto, né riscrivo, ma interpreto».
Anche se sul sacrificio di Isacco non vi è stato un pronunciamento definitivo da parte del Magistero, è pacifico che l’interpretazione dei Padri, peraltro confermata dagli interventi degli ultimi due pontefici che ho già segnalato, possa ritenersi l’interpretazione tradizionale, rispetto alla quale la sua, Padre Giovanni, è obiettivamente diversa.
Ora l’Istituto Treccani, massima autorità per la lingua italiana, definisce “reinterpretazione” come:
«Il fatto, l’opera di reinterpretare; nuova e diversa interpretazione di opere, autori, fatti storici, ecc. rispetto alle interpretazioni precedenti o all’interpretazione tradizionale».
Non capisco allora la ragione per cui lei non accetti che si definisca come “reinterpretazione” la sua esegesi del sacrificio abramitico.

Per quanto riguarda la questione della reinterpretazione, essa consiste in generale in una operazione culturale per la quale l’autore di tale operazione affronta un testo letterario e in particolare considera una data tesi dottrinale nell’intento di enucleare il significato di questa tesi, mutando i concetti.

Questa operazione è piuttosto delicata. In alcuni casi può essere legittima, come per esempio lo storico che vuole fare una reinterpretazione delle finalità dell’Inquisizione. Da questa reinterpretazione il Concilio Vaticano II ha ricavato la Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale nel suo metodo, come sappiamo, è stata molto diversa dall’Inquisizione e tuttavia ne ha mantenuto la finalità, che consiste nella difesa della fede.

Vi può essere però anche una reinterpretazione illegittima qual è quella che, per esempio, viene praticata esplicitamente da Schillebeeckx, il quale, invece di interpretare rettamente la figura di Cristo, crede di poterla reinterpretare negandone la divinità e presentando Cristo come semplice profeta escatologico.

Per quanto mi riguarda io non sto facendo una reinterpretazione alla maniera di Schillebeeckx, ma propongo quella che ritengo essere l’interpretazione giusta, perché io non sto cambiando dei concetti, ma interpreto un preciso concetto, che è il concetto di Dio, un Dio che non può volere sacrifici umani.

L’interpretazione di un testo della Scrittura matura nel tempo e va soggetta anche a correzioni, le quali però ben lungi dal mutare le verità rivelate, ce le fanno conoscere sempre meglio. In ciò naturalmente escludiamo le interpretazioni ufficiali del Magistero, le quali sono vincolanti, mentre mi riferisco alle interpretazioni degli esegeti, le quali, per quanto autorevoli e di lunga durata, possono anche essere fallibili e quindi corrette da una esegesi migliore.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 25 ottobre 2022

 


 

Non c’è alcun problema a riconoscere che Dio ha messo alla prova Abramo, ed anzi questo atto divino è uno dei più importanti tra quelli compiuti da Dio per la nostra salvezza, come d’altra parte il gesto di Abramo è a sua volta uno dei più importanti nella medesima storia della salvezza.


Mantenendoci in questo orizzonte ermeneutico, vorrei inoltre ricordare che Papa Francesco ha ordinato di cambiare il testo del Padre Nostro, relativo alle prove che dobbiamo subire, prove che qui vanno sotto il nome di tentazioni, nel senso che in questo luogo noi chiediamo a Dio di sostenerci nella prova e di non permettere che noi cadiamo nella tentazione, ossia di cadere sotto il peso della prova. 

Questo mutamento è l’effetto di una esegesi storico-critica, avallata dall’autorità dottrinale del Sommo Pontefice.


Immagini da Internet:
- Il sacrificio di Isacco, Rembrandt
- Il sacrificio di Isacco, Veronese

22 commenti:

  1. Caro Padre Giovanni,
    nella prima parte di questo articolo, lei ha scritto:
    «non è possibile ritenere che Dio inganni Abramo facendogli credere di avere una volontà contraria a quella che in realtà ha. In tal modo lei presenta Dio come un impostore».
    A mio avviso un’azione che, in linea di principio, può definirsi eticamente cattiva, sulla base dell’intenzione che la guida e delle conseguenze reali che nella fattispecie produce, può capovolgere la connotazione negativa a livello definitorio. Di qui la necessità del discernimento.
    Su questo non posso che riportarle quanto le avevo già scritto nella mail del 12 agosto:
    «[…] si potrebbe ancora formulare questa obiezione: se Dio ha letteralmente chiesto ad Abramo di sacrificargli il figlio, ma (ovviamente) senza rivelargli che all’ultimo momento lo avrebbe comunque fermato, allora Dio ha “ingannato” Abramo, e l’inganno, come la contraddizione o il cambiamento di volontà, non si addicono a Dio.
    Ritengo che anche davanti a questo tipo di obiezione, non ci si dovrebbe fermare al puro contrapporre una questione di principio (Dio non può ingannare) con l’operare divino nel contesto di quanto narrato dal testo genesiaco, senza considerare le successive importanti conseguenze che questo avrà nell’economia della Rivelazione. Anche in questo caso ritengo che occorra uno sforzo di discernimento, che permetta di andare oltre, come posso dire… la semplice consequenzialità logica che si ottiene estrapolando il comando divino di richiesta del sacrificio unito al proposito divino di fermarlo al momento giusto, per metterlo immediatamente in rapporto al principio generale che Dio non può ingannare […]
    L’uccisione di una persona, che in linea di principio è violazione del comandamento “Non ucciderai” (Es 20, 13), nel caso si riveli l’unica possibilità per salvare un innocente dall’essere ucciso, diventa non solo lecito, ma eticamente giusto.
    L’appropriarsi di una mela dal banco di un fruttivendolo, che in linea di principio è violazione del comandamento “Non ruberai” (Es 20, 15), se eseguito da un poveretto, gravemente deperito, non in grado di pagarla, al solo scopo di non svenire per la fame, diventa non solo giusto per l’Etica ma, anche sul piano del Diritto umano, non si avrebbe imputazione di furto, perché si riconosce che il soggetto ha agito “in stato di necessità”, e di conseguenza il diritto alla vita, alla salute prevale giustamente su quello alla proprietà privata.
    Ricordo infine il caso familiare, ma non certo unico, di un mio zio che durante la Seconda Guerra Mondiale nascose due avieri delle forze alleate, che si erano lanciati col paracadute dopo che il loro velivolo era stato colpito dalla contraerea tedesca, e quando si presentò a lui una pattuglia di nazisti dichiarò di non saper nulla dei paracadutati. Anche in questo caso, se pur non è in violazione del comandamento “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo” (Es 20, 16), sempre si è trattato dell’aver detto il falso, ma la bugia in siffatto contesto si svuota di ogni connotazione riprovevole, e diventa non solo meritoria per aver salvato la vita del proprio prossimo, ma addirittura eroica, in quanto ha comportato il mettere in grave pericolo la propria vita qualora, procedendo con una perquisizione, i nazisti avessero appurato la menzogna (ringraziando Iddio la sirena di un nuovo allarme aereo costrinse la pattuglia alla fuga).
    Insomma, un’azione che in linea generale, su un piano teorico, può essere definita cattiva, e persino risultare violazione di uno dei Dieci Comandamenti… se esaminata con discernimento in tutte le conseguenze concretamente causate, può a volte tramutarsi in azione buona e pienamente giustificata.

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    1. Ora, tornando all’obiezione che accuserebbe, l’interpretazione del sacrificio abramitico che qui sto perorando, di attribuire a Dio un riprovevole “inganno” nei riguardi del patriarca, si dovrebbero (ammesso e non concesso che, come uomini, si abbia il diritto di "sindacare", in qualche modo, l’operato divino), considerare i tanti ed importanti frutti, non solo per Abramo, Isacco e Sara, ma per tutti noi posteri, che sono scaturiti, dall’indizione e dal superamento di quella prova. Come disse Benedetto XVI: “l’obbedienza di Abramo è diventata fonte di una immensa benedizione fino ad oggi”. Per citarne solo tre: il messaggio perenne per tutta la posterità di poter sempre confidare, affidarsi a Dio anche nei momenti più oscuri, più disperati della nostra esistenza; la conferma scolpita nella Sacra Scrittura che Dio non desidera sacrifici umani; la disponibilità di Isacco a mettere completamente la propria vita a disposizione del padre, come prefigurazione del sacrificio di Cristo.
      E allora davanti a quanto è scaturito per noi dalla prova di Abramo, mi sembra si possa dire che il cosiddetto “inganno” divino, se pur sia lecito usare questo termine, si svuoti di qualsiasi connotazione negativa che contraddistingue invece i veri inganni a fin di male, e a noi non resti che inginocchiarci dinanzi alla Sua volontà. Del resto lei stesso, Padre Giovanni, ha scritto:
      “Dio, quando vuol mandare una prova, si riserva di fissarne a sua discrezione il contenuto e la durata. Quindi, se vogliamo vivere bene la nostra fede, non è il caso di chiederci perché Dio manda certe prove con certi contenuti e con certe durate. Egli sa quello che fa e lo fa per il nostro bene. Queste considerazioni ci devono bastare per fidarci di Lui, per obbedirgli e per sopportare la prova, nella certezza che essa serve a rafforzarci nella fede e nella virtù”.
      Dunque, la richiesta del sacrificio di Isacco non è stata il fine del volere di Dio, ma la via scelta da Dio per testare la fede obbedienziale di Abramo, riservandosi di interromperla al momento opportuno».
      L’intenzione del Signore, che sta dietro il “divino inganno” (se così vogliamo chiamarlo) è assolutamente a fin di bene, ed i frutti prodotti sono stati di grande valore per tutta l’umanità, pertanto, possiamo senz’altro assolverlo dall’accusa di “impostore”, ammesso e non concesso, che Egli abbia bisogno della nostra assoluzione.
      Non possiamo, non dobbiamo fermarci alle definizioni astratte di “inganno”,” impostore”, “contrordine”, ecc… ma verificare col discernimento quando effettivamente debbano essere applicate.

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    2. Caro Bruno,
      ipotizzare che Dio abbia ingannato Abramo suppone l’interpretazione letteralistica, secondo la quale Dio avrebbe finto di volere il sacrificio, in modo tale che Abramo ne sarebbe rimasto ingannato, salvo poi a disingannarlo successivamente. Ma un’ipotesi del genere è decisamente blasfema.
      Per quanto riguarda le menzogne lecite, esse non costituiscono una eccezione all’VIII Comandamento, nel caso in cui si tratti di difendere un innocente che rischia di essere ucciso da un ingiusto aggressore. Ciò vuol dire che mentire all’aggressore, salvando la vita dell’innocente, non è una violazione all’VIII Comandamento, ma è il ricorso ad una legittima difesa dell’innocente.
      Per questo motivo il suo paragone non si adatta al caso del sacrificio di Abramo. Voglio dire che, se Dio avesse comandato il sacrificio di Isacco, non avrebbe praticato qualcosa di simile alla menzogna lecita, perché l’uccisione dell’innocente è assolutamente proibita, che non ammette eccezioni. Per questo motivo ribadisco ancora una volta che l’interpretazione letteralistica non è sostenibile.
      A tal riguardo il documento della Pontificio Commissione Biblica parla di fondamentalismo, che consiste in una forma di letteralismo che va distinta dall’interpretazione letterale. Il fondamentalismo, come spiega il documento, “tende a trattare il testo biblico come se fosse stato dettato parola per parola dallo Spirito Santo e non arriva a riconoscere che la Parola di Dio è stata formulata in un linguaggio e una fraseologia condizionati da una data epoca” (Cf. I,F).
      Queste parole si riferiscono evidentemente anche a concezioni particolari proprie dell’agiografo, che sono estranee alla vera Parola di Dio, in particolare, come ho già detto e ripetuto, a una concezione arcaica di Dio.
      Cf. https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19930415_interpretazione_it.html

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    3. Non c’è nessun dubbio che la prova superata di Abramo ha recato immensi frutti di bene per tutta l’umanità, ma resta sempre il fatto che la prova non è consistita in un Dio che prima comanda as Abramo di sacrificare il figlio e poi si corregge, ma in un Dio che ha richiesto fede ed obbedienza assolute. Abramo corrisponde in pienezza e viene premiato con l’esaudimento delle meravigliose promesse, che Dio gli aveva fatto.
      La vera volontà sacrificale di Dio non fu affatto l’uccisione di Isacco, ma dell’ariete, un sacrificio del tutto ragionevole e consono alla sana tradizione e indubbiamente preparatorio a quel sacrificio dell’Agnello, che è annunciato dal Battista e dall’Apocalisse.

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  2. Alla mia domanda, relativa alla donna innamorata della seconda versione della storiella (quella della pistola scarica): “la donna è responsabile di istigazione all’omicidio?”
    Lei ha risposto:
    «una donna che si comporta in questo modo istiga all’omicidio, in quanto fa credere all’amante che lei vuole obbligarlo a uccidere il figlio».
    Sul piano della giustizia penale umana, nessun tribunale di un paese civile condannerebbe questa donna per istigazione all’omicidio, anzi neppure si aprirebbe un processo su questi presupposti, in Italia in base all’articolo 49 del Codice Penale. Mi sono preso la briga di sottoporre questo caso ad un magistrato di Corte d’Appello, che mi ha confermato quanto ho appena scritto. E lei potrà sicuramente ottenere analogo riscontro se avrà modo di parlarne con qualche avvocato, magistrato o giurista di sua fiducia.
    Su un piano prettamente morale è diverso, la condotta della donna che sfrutta la passione che il suo amante prova per lei, per operare un odioso ricatto morale, è certamente riprovevole, ma resta parimenti oggettivo che, sul piano fattuale, la donna non voleva e non avrebbe permesso alcun male al figlio del suo innamorato. Nel mondo di oggi, molti direbbero che in fondo, la donna ha fatto solo uno scherzo di pessimo gusto al suo amante, ma questo giudizio, a mio avviso è superficiale e troppo indulgente… un peccato da parte della donna sicuramente c’è, anche se non possiamo arrivare a configurarlo come una vera e propria “istigazione all’omicidio”, altrimenti così sarebbe stato ravvisato anche dalla giustizia umana.
    Per certi versi, ancor più grave, ma sempre sul piano morale e non su quello penale, il comportamento del padre-amante, perché è sembrato disposto ad uccidere il figlio. Dico “è sembrato” perché, volendo essere precisi, io faccio terminare la storiella nel momento in cui l’uomo ha puntato la pistola verso il figlio e qui la donna interviene a fermarlo; non sappiamo dunque, se poi avrebbe premuto il grilletto o se all’ultimo momento sarebbe rinsavito. Ma in ogni caso resta la gravità dei suoi atti e delle sue omissioni, che davanti alla richiesta della donna, anziché manifestare un fermo rifiuto di soddisfarla, sicuramente accoglie, almeno inizialmente, quella richiesta, arrivando sino al punto di puntare la pistola verso proprio figlio. Uno psicologo o uno psichiatra definirebbe il suo “amore” per la donna come patologico… io direi idolatrico: per arrivare anche solo a pensare di poter eseguire una richiesta del genere, significa che quest’uomo ha fatto della donna amata un idolo, cioè ha elevato a dignità divina ciò che è solo umano, ha manifestato l’obbedienza assoluta che si deve solo a Dio, verso una creatura umana.
    Quest’uomo ha certamente sbagliato, ma Abramo no, perché per lui, quella richiesta veniva davvero da Dio.

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    1. Caro Bruno,
      la condotta di quella donna è da condannare non solo sul piano morale, ma anche sul piano giuridico. Infatti nella richiesta che essa fa all’amante ci sono esattamente gli estremi del reato di istigazione a delinquere.
      Non interessa nulla che la pistola fosse scarica. Quello che interessa, anche dal punto di vista penale, è che l’amante aveva capito bene quello che la donna gli aveva chiesto e che si accingeva a metterlo in atto. Mi meraviglio quindi del parere che lei ha ricevuto dal magistrato, perché l’istigazione a delinquere è notoriamente prevista dal codice penale.
      Per quanto riguarda Abramo, egli certamente non ha sbagliato nell’obbedire, ma non perché Dio gli comandava di sacrificare il figlio, ma perché in buona fede egli credeva che il comando venisse da Dio, per cui obbedendo Abramo non solo non peccava soggettivamente, ma dava prova di grande obbedienza, benchè oggettivamente si accingesse a commettere un omicidio.
      Ciò corrisponde esattamente a quanto Gesù dice quando avverte (Gv 16,2): “viene l’ora in cui chiunque vi ucciderà crederà di rendere culto a Dio”. È esattamente quello che è successo ad Abramo.
      D’altra parte, siccome Abramo aveva ricevuto da Dio la promessa riguardo a Isacco, avrebbe potuto accorgersi che quel comando non poteva venire da Dio, il Quale appunto gli aveva promesso di essere in Isacco padre di molte genti.

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  3. Rispetto all’articolo “Dio non è ambiguo e non vuole un sacrificio umano - Seconda Parte (2/2)” (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/dio-non-e-ambiguo-e-non-vuole-un_30.html), avevo ravvisato, in alcune sue affermazioni, delle contraddizioni, scrivendo:
    «Nell’articolo, lei, Padre Giovanni, afferma:
    1) «Ripeto che il comando divino non è per nulla ambiguo, ma molto preciso: sacrificare Isacco.»
    2) ma più avanti lei scrive «Abramo riceve un ordine molto chiaro, anche se egli in buona fede crede che sia un ordine divino.» Ora, se Abramo “crede” che sia un ordine divino, lei lascia intendere che, in realtà, non lo è. Ma allora non è più vera l’affermazione del punto 1, dove lei afferma che il comando divino è precisamente sacrificare Isacco».
    Lei, nella prima parte di questo articolo, ha così replicato:
    «Se Abramo non avesse inteso come comando divino il sacrificio di Isacco, non si sarebbe accinto a farlo, e se lo avesse fatto avrebbe peccato. In questo senso, per Abramo, il comando divino non è per nulla ambiguo.»
    Quindi lei qui sostiene che la frase (1) “ripeto che il comando divino non è per nulla ambiguo ma molto preciso: sacrificare Isacco” si riferiva a come Abramo erroneamente aveva inteso il comando divino, e non quindi al comando divino in se stesso.
    Ma nell’articolo citato, lei pone quella frase subito dopo, e quindi a commento critico, della seguente frase del teologo Dionisio Candido:
    «[…] Ma avrebbe potuto fare diversamente e in un secondo tempo si sarebbe potuto giustificare appellandosi al senso letterale del comando di Dio: l’ambiguità dell’espressione divina glielo avrebbe consentito.»
    Ora se a fronte delle parole di Candido sull’ “ambiguità dell’espressione divina”, lei aveva sentito l’esigenza di puntualizzare che il comando divino non è per nulla ambiguo, è evidente che si riferiva al comando divino in se stesso che “non è ambiguo ma preciso: sacrificare Isacco”.
    Inoltre, lei inizia la frase con quel “ripeto”, rimandando chiaramente all’articolo precedente “Dio non è ambiguo e non vuole un sacrificio umano - Prima Parte (1/2)” (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/dio-non-e-ambiguo-e-non-vuole-un.html) dove aveva affermato:
    «c’è un grave equivoco: non è che Dio parli in modo ambiguo […] non possiamo ammettere è che Dio si sia espresso in maniera ambigua, perché se c’è un Essere che si esprime con inequivocabile chiarezza e precisione di significati, questo è proprio Dio […] un esegeta non può partire da una concezione di Dio che mette in dubbio la limpidezza della sua parola […] Dio è molto chiaro e non è affatto ambiguo, ma ordina formalmente ad Abramo di uccidere Isacco e Abramo capisce benissimo».
    Dunque, in questo primo articolo lei ha detto che il comando di Dio, in se stesso, non è ambiguo e ordina di uccidere Isacco. Nel successivo articolo, a fronte dell’espressione di Candido sull’ambiguità dell’espressione divina, lei ha detto: “Ripeto che il comando divino non è per nulla ambiguo, ma molto preciso: sacrificare Isacco”, confermando che il comando divino, in se stesso, non è ambiguo e ordina di uccidere Isacco.
    Ora, invece, in quest’ultimo articolo ci dice:” In questo senso, per Abramo, il comando divino non è per nulla ambiguo”, lasciando intendere che la non ambiguità del comando divino di uccidere Isacco, è “per Abramo” e non da riferirsi al comando divino in se stesso.

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    1. Deve riconoscere, Padre Giovanni, che la sua interpretazione lo porta inevitabilmente a continue difficoltà per cercare di conciliare, da una parte, un Dio che non è per nulla ambiguo, che si esprime con inequivocabile chiarezza e precisione di significati, con parola limpida e che comanda al patriarca di sacrificare un ariete, e dall’altra parte, un Abramo che recepisce quel comando come sacrificio del “figlio”, dell’”unico figlio che ama”, di “Isacco”. E come motiva questo gigantesco, enorme fraintendimento della parola divina da parte di Abramo?
      Rispondendo che è stato suggestionato da rituali di sacrifici umani dei popoli di quei tempi, ma non è una risposta sufficiente, tanto più che, come avevo già argomentato nel mio ultimo commento a https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/dio-non-e-ambiguo-e-non-vuole-un_30.html:
      «Abramo, quando riceve il comando di Genesi 22, aveva già, in precedenza, compiuto un sacrificio di animali su comando di Dio (Gen 15, 9-10) ma, in quel caso, le pratiche di sacrificio umano in uso all’epoca presso i cananei, non lo avevano minimamente influenzato. Come mai, tale condizionamento, così forte da fargli equivocare la parola divina inequivocabile, avverrebbe, nella coscienza di Abramo, solo in Genesi 22 e non anche in Genesi 15?»
      In ultima analisi, qual’ è il suo principale argomento per spiegare il “come” sia stato possibile il grossolano fraintendimento di Abramo, dinanzi a un Dio che comanda in modo assolutamente non ambiguo?
      Che il “sacrificare Isacco” è solo il significato letterale del comando poiché, siccome porterebbe ad una concezione divina in contrasto con la metafisica tomistica, grazie al metodo storico-critico possiamo ricondurlo a fraintendimento umano dovuto a condizionamenti della cultura del tempo e, poiché Dio ferma la mano di Isacco e fa comparire l’ariete da sacrificare, possiamo dedurre che il vero significato del comando divino era “sacrificare l’ariete” e non Isacco, anche perché Dio non può mutare atteggiamento.
      Questo ragionamento, che pure ha, lo riconosco, una sua coerenza, non risponde però alla domanda di come sia stato possibile il gigantesco, enorme fraintendimento della parola divina da parte di Abramo.
      Ripeto: “come” è stato possibile che Abramo abbia preso una “cantonata” (mi si perdoni l’espressione gergale) di questa portata, se Dio parla in modo inequivocabile? Lei risponde: Abramo doveva necessariamente ingannarsi perché altrimenti avremmo conseguenze inaccettabili secondo la metafisica, la teologia scolastica, ecc…
      In parole povere, alla domanda “come è stato possibile?” lei risponde “deve per forza esser stato possibile”, il che evidentemente non è una risposta esauriente al “come” il patriarca possa essersi così confuso da scambiare l’ariete per suo figlio.
      L’insufficienza nel motivare come sia stato possibile il presunto fraintendimento di Abramo resta un difetto insormontabile della sua proposta esegetica.

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    2. Caro Bruno,
      la proposizione “sacrifica tuo figlio” è chiarissima, inequivocabile e non è per nulla ambigua. E di fatto Abramo si accinge ad uccidere suo figlio.
      Il problema, a questo proposito, non è quello dell’ambiguità, ma si tratta di una questione di fraintendimento, cioè Abramo sente effettivamente nella sua coscienza questo comando. Senonché però egli, in buona fede, scambia per Parola di Dio un comando che in realtà non può venire da Dio, perché Dio non può volere un sacrificio umano e anche per il fatto che Dio gli aveva promesso in Isacco una discendenza.
      Ora, un Dio che si smentisce non può essere il vero Dio, ma è possibile che Abramo, sotto l’emozione di questo pensiero, che gli era venuto, sul momento non ha riflettuto che tale comando non poteva venire da Dio, il Quale si era già rivelato a lui.

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    3. Non bisogna confondere la chiarezza della frase “sacrifica tuo figlio”, con quella che è la limpidezza e chiarezza del parlare divino. È ovvio che Dio non è ambiguo nell’esprimersi. Ma nel contempo è evidente che quella frase è chiara.
      Ora, tra queste due tesi non c’è nessuna contraddizione, per il fatto che questa frase, in se stessa chiara, non entra affatto in opposizione con quanto Abramo capisce, perché purtroppo egli capisce alla rovescia, ossia fraintende. Vale a dire che questa frase, in se stessa chiara, non proviene da Dio, ma dalla buona fede di Abramo, che si inganna senza rendersene conto.
      Non è Dio che inganna con l’ambiguità, perché Dio, quando si rivela, si spiega benissimo e ci fa capire chiaramente che cosa vuole; è Abramo che prima si inganna, fraintendendo la vera volontà di Dio, volontà divina che poi riconosce nella voce dell’angelo.

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    4. È chiaro che Dio, quando parla, si spiega benissimo. Ma una frase chiara, come: “sacrifica tuo figlio”, benchè sia chiara, non può provenire da Dio, perché Dio non può volere sacrifici umani.
      Per quale motivo io mi riferisco alla metafisica? Perché, grazie ad essa, è possibile sapere che cosa è possibile e che cosa è impossibile riguardo alla natura divina e al suo agire. Si tratta certamente di un argomentare razionale, che però è assolutamente certo, per cui la Parola di Dio, che è verità assoluta, non può smentire questa certezza, perché la ragione ci è data da Dio stesso come quel cammino di verità che condiziona e prepara all’accesso alla fede, benchè questa sia un dono soprannaturale, che oltrepassa le capacità della ragione.
      Per questo la Chiesa, anche attraverso Papa Francesco, ci raccomanda tuttora lo studio di San Tommaso, perché la sua metafisica è particolarmente utile per comprendere la Parola di Dio.

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  4. Sempre nella prima parte di questo articolo, lei ha scritto:
    «Le mie osservazioni sono vere tutte e due, a patto che si distingua il senso letteralistico (Dio vuole il sacrificio di Isacco) dal senso letterale (Abramo intende come se Dio volesse il sacrificio di Isacco).»

    Secondo me, il significato letterale di Genesi 22,1 non è “Abramo aveva inteso che Dio gli comandasse il sacrificio di Isacco”, questa è precisamente la sua interpretazione, Padre Giovanni, non la lettera del testo.
    Il significato letterale è “per mettere alla prova Abramo, Dio gli comandò il sacrificio di Isacco” che, attenzione, non significa affatto che Dio voleva realmente la morte di Isacco, come ho già argomentato in più commenti (Dio vuole solo provare sino a che punto arriva la fede obbedienziale di Abramo).
    Quello che lei definisce il senso letteralistico, deriva dall’indebita equivalenza che lei compie tra “Dio comandò il sacrificio di Isacco” = “Dio vuole la morte di Isacco”, equivalenza che non è mai stata fatta dalla corretta interpretazione tradizionale, né da me: Dio non ha mai voluto la morte dell’innocente Isacco, ma questo non significa che non abbia potuto farlo credere ad Abramo per la durata della prova.
    Il cosiddetto “senso letteralistico”, contro cui lei si scaglia, secondo il quale “Dio vorrebbe inizialmente la morte di Isacco e poi cambierebbe idea”, in realtà non lo sostiene nessuno, anche se lei cerca sempre di attribuirlo, come conseguenza logica, a chi non condivide la sua interpretazione.
    Non me ne voglia… ma la mia sensazione è che, non sopportando che la sua interpretazione entri in contrasto col significato letterale del testo genesiaco, lei prende il senso letterale “per mettere alla prova Abramo, Dio gli comandò il sacrificio di Isacco”, lo rinomina come “senso letteralistico”, con chiaro intento dispregiativo, cambiandogli nel contempo il “comandò” in “vuole” e trascurando il “mettere alla prova”; procede poi a denominare invece “vero senso letterale”, quella che in realtà è la sua personale interpretazione: “Abramo aveva inteso che Dio gli comandasse il sacrificio di Isacco”.

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    1. Caro Bruno,
      quello che io ho chiamato letteralismo è quella che il documento della Commissione Pontificia Biblica chiama “Lettura fondamentalista”. Nel seguente brano, tratto dal documento, la Commissione spiega di che cosa si tratta:
      “F. Lettura fondamentalista
      La lettura fondamentalista parte dal principio che la Bibbia, essendo Parola di Dio ispirata ed esente da errore, dev'essere letta e interpretata letteralmente in tutti i suoi dettagli. Ma per “interpretazione letterale” essa intende un'interpretazione primaria, letteralista, che esclude cioè ogni sforzo di comprensione della Bibbia che tenga conto della sua crescita nel corso della storia e de suo sviluppo. Si oppone perciò all'utilizzazione del metodo storico-critico per l'interpretazione della Scrittura, così come ad ogni altro metodo scientifico.”
      https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19930415_interpretazione_it.html
      Il senso letterale, invece, è quello inteso dall’agiografo, ossia è il senso della verità rivelata, senso che l’agiografo esprime secondo le modalità espressive e la cultura del suo tempo. Per questo, per enucleare questo senso, occorre conoscere queste modalità espressive e questa cultura per coglierne i limiti ed eventualmente i difetti, sapendole tuttavia utilizzare per interpretare la Parola di Dio.
      In base a questa interpretazione, l’idea di un Dio che vuole sacrifici umani non è Parola di Dio, ma è un elemento culturale dell’agiografo, storicamente superata. Per questo, per interpretare il senso veramente letterale della proposizione “sacrifica tuo figlio”, bisogna sostituirla, spiegando che questa proposizione non è da addebitare a Dio stesso, ma è da considerare una convinzione soggettiva di Abramo.
      Vorrei aggiungere che ho parlato di letteralismo appunto rifacendomi al metodo di raccogliere parola per parola, come se ogni parola fosse ispirata da Dio, cosa che il Documento appunto esclude come sbagliata, anche se in passato questo metodo è stato usato moltissimo, ma esso ha provocato anche gravi inconvenienti, come avvenne nel caso di Galileo, nel quale si usava una interpretazione letteralistica di Gs 10,12: “fermati, o sole”. Galileo invece, sebbene a livello di ipotesi, fece quella che noi oggi chiamiamo “esegesi critica”.
      Come lei vede, anche in questo caso c’è stata una sostituzione delle parole di Gs 10,12, inquantoché Galileo scoprì che in realtà è la terra che gira attorno al sole. Questa intuizione primitiva di Galileo è stata perfezionata dalla moderna esegesi critica spiegando che quelle parole vanno interpretate così: “si combatté fino a tarda notte”. Questa interpretazione me la comunicò il mio docente di esegesi, il Padre Gianluigi Bernardo Boschi, OP, allorchè studiavo teologia.

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  5. A proposito della necessità di giungere ad una esegesi spirituale (simbolica, metaforica…) che superi il senso letterale del testo, io avevo scritto in un precedente commento (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/ancora-sul-sacrificio-di-abramo.html):
    «In altre parole (sicuramente le mie inadeguate) dovremmo leggere la richiesta ad Abramo di sacrificare il figlio, come se Dio gli avesse sostanzialmente detto:
    «Quanto è grande la tua fede per me, Abramo? Dimostramelo!”, e poi tra Sé “tu ancora credi che io possa accettare sacrifici umani. Ti mostrerò, successivamente, che mai stato così è stato, né mai dovrà esserlo, ma ora ti domando: “continueresti ad essermi fedele, se ti chiedessi in olocausto tuo figlio Isacco?”».
    Dio vuole testare quale è il limite della fede di Abramo e lo fa tramite la richiesta più estrema, più, oserei dire, disumana possibile, in rapporto a quella che è la mentalità dell’Abramo di allora.
    Poi, immediatamente dopo aver conosciuto quanto grande sia la fede di Abramo (che diverrà paradigmatica della fede granitica che smuove le montagne), Dio svela che quella richiesta, espressa in termini così paradossalmente estremi, perché in linea con quanto Abramo (e altri suoi contemporanei) erroneamente ritenevano plausibile, non dovrà mai più, nemmeno dubitativamente, essere ipotizzata come ben accetta da Dio.».

    Recentemente, ho scoperto che queste mie considerazioni, per quanto espresse in forma approssimativa e molto “alla buona”, sono in sintonia con questa bella frase di Beauchamp:

    «L’audacia del racconto è di attribuire a Dio l’antica imposizione. Come se Dio dicesse: tu hai dato di me questa immagine di crudeltà, ma sono venuto ad abitarla perché non c’era altro modo per liberartene».

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  6. Nel corso delle due parti di questo articolo lei tesse un elogio molto forte del metodo storico-critico (nominandolo ben 14 volte), al fine di una corretta esegesi.
    Certamente resta un metodo fondamentale, tuttavia ritengo sia opportuno precisare che: non deve essere considerato l’unico metodo da utilizzare per un’approfondita intelligenza della Scrittura, non è esente da limiti e da rischi, in passato il suo uso, da parte di parecchi esegeti, ha creato notevoli problemi per l’interpretazione del Nuovo Testamento, come denunciò Benedetto XVI:

    «I progressi della ricerca storico-critica condussero a distinzioni sempre più sottili tra i diversi strati della tradizione. Dietro di essi, la figura di Gesù, su cui poggia la fede, divenne sempre più nebulosa, prese contorni sempre meno definiti […] Chi legge di seguito un certo numero di queste ricostruzioni può subito constatare che esse sono molto più fotografie degli autori e dei loro ideali che non la messa a nudo di una icona fattasi sbiadita […] Rudolf Schnackenburg, forse il più importante esegeta cattolico di lingua tedesca della seconda metà del XX secolo […] alla fine del libro [La persona di Gesù Cristo nei quattro evangeli], quale risultato di una ricerca durata una vita afferma: “Mediante gli sforzi della ricerca coi metodi storico-critici non si riesce o si riesce solo in misura insufficiente a raggiungere una visione affidabile della figura storica di Gesù di Nazaret” […] Il metodo storico-critico è una delle dimensioni fondamentali dell’esegesi, ma non esaurisce il compito dell’interpretazione per chi nei testi biblici vede l’unica Sacra Scrittura e la crede ispirata da Dio […]. È importante che vengano riconosciuti i limiti dello stesso metodo storico-critico […] Insieme con il limite è divenuto evidente - così almeno spero – che il metodo per la sua stessa natura rimanda a qualcosa che lo supera e porta in sé un’intrinseca apertura verso metodi complementari» (Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, 2006, pag. 8-14).

    Precedentemente, san Giovanni Paolo II aveva messo in guardia chi esalta un solo metodo esegetico:

    «Non è da sottovalutare, inoltre, il pericolo insito nel voler derivare la verità della sacra Scrittura dall’applicazione di una sola metodologia, dimenticando la necessità di una esegesi più ampia che consenta di accedere, insieme con tutta la Chiesa, al senso pieno dei testi» (Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 55: AAS 91 (1999), 49-50).

    Infine, la Pontificia Commissione Biblica nel documento “L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa” (1993) afferma:

    «Nessun metodo scientifico per lo studio della Bibbia è in grado di far emergere tutta la ricchezza dei testi biblici. Qualunque sia la sua validità, il metodo storico-critico non può avere la pretesa di essere sufficiente per tutto. Esso lascia necessariamente nell'ombra numerosi aspetti degli scritti che studia. […] Mettendo a profitto i progressi fatti nel nostro tempo dagli studi linguistici e letterari, l'esegesi biblica utilizza sempre di più nuovi metodi di analisi letteraria, in particolare l'analisi retorica, l'analisi narrativa e l'analisi semiotica […] Il metodo storico-critico, infatti, non può pretendere di avere il monopolio, ma deve prendere coscienza dei suoi limiti, come pure dei pericoli cui può andare incontro».

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    1. Caro Bruno,
      non ho difficoltà a riconoscere che accanto al metodo storico-critico ce ne sono altri, come insegna lo stesso Documento della Commissione Biblica Pontificio, già citato.
      Credo ad ogni modo che il concetto di metodo storico-critico possa essere inteso in un senso ampio, che abbraccia anche gli altri. Infatti la parola “critico” non significa altro, in generale, che l’uso attento e scientifico della ragione, cosa che evidentemente vale in tutti i campi del sapere. Quanto al termine “storico”, similmente fa riferimento alle indagini riferite al passato e a dati di fatto, in modo tale che possono essere coinvolti anche gli atri metodi.
      In secondo luogo, stando all’insegnamento del Documento, i vari metodi hanno ognuno una funzione propria. Mi sono accorto che, per interpretare il passo che stiamo esaminando, il metodo storico-critico mi sembra il migliore, perché da una parte tiene conto della storia del concetto di Dio, per cui si passa da un Dio che vuole sacrifici umani alla concezione attuale di Dio, che non li vuole.
      Dall’altra l’interpretazione suppone una critica metafisica, che metta in luce in modo rigoroso un concetto della divinità tale da potere escludere assolutamente la possibilità che essa voglia la morte dell’uomo, quando è Dio stesso che nel V Comandamento comanda di non uccidere.

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  7. Lei ha scritto:
    «Quanto poi a dire che “quella prova, richiesta da Dio, non si sarebbe potuta realizzare se non tramite la prima richiesta”, è una supposizione del tutto gratuita, per il fatto che Dio poteva ordinare immediatamente ad Abramo di sacrificare un ariete, senza farlo passare dal primo momento della prova».

    Ora, se lei scrive che “Dio poteva ordinare immediatamente ad Abramo di sacrificare un ariete, senza farlo passare dal primo momento della prova”, significa dunque che “Dio non ha ordinato subito di sacrificare l’ariete”, ma questo contraddice quanto lei ha sostenuto si dall’inizio di questa discussione sul sacrificio di Abramo, ovvero che Dio aveva comandato ad Abramo il sacrificio di un animale, di un ariete, ma il patriarca, condizionato da usanze dell’epoca, fraintese quella richiesta convincendosi che Dio volesse il sacrificio di suo figlio.
    Per esempio, quando ha scritto nell’articolo del 4 luglio scorso (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/ancora-sul-sacrificio-di-abramo.html):

    «certamente Dio vuole che Abramo compia un sacrificio, ed Abramo è esemplare nell’obbedire, ma Dio non vuole assolutamente un sacrificio umano e questo appare evidente, perché quando Abramo capisce, si rende conto che in realtà Dio non aveva voluto il sacrificio di Isacco, ma il sacrificio dell’ariete».

    Oppure quando lei ha scritto nell’articolo del 26 agosto (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/nel-sacrificio-di-abramo-dio-non-si_27.html):

    «Il fatto è che Abramo non capisce subito che Dio voleva il sacrificio dell’ariete, ma c’è voluta la rivelazione dell’angelo perchè comprendesse».

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  8. Sul mio commento in cui dicevo:
    «Quanto al “contrordine” che Dio non può dare, pena il contraddirsi, ho già replicato in
    https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/abramo-maestro-di-liberta-religiosa.html»
    Lei ha replicato:

    «Anche il mutamento della situazione emotiva di Abramo non ha nessuna incidenza risolutiva nella nostra discussione, perché è un elemento del tutto estrinseco al contenuto del comando divino ut littera sonat».

    Replico a mia volta che il cambiamento che avviene in Abramo, tra il comando divino di Genesi 22,1 che dà inizio alla prova, e l’intervento dell’angelo che ne sancisce la fine (e il superamento con successo) della stessa, non è puramente emotivo o da limitare alla sola sofferenza provata, che pure ha la sua importanza. E’ un cambiamento di maturazione morale e di fede. Come avevo scritto:

    «Nel momento in cui Abramo riceve il primo comando per testare la grandezza della sua fede, egli è l’uomo che sinora ha obbedito a Dio, lasciando Ur dei Caldei per la terra di Canaan (Gen 12, 5-9), gli è stata frequentemente rinnovata la promessa di Dio (Gen 13, 14-18; 15, 1-17) culminante nell’imposizione del nuovo nome Abraham (“padre di un popolo”), nell’istituzione della circoncisione (Gen 17, 11-14), e infine nella promessa di una generosa discendenza, nonostante l’età avanzata sua e della moglie Sara, realizzatasi nella nascita del tanto amato Isacco.
    Eppure, agli occhi di Dio, Abramo, non ha ancora dimostrato se la sua fede metta davvero Dio al di sopra di tutto, oppure sia soprattutto riconoscenza di quanto ricevuto, che finisce per essere attaccamento più ai doni che al Donatore».

    Dunque, sino a quel momento, Abramo aveva ricevuto soltanto doni dal Signore, che lo aveva aiutato in molteplici difficili situazioni, e dunque la fede e l’amore di Abramo erano in qualche modo fermi alla dimensione della riconoscenza, della gratitudine… al “ti voglio bene fintantoché Tu mi fai del bene, ti rispetto e ti obbedisco, non per Te stesso, non in modo disinteressato, gratuito ma perché sinora è conveniente”.

    «E cosa avviene dopo il primo comando?
    Che Abramo affronta tre giorni di inferno: sella l’asino che sa li porterà nel luogo previsto per l’olocausto, spacca la legna su cui dovrà bruciare il corpo del figlio, si mette in viaggio, avvista infine quel luogo maledetto, allontana i servi perché è troppo gelosamente intimo ciò che sta per avvenire, prosegue solo col figlio, la legna e il coltello e, dolorosissima, gli arriva la domanda di Isacco “ma dov’è l’agnello per l’olocausto?”[…] ed infine, la “passione” di Abramo raggiunge il suo climax, colla sua mano che brandisce il coltello, che significa “Dio, contro tutto, nella disperazione più assoluta, io confido in Te”».

    In un altro commento avevo scritto:
    «L’affermazione dell’angelo/voce di Dio “Ora so che tu temi Dio …” conferma inequivocabilmente, che prima dell’inizio della prova, Abramo non aveva ancora dimostrato sino a che punto poteva arrivare il suo fidarsi di Dio. Il momento in cui Isacco è legato alla legna dell’altare ed Abramo impugna il coltello, coincide con quell’”ora so”, che il Signore sancisce come superamento della prova, fermando la mano del patriarca.

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    1. Dunque, tra il primo comando di richiesta del sacrificio che dà inizio alla prova e il secondo che la fa terminare, la situazione di Abramo davanti a Dio è davvero cambiata (e umanamente a che prezzo!). Pertanto, non è corretto vedere i due comandi, in contraddizione l’uno con l’altro, in quanto avvengono, ciascuno, in una situazione diversa di Abramo […] Di più, non solo i due comandi non sono in contraddizione, ma possiamo dire che sono strettamente collegati, gerarchicamente dipendenti l’uno dall’altro: non sarebbe stato possibile il secondo, che pone fine alla prova, se non fosse stato preceduto, a suo tempo, dal primo, che pone le condizioni e dà inizio alla prova stessa.

      Soltanto se le due frasi vengono estrapolate dal loro contesto e messe immediatamente in sequenza, l’una dopo l’altra, ci troveremmo davanti ad una contraddizione, ma questo significherebbe operare una semplificazione che, non considerando proprio quanto avviene nella prova, finirebbe per stravolgere quanto è narrato in Genesi 22.»

      Al termine della prova, Abramo è maturato profondamente nella fede, ha dimostrato di aver imparato ad amare Dio sopra ogni cosa, indipendentemente da qualsiasi dono ci faccia, ed anche se sembra chiederci la cosa per noi più dolorosa.

      In conclusione, il comando di fermare il sacrificio del figlio, non contraddice il primo comando ma sancisce il superamento di quella prova, richiesta da Dio, che non si sarebbe potuta realizzare se non tramite la prima richiesta, sicché la problematica per cui nell’interpretazione tradizionale sembra che Dio dia un ordine e poi un contrordine, non sussiste. E questo ha la sua incidenza sulla nostra discussione.

      Anche in questo caso, come già scritto in un precedente commento, non possiamo né dobbiamo limitarci alla definizione astratta di “contrordine”, ma verificare col discernimento quando effettivamente debba essere applicato.

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  9. A proposito della necessità di giungere ad una esegesi spirituale (simbolica, metaforica…) che superi il senso letterale del testo, io avevo scritto in un precedente commento (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/ancora-sul-sacrificio-di-abramo.html):

    «In altre parole (sicuramente le mie inadeguate) dovremmo leggere la richiesta ad Abramo di sacrificare il figlio, come se Dio gli avesse sostanzialmente detto:
    «Quanto è grande la tua fede per me, Abramo? Dimostramelo!”, e poi tra Sé “tu ancora credi che io possa accettare sacrifici umani. Ti mostrerò, successivamente, che mai stato così è stato, né mai dovrà esserlo, ma ora ti domando: “continueresti ad essermi fedele, se ti chiedessi in olocausto tuo figlio Isacco?”».
    Dio vuole testare quale è il limite della fede di Abramo e lo fa tramite la richiesta più estrema, più, oserei dire, disumana possibile, in rapporto a quella che è la mentalità dell’Abramo di allora.
    Poi, immediatamente dopo aver conosciuto quanto grande sia la fede di Abramo (che diverrà paradigmatica della fede granitica che smuove le montagne), Dio svela che quella richiesta, espressa in termini così paradossalmente estremi, perché in linea con quanto Abramo (e altri suoi contemporanei) erroneamente ritenevano plausibile, non dovrà mai più, nemmeno dubitativamente, essere ipotizzata come ben accetta da Dio.»

    Successivamente ho scoperto che queste mie considerazioni, per quanto espresse in forma approssimativa e molto “alla buona”, sono in sintonia con questa bella frase di Beauchamp:
    «L’audacia del racconto è di attribuire a Dio l’antica imposizione. Come se Dio dicesse: tu hai dato di me questa immagine di crudeltà, ma sono venuto ad abitarla perché non c’era altro modo per liberartene».

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  10. Lei ha scritto:
    «Quanto poi a dire che “quella prova, richiesta da Dio, non si sarebbe potuta realizzare se non tramite la prima richiesta”, è una supposizione del tutto gratuita, per il fatto che Dio poteva ordinare immediatamente ad Abramo di sacrificare un ariete, senza farlo passare dal primo momento della prova».

    Ora, se lei scrive che “Dio poteva ordinare immediatamente ad Abramo di sacrificare un ariete, senza farlo passare dal primo momento della prova”, significa dunque che “Dio non ha ordinato subito di sacrificare l’ariete”, ma questo contraddice quanto lei ha sostenuto si dall’inizio di questa discussione sul sacrificio di Abramo, ovvero che Dio aveva comandato ad Abramo il sacrificio di un animale, di un ariete, ma il patriarca, condizionato da usanze dell’epoca, fraintese quella richiesta convincendosi che Dio volesse il sacrificio di suo figlio.
    Per esempio, quando ha scritto nell’articolo del 4 luglio scorso (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/ancora-sul-sacrificio-di-abramo.html):

    «certamente Dio vuole che Abramo compia un sacrificio, ed Abramo è esemplare nell’obbedire, ma Dio non vuole assolutamente un sacrificio umano e questo appare evidente, perché quando Abramo capisce, si rende conto che in realtà Dio non aveva voluto il sacrificio di Isacco, ma il sacrificio dell’ariete».

    Oppure quando lei ha scritto nell’articolo del 26 agosto (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/nel-sacrificio-di-abramo-dio-non-si_27.html):

    «Il fatto è che Abramo non capisce subito che Dio voleva il sacrificio dell’ariete, ma c’è voluta la rivelazione dell’angelo perchè comprendesse».

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  11. A proposito della necessità di giungere ad una esegesi spirituale (simbolica, metaforica…) che superi il senso letterale del testo, io avevo scritto in un precedente commento (https://padrecavalcoli.blogspot.com/p/ancora-sul-sacrificio-di-abramo.html):
    «In altre parole (sicuramente le mie inadeguate) dovremmo leggere la richiesta ad Abramo di sacrificare il figlio, come se Dio gli avesse sostanzialmente detto:
    «Quanto è grande la tua fede per me, Abramo? Dimostramelo!”, e poi tra Sé “tu ancora credi che io possa accettare sacrifici umani. Ti mostrerò, successivamente, che mai stato così è stato, né mai dovrà esserlo, ma ora ti domando: “continueresti ad essermi fedele, se ti chiedessi in olocausto tuo figlio Isacco?”».
    Dio vuole testare quale è il limite della fede di Abramo e lo fa tramite la richiesta più estrema, più, oserei dire, disumana possibile, in rapporto a quella che è la mentalità dell’Abramo di allora.
    Poi, immediatamente dopo aver conosciuto quanto grande sia la fede di Abramo (che diverrà paradigmatica della fede granitica che smuove le montagne), Dio svela che quella richiesta, espressa in termini così paradossalmente estremi, perché in linea con quanto Abramo (e altri suoi contemporanei) erroneamente ritenevano plausibile, non dovrà mai più, nemmeno dubitativamente, essere ipotizzata come ben accetta da Dio.».
    Peraltro, ho successivamente scoperto che queste mie considerazioni, per quanto espresse in forma approssimativa e molto “alla buona”, sono in sintonia con questa bella frase di Beauchamp:
    «L’audacia del racconto è di attribuire a Dio l’antica imposizione. Come se Dio dicesse: tu hai dato di me questa immagine di crudeltà, ma sono venuto ad abitarla perché non c’era altro modo per liberartene».

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