Riflessioni sul composto umano - Prima Parte (1/3)

Riflessioni sul composto umano

Prima Parte (1/3)

O Dio, tu sei il mio Dio, all’aurora ti cerco,
di te ha sete l’anima mia,
a te anela la mia carne,
come terra deserta, arida, senz’acqua
Sal 63,2 

Nozioni bibliche indispensabili 

Per capire che cosa veramente la Bibbia insegna su questa vitale questione del composto umano e quindi della natura e della persona umana, nonchè la tematica morale ad essa connessa, bisogna fare attenzione a non confondere, nell’interpretare la Scrittura, il significato dei termini col significato dei concetti. Infatti la Scrittura usa spesso i termini anima, spirito, vita, carne, cuore e corpo per indicare l’uomo tutto intero, ossia in senso sineddotico; ma ciò non significa assolutamente, come credono certi esegeti sprovvisti di preparazione filosofica, che la Bibbia non distingua l’anima dal corpo e che per essa l’uomo non sia un vivente composto di anima e di corpo.

Certo la Bibbia è preoccupata di insegnare l’unità originaria, voluta da Dio, della persona umana, segnalata anche da Aristotele, ma ci avverte con altrettanta saggezza che di fatto, nel presente stato di natura decaduta, esiste un triste dualismo, segnalato da Platone, di anima e corpo; essi sono in conflitto tra di loro. È quello che San Paolo chiama contrasto fra la carne e lo spirito, che con la morte comporta la separazione dell’anima dal corpo, per cui mentre l’anima continua a vivere, il corpo si dissolve. Tutto ciò nella Bibbia è chiarissimo.

Se invece la Bibbia concepisse l’uomo, a detta di certi esegeti, come un tutt’uno, come assoluta unità di spirito e corpo, al momento della morte l’individuo dovrebbe dissolversi completamente, come gli animali. Il pezzo forte di questi esegeti grossolani sono i famosissimi pensieri del Qohelet, celebrati da tutti materialisti e i disperati, pensieri che essi innalzano a livello di dogma, e invece non sono altro che delle miserevoli considerazioni, contrastanti con tutto il resto della Bibbia, di un’anima afflitta, amareggiata, sfiduciata e delusa, che però alla fine si risolleva, rinsavisce e capisce di dover confidare in Dio ed obbedire alla sua legge. Il Qohelet dà un grande insegnamento di come si passa dalla disperazione alla speranza e non è l’apologia dell’esistenzialismo sartriano o del nichilismo di Leopardi.

Altro errore di certi esegeti è quello di scambiare per dato rivelato i limiti della mentalità semitica con la quale il dato viene espresso e a volte falsato. Per capire veramente che cosa la Scrittura insegna sull’anima e il corpo, sulla loro distinzione ed unione e sul loro contrasto nella presente condizione di vita a seguito del peccato, occorre accostarsi al testo biblico con una buona preparazione filosofica, perché il dato di fede non contrasta con quello razionale, ma lo conferma e lo purifica.

Per questo l’antropologia di Platone e di Aristotele, purificata e corretta da San Tommaso d’Aquino alla luce del dogma e del dato rivelato, si mostra filosoficamente meglio fondata della rozza concezione dell’agiografo, che riflette una mentalità semitica, che niente ha a che vedere con la verità della Parola di Dio. In questa circostanza possiamo constatare più che mai quanto è importante la luce che il Magistero della Chiesa getta su di una questione di così vitale importanza come quella del composto umano, chiarendo con la dogmatica, che citerò sotto, che cosa la Bibbia, come divina rivelazione e non come collezione di semitismi, veramente intende dire.

Particolare attenzione va data ad alcuni termini biblici attinenti al corpo e all’anima. In ebraico il termine basar significa tanto carne (gr. sarx) quanto corpo (gr. soma). Anima invece si esprime in ebraico con nefesh o neshamà per l’anima degli animali, quella che San Paolo chiama psychè; invece si indica con rùach, gr. pneuma l’anima spirituale.

Il Genesi descrive la creazione dell’uomo come l’atto col quale Dio insuffla lo spirito nel corpo dell’uomo da Lui precedentemente plasmato dalla «polvere del suolo». Questa descrizione va ben compresa, perché sembra che la creazione avvenga in due tempi: prima Dio, come una specie di artigiano, plasma il corpo umano e poi vi aggiunge l’anima e il corpo da non vivente diventa vivente. È chiaro che si tratta di una descrizione mitica da non prendere alla lettera, giacchè è evidente, se vogliamo attenerci alla realtà delle cose, che Dio non crea l’anima infondendola in un presupposto corpo umano non-vivente, ma infondendola in una materia adatta.

Questa polvere del suolo potrebbe corrispondere a quella che Pio XII chiama iam exsistente ac vivente materia, nella quale Dio avrebbe infuso l’anima umana. Che cosa potrebbe essere questa precedente materia vivente?  Oggi come oggi si può dire che Dio crea immediatamente l’anima umana informando lo zigote, del quale però ai tempi dell’agiografo non si sapeva nulla.

Oppure Dio potrebbe avere infuso l’anima della coppia primitiva allo stato adulto in una coppia di viventi infraumani precedenti. La prima ipotesi è certamente da scartare. Essa vale per tutti i discendenti dalla coppia originaria, ma non per lei, perché non è pensabile che essa abbia avuto per genitori questi viventi inferiori, i quali non sarebbero certamente stati in grado di educare la coppia, la quale viceversa fu creata allo stato adulto e quindi di piena perfezione intellettuale e morale.

L’anima non si unisce al corpo come se questo corpo fosse già formato, appunto perché è lei a dar forma al corpo. L’anima si unisce come forma sostanziale alla materia prima e come animatrice e vivificatrice si unisce allo zigote, che con ciò stesso abbandona la sua anima vegetativa per assumere l’anima razionale.

Nel composto di materia e forma, e quindi anche nel composto umano materia e forma si attirano e si causano a vicenda: la materia fa da soggetto alla forma; la forma determina ed attua la materia. La materia dice tendenza alla forma; la forma, se è forma della materia, dice propensione a dar forma alla materia.

Come è noto, Dio crea l’uomo a sua immagine e somiglianza, maschio e femmina (Gen 1,27). Chiaramente si riferisce all’anima, giacchè Dio è spirito e l’uomo non può essere ad immagine di Dio anima e corpo. Indubbiamente questa concezione dell’anima somigliante a Dio è propria della Scrittura, per quanto già Platone ed Aristotele avessero intuìto la grande dignità del nus, del logos e della psychè.

Che l’uomo sia creato ad immagine e somiglianza di Dio vuol dire che è creato come sostanza personale simile alla personalità divina, col desiderio e il bisogno di vedere Dio e unirsi a lui, un bisogno di conoscere e di amare, di unione intenzionale e reale, similmente a come uomo e donna desiderano vedersi e unirsi, stando al paragone istituito dal Cantico dei Cantici. Certamente si tratta di un bisogno dell’anima, un bisogno spirituale poiché Dio è spirito e può essere desiderato solo dallo spirito.

Anche il corpo ha i suoi bisogni, che però sono solo fisici. Il bisogno di Dio è inscindibile dall’amore per il prossimo, poiché il prossimo è immagine di Dio e torna allora l’amore fra uomo e donna, che è il più intimo, perfetto e soddisfacente che possa esistere fra due persone umane.

Dall’anima e dal corpo nasce dunque spontaneamente e naturalmente una pluralità ordinata e gerarchizzata di forze vitali, spirituali, sensitive e neurovegetative, le quali fanno sì che il vivente trascenda se stesso, superi i limiti della sua forma naturale, acquisti intenzionalmente mediante la conoscenza le forme delle altre cose materiai e spirituali, fino ad innalzarsi alla conoscenza di Dio nella ragione e nella fede, così da desiderare Dio come la cerva assetata anela al corso d’acqua.

In questa meravigliosa ed armoniosa pluralità di espansioni e irraggiamenti fisici, ontologici ed intenzionali occorre distinguere i bisogni dalle inclinazioni, dalle aspirazioni, dalle esigenze, dagli impulsi e dalle attrattive. Il bisogno si riferisce a qualcosa che mantiene in vita, per esempio il bisogno del nutrimento, del sonno, dell’amore.

L’inclinazione è il moto dell’agente verso qualche fine sensibile o spirituale, è una propensione insita nella facoltà a fare o ad agire secondo il fine di quella facoltà, per esempio procreare per il sesso, nutrirsi nel campo dell’alimentazione, socializzare, fare del bene, autoperfezionarsi ed onorare Dio nell’agire morale.

L’aspirazione è un moto della volontà e dell’appetito sensitivo verso qualche bene possibile o realizzabile, che ancora non si possiede, ma che si sa che fa bene e quindi se ne desidera e si spera il possesso o di poterlo praticare. L’impulso è una spinta, uno stimolo o una sollecitazione fisica, psichica o spirituale all’azione proveniente dal fine amato e desiderato. Può essere un impulso dell’istinto oppure dello spirito. L’attrattiva è il potere che un bene materiale o spirituale utile, onesto o piacevole ha di far presa su di noi e di invogliarci a conseguirlo e a fruirne.

In Gen 2,7 Dio plasma l’uomo utilizzando la materia del suolo e vi aggiunge lo spirito (rùach), sicchè l’uomo diventa una sostanza vivente (neshamà). Si potrebbe qui trovare un possibile aggancio alla teoria dell’evoluzione, la quale sostiene che Dio avrebbe creato l’anima umana, spirituale, aggiungendola ad un precedente vivente animale, come è insinuato da Pio XII nell’enciclica Humani Generis allorchè parla di una iam exsistente ac vivente materia.

L’intento dell’Autore biblico non è tanto quello di descrivere il fatto dell’evoluzione dalla scimmia all’uomo, cosa che Pio XII autorizza a poter ipotizzare, ma che assai difficilmente può essere venuta in mente all’Autore biblico, quanto piuttosto quello di narrare in una forma plastica il fatto della creazione.

Un termine biblico vicino a quello di anima è quello di «cuore» (ebr. leb). Naturalmente il rimando immediato è quello di cuore nel senso materiale. Ma è molto importante il senso metaforico. Cuore, allora, è l’irraggiarsi o emanare delle potenze dell’anima dall’anima stessa, con riferimento all’intelletto, alla volontà, alla coscienza morale, al sentimento, all’affettività, alle emozioni, alle passioni.

Per quanto riguarda il significato del termine carne, nella Scrittura esso ha diversi significati: anzitutto la carne è a parte materiale, soprattutto la parte molle e commestibile dell’animale.  In secondo luogo carne è la creatura umana, nella sua fragilità, peccaminosità e fallibilità. In terzo luogo, soprattutto in San Paolo, la carne è messa in contrasto con lo spirito a significare due moti psicologici e morali contrastanti all’interno della volontà umana.

Grande balzo, poi, nei confronti dell’antropologia greca, come sappiamo, è quello compiuto dalla Bibbia con la dottrina della resurrezione del corpo maschile e femminile. Non solo al dualista Platone, ma neppure all’ilemorfista Aristotele viene in mente anche solo di prospettare la sola possibilità della resurrezione del corpo, benché egli si renda conto che la felicità umana comporta il possesso di tutti i beni dell’anima e di quelli del corpo.

Ma appunto per questo Aristotele giudica impossibile che l’uomo raggiunga la felicità. Egli deve accontentarsi in questa vita di contemplare il Motore immobile e la bellezza dell’universo fisico. Per Aristotele il nus è immortale. Ma non osa pronunciarsi su quale potrà essere la sorte del nus dopo la morte, perché Aristotele è ben consapevole che l’uomo è composto di anima e corpo, per cui che felicità potrà avere nell’al di là una forma senza la sua materia? Nell’Ade non c’è felicità, ma tristezza per aver abbandonato quel corpo che contribuiva ad avere quel poco di felicità che si può avere su questa terra.

Per Platone, al contrario l’anima, liberatasi dal carcere del corpo, è beata nella contemplazione delle Idee. Dal suo punto di vista è infatti assurdo che essa, una volta liberatasi dal corpo, desideri tornare nel carcere dov’era prima.

San Tommaso, dal canto suo, per poter concepire la resurrezione del corpo, metterà a confronto la concezione platonica dell’anima con quella aristotelica e si accorgerà che la concezione che veramente si adatta col dogma della resurrezione, è quella aristotelica, perché, sebbene Aristotele non abbia mai pensato alla resurrezione del corpo, tuttavia oggettivamente, senza rendersene conto, ne lascia aperta almeno la possibilità, sapendo bene che la sola anima separata non è la totalità della natura umana.

Bastava che egli avesse avuto presente la bontà divina verso l’uomo e avrebbe potuto capire che Dio ha la possibilità di far risorgere l’uomo dalla morte. Ma purtroppo il Dio di Aristotele non s’interessa delle cose singole contingenti, quale è pure l’uomo, ma solo delle essenze universali e degli eterni, in ciò riprendendo Platone, e soprattutto s’interessa di se stesso, che, secondo Aristotele, è il degno Oggetto del suo pensiero. E ciò si comprende: mancando la consapevolezza che Dio è il creatore anche delle minime cose, Aristotele non ha pensato che se ne potesse anche prendersene cura. 

Esistono dogmi che aiutano l’antropologia

 a far chiarezza sulla costituzione ontologica dell’essere umano

 

Stanti le gravi difficoltà che riguardano la questione del composto umano, il Magistero della Chiesa, soprattutto a partire dal sec. XIII, ha iniziato a illuminarci sul vero senso degli insegnamenti biblici riguardanti l’arduo argomento, prendendo spunto dal grave fenomeno del catarismo, diffuso in quel tempo soprattutto nel sud della Francia, e  che fu uno dei primi problemi dottrinali affrontati dal nascente Ordine Domenicano, che successivamente, con Tommaso d’Aquino, avrebbe offerto uno splendo patrimonio dottrinale su questo tema successivamente approvato su alcuni punti dallo stesso Magistero della Chiesa.

Così il Concilio Lateranense IV del 1215, dopo aver detto che Dio è il creatore delle cose visibili, ossia delle sostanze corporali, il mondo della natura fisica; e delle cose invisibili, ossia della creatura spirituale, la creatura angelica, il puro spirito creato, aggiunge che è il creatore della creatura umana, costituita quasi comune di spirito e corpo (quasi commune ex spiritu et corpore, Denz. 800) o, come si dice comunemente, di anima e corpo.

Secondo il Concilio, dunque, tutta la realtà creata si divide in due sommi generi di enti: la sostanza materiale e la sostanza spirituale. A questi due sommi generi si aggiunge una sostanza speciale, che risulta dall’unione dei due generi: l’uomo, composto di spirito e corpo. È interessante che il Concilio, trattando dell’ente creato in generale, dà più importanza alla distinzione fra corpi e spiriti che non fra sostanza e accidenti, distinzione che invece per Aristotele, è la prima distinzione che occorre fare nell’ente. Perché questa differenza?

Anche Aristotele parla della forma separata e del composto di materia e forma. Tuttavia egli distingue il punto di vista trascendentale o metafisico da quello categoriale dei generi e delle specie.  Effettivamente dal primo punto di vista l’ente si divide in sostanza e accidente, mentre la distinzione fra spirito e corpo appartiene al piano dei generi. Ma al Concilio non interessa tanto fare un discorso metafisico, quanto piuttosto un discorso teologico, ossia porsi sul piano dell’esistenza dell’ente e distinguere l’ente creato dall’increato, cosa a cui Aristotele non arriva.

La distinzione sostanza-accidente è fondamentale per la creatura materiale o spirituale, ma non esiste in Dio, che è purissima sostanza, perché l’accidente suppone l’ente composto di essenza come potenza ed essere come atto, dove l’essenza è la sostanza e l’essere è accidente, mentre Dio è puro atto di essere senza potenza di essere, per cui in lui l’essenza coincide con il suo essere e nessun accidente si aggiunge all’essenza, perché essa è già da sé l’essere perfettissimo.

Occorre distinguere potenza passiva da potenza attiva. La potenza passiva è un’imperfezione; è il poter essere: così l’essenza creata è potenza di essere rispetto al suo essere in atto, che la attua in forza dell’atto creativo divino. Potenza attiva, invece, è una perfezione, è un compimento; è poter fare, muovere o agire, che discende dalla forma della sostanza agente: così per esempio l’animale agisce da animale; l’uomo agisce da uomo e Dio agisce da Dio. Tuttavia anche la potenza attiva non è un compimento ultimo, perché sia Dio che la creatura sono sempre in azione, ma hanno nel contempo un potere di agire che non sempre mettono in atto.

La distinzione sostanza-accidenti è invece essenziale nel trattare dei corpi e degli spiriti e quindi dell’anima umana, composta di essenza e potenze o facoltà, che sono accidenti non certo contingenti ma essenziali alla natura della stessa anima. L’anima, infatti, come vedremo, è pura forma, è solo causa formale, mentre la causa del moto e dell’azione nell’uomo sono le facoltà.

Il Concilio non nega affatto la distinzione fra sostanza e accidente, ma, ponendosi dal punto di vista dell’esistenza degli enti, nota che gli enti creati sono distinguibili in spiriti e corpi – riconosciuti anche da Aristotele – con l’intento di affermare che gli uni e gli altri, compreso l’uomo composto di spirito e corpo, sono creati da Dio, cosa che ad Aristotele non è venuta in mente, perchè egli si chiede quale è la causa del moto e del divenire, ma non quella dell’essere.

Tuttavia Aristotele, col suo concetto metafisico dell’ente in quanto ente, non fu lontano dallo scoprire il concetto di creazione, giacchè Dio è precisamente la causa dell’ente contingente. Inoltre per Aristotele la materia è imperfezione e la forma è sì un qualcosa di divino, ma non è Dio, che invece, come si sa, per Aristotele è il motore immobile, pensiero del pensiero, vita assoluta, beata ed immortale.

Tuttavia Aristotele, come Platone, non si domanda qual è la causa della materia e della forma. Le dà per scontate, come se esistessero da sempre per conto proprio. Però Aristotele compie almeno un progresso rispetto a Platone, perché per lui la materia non è né una semplice assenza di essere, un semplice vuoto (cora), né principio del male, né ostile allo spirito, ma appartiene all’orizzonte dell’essere, è quindi è buona; il male proviene dalla cattiva volontà, e quindi la materia può e deve conciliarsi con lo spirito.

Quindi Aristotele pone almeno le condizioni ontologiche per concepire la materia come creata da Dio. L’unione di materia e spirito nell’uomo, per lui, non è accidentale, ma necessaria a costituire la natura umana e fondare la sua felicità fatta di azioni spirituali e azioni fisiche, di piacere spirituale e di piacere fisico.

Come si sa, per Aristotele, l’uomo appartiene al genere sostanza corporea e per la precisione sostanza animale; non è uno spirito incarnato, ma un corpo animato. L’uomo è un’unica sostanza, benché composta, di materia e forma, di sostanza e accidenti; non è la congiunzione infelice e temporanea di due sostanze incompatibili fra di loro.  Ma è la congiunzione di una forma con la sua materia, materia adatta a quella forma, forma adatta a quella materia.

Razionale, per Aristotele, non è nell’uomo la sua sostanza o la sua essenza, non è soggetto, non è ente completo, ma è accidente proprio ed essenziale; è la differenza specifica, ciò che fa sì che l’uomo sia uomo, ciò per cui si dà la definizione dell’uomo: animale ragionevole. Aristotele ha anche l’altra definizione: animale politico (politikòn zoon).

Che vuol dire? Che la ragione è il principio della socialità umana, in quanto essa comporta un confronto di pensieri con l’altro, in modo tale che la volontà appetisce al bene comune concepito nel dialogare con l’altro. Ha qui una grande parte la famosa dialettica aristotelica, che si potrebbe definire l’arte del dialogo e della discussione, della comune ricerca della verità. La ragion pratica, tradotta in azione dalla volontà, è quindi il principio della relazione interumana, sociale e politica.

Dalla Sacra Scrittura e dalla storia delle religioni si potrebbe trarre anche la definizione dell’uomo come animale religioso. Ma anche qui la definizione-base, la definizione di partenza è animale ragionevole, perché l’inclinazione a riconoscere l’esistenza di Dio e a rendergli culto, il che è proprio della religione, sorge appunto sulla base dell’attività razionale.

Soggetto dell’essere umano è il soggetto materiale, il corpo, la cui forma sostanziale è l’anima. L’uomo, per Aristotele, non è, come per Cartesio, una res cogitans, una ragione sussistente. Solo Dio è Ragione sussistente. L’uomo non è una ragione, ma ha la ragione come proprietà o facoltà della natura umana e accidente proprio della persona umana. L’uomo ragiona per mezzo della ragione, non per mezzo della sua essenza. L’essenza dell’uomo non si risolve nel ragionare, ma nell’essere un animale dotato della capacità di ragionare. Anche chi non mette in atto questa capacità, conserva la sua essenza e dignità di uomo.

Benchè specificante dell’essenza umana, il ragionare non esaurisce tutte le attività dell’uomo, ma è un’attività fra le altre, che magari ha in comune con gli animali o con le piante, per cui uno resta uomo anche se non ragiona, ma è nelle condizioni dell’embrione o è in età infantile o è un demente o è ubriaco o drogato o è vinto dalla passione o è in uno stato comatoso o dorme o è sottoposto ad anestesia.

Dal punto di vista logico, la ragione, per Aristotele, è la differenza specifica del genere animale, che è il vero soggetto sussistente, mentre ragionevole è un semplice predicato, sia pure essenziale, del soggetto. La specie umana è data dalla differenza specifica razionale aggiunta al genere animale. Il genere sta dalla parte della materia, la differenza, della forma, come la forma determina la materia, così la differenza specifica determina il genere e costituisce la specie.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 8 agosto 2022

 

Grande balzo nei confronti dell’antropologia greca, come sappiamo, è quello compiuto dalla Bibbia con la dottrina della resurrezione del corpo maschile e femminile. 

Non solo al dualista Platone, ma neppure all’ilemorfista Aristotele viene in mente anche solo di prospettare la sola possibilità della resurrezione del corpo, benché egli si renda conto che la felicità umana comporta il possesso di tutti i beni dell’anima e di quelli del corpo.


Ma appunto per questo Aristotele giudica impossibile che l’uomo raggiunga la felicità. Egli deve accontentarsi in questa vita di contemplare il Motore immobile e la bellezza dell’universo fisico. Per Aristotele il nus è immortale. Ma non osa pronunciarsi su quale potrà essere la sorte del nus dopo la morte.

Per Platone, al contrario l’anima, liberatasi dal carcere del corpo, è beata nella contemplazione delle Idee. Dal suo punto di vista è infatti assurdo che essa, una volta liberatasi dal corpo, desideri tornare nel carcere dov’era prima.

San Tommaso, dal canto suo, per poter concepire la resurrezione del corpo, metterà a confronto la concezione platonica dell’anima con quella aristotelica e si accorgerà che la concezione che veramente si adatta col dogma della resurrezione, è quella aristotelica, perché, sebbene Aristotele non abbia mai pensato alla resurrezione del corpo, tuttavia oggettivamente, senza rendersene conto, ne lascia aperta almeno la possibilità, sapendo bene che la sola anima separata non è la totalità della natura umana.


Immagini da Internet:
- Afrodite Medici, copia antica da un originale del III sec. a.C. Marmo. Firenze, Uffizi
- I bronzi di Riace

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