La falsa metafisica di George Berkeley - Prima Parte (1/3)

 La falsa metafisica di George Berkeley

 Prima Parte (1/3)


Unus solus est verus Deus,

unum universorum principium:

creator omnium visibilium et invisibilium,

spiritualium et corporalium.

      Concilio Lateranense IV del 1215

 

Occorre discernimento in fatto di metafisica

La questione concernente la metafisica è sempre di attualità. Sono sempre ricorrenti le voci che negano valore alla metafisica. Molti pastori della Chiesa la ignorano sistematicamente, per non dire che la disprezzano. Essa continua ad essere materia di studio nei seminari. I Papi la raccomandano da secoli come aiuto alla teologia. In ambienti filosofici laici, per esempio un Severino o un Bontadini  si continua a parlarne, ma si vuole opporre una metafisica idealista a quella realista di S.Tommaso appoggiata dalla Chiesa.

Desidero qui ricordare un importante protagonista della storia della metafisica, il vescovo anglicano George Berkeley, la cui impostazione idealistica costituisce ancor oggi una tentazione e una fascinosa seduzione intellettuale che fa credere di elevarsi a vedute sublimi o geniali e di valorizzare la spiritualità cristiana e invece costituisce uno specioso inganno, che ci conduce ad un pensare egocentrico, ipocrita e sostanziato di sensualità. 

Un pericolo anche per l’oggi, soprattutto per coloro, come pastori e teologi, che sono chiamati a promuovere e potenziare nelle anime la vita dello spirito. È importantissimo sapere che cosa è veramente lo spirito e qual è il suo rapporto con la materia. Esiste infatti uno spiritualismo spurio ed unilaterale, che sotto apparenza di esaltare lo spirito, in realtà copre i desideri della carne e li fa apparire come slanci dello spirito. Ora, la scienza che meglio di ogni altra ci istruisce sulla natura dello spirito e della materia, sulla loro distinzione e sul modo della loro unione, è la metafisica.

Ma per avere dunque un giusto criterio di giudizio in questo campo fondamentale del sapere umano, gravido di conseguenze pratiche circa il destino eterno dell’uomo, vediamo allora anzitutto che cosa è veramente  la metafisica, cosa nota per la verità si dal tempo di Aristotele, ma è sempre bene ricordare a causa degli equivoci che rinascono sempre fastidiosi, fuorvianti ed ingombranti  come la gramigna e le erbacce d’estate.

Diciamo allora che la metafisica è quella scienza che ha per oggetto l’essere, cioè ciò per cui la realtà esiste.  Essa dunque è il sapere più universale, dato che ogni cosa, io, il mondo e Dio hanno in comune il fatto di esistere, l’atto d’essere. Essa pertanto, come disse Aristotele, il fondatore della metafisica, è la scienza dell’ente in quanto ente e delle sue proprietà. Infatti l’ente è ciò che esiste in qualunque modo possedendo un’essenza in atto d’essere.

Inoltre Aristotele è lo scopritore della distinzione fra l’ente come ente (on e on) e l’ente come vero[1] (alethès). L’ente come vero è la verità del pensiero o del giudizio o del sapere. Questo ente è immanente all’anima, alla coscienza. È il pensiero,  è l’ente in quanto pensato o concepito, oggetto della logica, detto poi dagli Scolastici ens rationis.

Aristotele ci insegna che il pensiero è vero se rispecchia l’ente reale, fuori dell’anima, l’ente in quanto ente. Un conto è quindi l’ente e un conto è l’affermazione o conoscenza dell’ente. La verità dell’ente, la sua manifestazione, l’alètheia, è quindi la regola della verità del giudizio o del pensiero, come dice Aristotele: «non è perché noi ti pensiamo bianco che tu sei veramente bianco,  ma per il fatto che tu sei bianco, noi, che affermiamo questo, siamo nel vero». Non è il nostro pensiero ad essere la regola della verità del sapere, ma il nostro sapere sarà vero, se il nostro pensiero è conforme all’essere.

L’ente fuori dell’anima, l’ente come tale, è dunque la regola di quel vero, di quel pensiero dell’ente che si trova nell’anima. Dunque ente come tale non dice ancora ente vero, non è ancora il vero. Perchè ci sia il vero occorre il rapporto dell’intelletto con l’ente: o in quanto l’ente si manifesta all’intelletto o in quanto l’intelletto rappresenta l’ente nel concetto e nel giudizio.

E mentre l’ente come tale è sempre vero e regola della verità del pensiero, il pensiero sarà vero se adeguato all’ente; altrimenti, sarà falso. Dunque il nostro pensiero non è vero per se stesso e da se stesso, perché non è la regola dell’essere, non pone l’essere, ma lo presuppone. Noi conosciamo una cosa perchè esiste e non esiste perchè la conosciamo, salvo che non si tratti di un prodotto dell’arte o dell’agire, atti però che comunque presuppongono un reale a noi precedente e presupposto. La regola dell’essere è solo il pensiero divino, ideatore e creatore dell’essere.

Qui noi vediamo in Aristotele la confutazione dell’idealismo di Parmenide e di Protagora, Parmenide che pretende di identificare il pensiero con l’essere; Protagora, che pretende di affermare che è vero ciò che sembra a me, dimenticando che non sempre ciò che sembra (videtur) è vero. Non confondiamo l’apparire (appareo) col sembrare (videtur). L’apparire è manifestazione, è rivelazione, è verità di ciò che si manifesta.  Il sembrare può nascondere l’errore e l’inganno.

Parmenide e Protagora sono i precursori di Cartesio con la sua volontà di fondare l’autocoscienza non sulla precedente conoscenza o contatto diretto con la realtà esterna, ma su se stessa, in modo autoreferenziale, come se essa fosse pensiero sussistente e divino, al posto del Dio trascendente. Non è forse anche la nostra coscienza creata da Dio? E chi crediamo di essere?

Cartesio corrompe il concetto della metafisica. Nelle sue Meditazioni metafisiche mantiene l’essere come oggetto della metafisica, ma la domanda non è più quella scientifica che si pone Aristotele: che cosa è l’ente? (ti to on?), ma bensì: chi sono io? Ora è evidente l’illegittimo restringimento dell’interesse per l’essere: dall’interesse per l’essere al problema di sapere chi sono io, come se il mio io esaurisse la questione dell’essere.

E di fatti è proprio quello che è successo con l’idealismo nato da Cartesio: interessarsi dell’io vuol dire interessarsi dell’essere. Allora il mio io viene elevato con Fichte alla dignità del biblico Io Sono (Es 3,14). Ma, prima di Fichte, Kant si accorge della profonda crisi nella quale la metafisica era caduta col sorgere di Cartesio e lo sconcerto che Cartesio aveva creato col contrapporsi ad Aristotele e col tornare a Parmenide e a Protagora.

Kant perde la fiducia nella metafisica dei suoi tempi, ma non se la sente di rinunciare alla metafisica in modo assoluto come aveva fatto Hume. Egli anzi scriverà un’opera dal titolo Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza[2]. In precedenza aveva scritto la Critica della ragion pura, dalla quale egli si attendeva una rifondazione della metafisica. Senonchè egli non pensa di confutare il cogito cartesiano e invece di ritrovare la vera metafisica fondata da Aristotele, come scienza che si eleva al puro intellegibile partendo dall’esperienza sensibile, ricasca nella concezione cartesiana asserendo la necessità di affrontare «il nocciolo e l’essenza della metafisica, cioè l’applicazione della ragione soltanto a se stessa e, meditando essa i suoi propri concetti, la conoscenza d’oggetti che presumibilmente deriva immediatamente da lei, senza aver perciò bisogno della mediazione dell’esperienza e senza che, in generale, ci si possa arrivare per mezzo di essa» (p.94). È la metafisica dell’idealismo fino ad Hegel, Gentile, Husserl, Heidegger, Severino, Rahner e Bontadini.

È evidente nell’idealista la volontà (e pertanto l’illusione) di sostituirsi a Dio nel causare l’esistenza della realtà. Ciò appare evidente dal rifiuto di ammettere che il reale è esterno al nostro pensiero, ne è indipendente, lo precede, è presupposto, è dato, lo trascende.

L’idealista pretende viceversa che il suo pensiero sia intrascendibile, che l’essere sia la coscienza di essere, che l’essere sia relativo alla coscienza, che il pensiero coincida con l’essere e con l’atto di pensarlo, che l’essere sia immanente al pensiero e sia l’essere da lui pensato, da lui posto e da lui prodotto.

È evidente nell’idealista la volontà di concepire il proprio pensare come l’assoluto, fondato su se stesso e non sulla realtà, partito da se se stesso e non dal contatto sensibile con le cose esterne, la volontà quindi di chiudere la conoscenza nell’autocoscienza, di chiudere la ragione dentro se se stessa, in modo da bloccarla nel suo naturale cammino, per il quale e col quale, applicando il principio di causalità, passando dall’effetto alla causa, la volontà quindi di negare il reale esterno in quanto creato da Dio ed effetto dell’onnipotenza divina.

George Berkeley, un passo avanti sulla cattiva strada

Ora, nel processo si sviluppo dell’idealismo che da Cartesio porta ad Hegel, George Berkeley svolge il ruolo di un’importante tappa intermedia, che da una parte esplicita il cogito cartesiano e dall’altra prepara l’io penso kantiano. Nel contempo Berkeley s’inserisce nella tradizione empiristica inglese che riduce l’intelletto al senso, il razionale all’irrazionale, la libertà all’arbitrio e la volontà all’emozione, per cui Berkeley esplicita il sensismo edonistico di Ockham e prepara quello di Hume.

Berkeley s’inserisce nel solco della tradizione empiristica inglese che risale ad Ockham, il quale distingueva bensì l’ente mentale dall’ente reale extramentale, solo che per lui l’ente esterno era soltanto il singolo ente materiale sensibile. Esso comprendeva le cose materiali e i segni del linguaggio.

Il mentale, invece, per Ockham, include in sè la logica, la matematica, la poesia, la teologia e la morale. Tutti questi valori, secondo lui, non li troviamo nella realtà extramentale per astrazione partendo dall’esperienza sensibile, perché questa realtà non ci dà altro che delle singole cose materiali, ma quei valori li troviamo spontaneamente nella nostra coscienza.

In tal modo la metafisica, per Ockham, rimane una scienza del reale, ma, in forza dei predetti princìpi, non ha per oggetto come la metafisica di Aristotele l’ente comune ed universale analogico, astratto (quello materiale) o ricavato per induzione (quello spirituale) dai singoli enti sensibili, ma ha per oggetto lo stesso singolo ente sensibile concreto, visto però come membro dell’insieme collettivo di tutti gli enti reali esterni designati con l’unico termine «ente».

Si capisce allora come il discepolo di Ockham, qual è stato Berkeley, non ha avuto difficoltà ad accogliere l’idealismo cartesiano, per il quale il mondo dello spirito non è colto partendo dall’esperienza delle cose esterne, ma immediatamente per un semplice atto di riflessione dell’io su se stesso.

Ora è interessante notare che fu questo proprio il metodo di Lutero, che si dichiarava appunto discepolo di Ockham; benché poi a Lutero, qui vero discepolo di Ockham, non passasse neppure per la testa di negare la succosa esistenza delle cose materiali.

Tuttavia, questo possibile aggancio a Cartesio è stato il motivo per il quale i luterani, quando hanno voluto sistematizzare la teologia di Lutero, si sono serviti della filosofia di Cartesio, sicchè l’idealismo tedesco, basato sul cogito cartesiano, per espressa dichiarazione di Hegel, non è altro che la fondazione filosofica della fede luterana.

Berkeley, dal canto suo, già di formazione occamista, venendo a contatto con l’idealismo cartesiano, intuì che chi per amore (sincero o finto) dello spirito, nutrisse antipatia (sincera o affettata) per la materia e volesse toglierla di mezzo per ammettere la sola esistenza dello spirito, il cogito cartesiano, dovutamente esplicitato, offriva un’ottima occasione per realizzare questo proposito apparentemente sublime.

Infatti Berkeley notò che Cartesio ammetteva bensì l’esistenza delle cose esterne, non però per convinzione ma per convenienza, perché in realtà il suo cogito lo proibiva, mentre esso conteneva virtualmente il germe di quell’Io assoluto, che avrebbe portato alla luce prima timidamente l’io penso di Kant e poi smaccatamente l’Io di Fichte, fino a giungere alla solarità del Soggetto di Hegel, con i suoi epigoni del secolo scorso, Gentile, Husserl, Heidegger e Severino.

Così Berkeley si accorse che dalla metafisica di Cartesio si poteva ricavare una metafisica che sostituisse quella realistica di Ockham, il quale ammetteva la imbarazzante esistenza di cose materiali esterne, per fondare una metafisica del puro immacolato spirito senza l’odiata materia o, se proprio la materia voleva avere uno spazio, si doveva accontentare di essere soltanto pensata o «percepita», come a dire essere immanente alla mente e quindi essere smaterializzata, così come sono immateriali gli enti di ragione, le intenzioni della mente, i concetti e le idee. O le cose sono idee o non sono nulla. Più idealisti di così!

Neppure Kant, al quale piaceva l’idealismo, se la sentì di essere idealista in tal modo e, rimasto realista a proposito della materia, giudicò giustamente una stoltezza ed un’ipocrisia negare l’esistenza delle cose materiali esterne per difendere la dignità dell’ideale e dello spirituale, il quale, difeso in tal modo, non fa che rendere tale difesa controproducente.

Di fatto l’idealismo di Berkeley fu un imbarazzante incidente di percorso, che esponeva l’idealismo al ridicolo, e che gli idealisti successivi si affrettarono a respingere con sdegno come inammissibile ingenuità, anche se il principio esse est percipi è rimasto alla base dell’idealismo.

Così la gnoseologia berkeleyana si presenta all’inizio come somma esigenza di spiritualità, come rigorosamente immaterialista, tanto da arrivare al punto di negare la stessa esistenza della sostanza materiale. Abbiamo quindi uno zelo idealista evidentemente unilaterale ed estremista, tale da screditare l’affidabilità e il prestigio dell’idealismo; quindi un rozzo idealismo, che Kant chiamò «materiale», un idealismo puerile, davanti al quale lo stesso Kant farà marcia indietro ricordando, contro lo stesso Cartesio, l’esistenza evidente ed inconfutabile delle cose esterne, oggetto di immediata esperienza.

Kant invece, col suo «io penso», resta come Berkeley in continuità col cogito cartesiano, che è il principio fondamentale di ogni idealismo, quello che gli idealisti chiamano con fare tronfio «filosofia moderna» mentre invece essa è una rispolverata data agli antichissimi Parmenide e Protagora, già confutati da Socrate, Platone ed Aristotele.

Così  in Berkeley l’essenza dell’idealismo è già tutta presente: il pensiero non pensa un reale esterno, ma pensa il pensato, pensa se stesso. Nel conoscere non parto dal contatto con le cose sensibili esterne, ma parto dalla coscienza del mio pensare-esistere. Inoltre, siccome Berkeley non parla di pensare ma di sentire (percipere), egli si riaggancia all’empirismo di Ockham e conclude con Hume: oggetto del sapere è la sensazione.

Possiamo parlare di metafisica di Berkeley non perché abbia trattato la materia in forma estesa e sistematica, chè anzi in tal senso aveva un’antipatia di tipo occamistico per la metafisica e per le idee astratte, ma per la sua concezione prettamente idealistica dell’essere, come essere percepito o pensato, come idea, idea che poi egli confonde con l’immagine, la sensazione, la cosa stessa, la realtà, in una confusione indescrivibile.

Berkeley legifera continuamente su concetti metafisici come quello dell’essere, del sapere, del pensiero, della cosa, della realtà, dello spirito, della mente, dell’idea, ma nel contempo sostiene che le parole e le idee metafisiche di essere, ente, essenza, sostanza, forma, qualcosa, materia sono incomprensibili, precorrendo gli empiristi logici inglesi del secolo scorso come Bertrand Russell.

Difficile capire come mettere d’accordo simili contrastanti posizioni. Probabilmente in Berkeley c’è un conflitto interiore fra l’irrinunciabile cogito cartesiano, dal quale fu affascinato e la tradizione empirista occamista inglese, alla quale pure era attaccato e per la quale la metafisica si risolve nella percezione e descrizione dell’ente singolare o individuale, concreto ed esistente.

Per Berkeley, senza pensiero, niente essere. Non l’essere presupposto al pensiero, ma è il pensiero ad essere il presupposto dell’essere. Non il pensiero fondato sull’essere, ma l’essere fondato sul pensiero. Non c’è un essere non pensato, ma l’essere è per essenza pensato, pena la sua non-esistenza. Siamo già in perfetto e completo idealismo, che attirerà l’approvazione di Gentile, il quale però accantonerà con compatimento tutte le idee religiose di Berkeley, per assumere solo il succo idealistico.

Infatti per Berkeley una data cosa può essere non pensata da noi, ma comunque è pensata da Dio. E questo è vero. Ma nel contempo non gli va di negare qui totalmente l’applicazione all’uomo del suo principio esse est percipi, per cui dice che anche noi, benché «in minima parte», partecipiamo del Pensiero divino.

La cosa sgradita, quindi, e da respingere o adattare in senso idealistico, per gli idealisti successivi, sarà tutto il patrimonio di idee religiose che il vescovo Berkeley si porta con sé per dovere d’ufficio, ma nelle quali non sembra credere sul serio, ma sembra accettare per motivi di carriera, perchè altrimenti non le avrebbe giustificate senza una base metafisica e con una gnoseologia idealista.

Per Berkeley infatti esiste solo il pensante, la res cogitans, non c’è la res extensa, esterna, ma solo in quanto pensata dalla res cogitans.  Esiste solo il pensiero: tutto è nel pensiero, dal pensiero, per il pensiero, soggetto al pensiero, relativo al pensiero. Credere a un reale extramentale per lui è illusione, scetticismo, materialismo.,

Ma la cosa interessante è che Berkeley, vescovo anglicano, preoccupato di salvaguardare la verità del cristianesimo, animato a suo modo da zelo pastorale contro scettici, atei e materialisti, si mostra abilissimo giocoliere nell’inglobare la dottrina cristiana nell’orizzonte del suo idealismo costruendo un cristianesimo immanentista ed idealista, destinato ad aver largo successo nei secoli seguenti fino ad oggi.

Berkeley, tuttavia, privo del necessario equilibrio intellettuale, che gli sarebbe venuto da un’accurata formazione scolastica, che egli invece disprezzava, animato da una malintesa volontà di esaltare i valori dello spirito, della morale e della religione, prese un provvedimento drastico, esagerato ed estremistico, di segno opposto, riducendo, come è noto, l’essere materiale all’essere percepito nella volontà di negare addirittura l’esistenza della realtà materiale.  Il materiale si scioglie e si dissolve nell’ideale, così come lo zucchero di scioglie nel caffè. Viene in mente la teoria rahneriana del rapporto anima-corpo, per la quale l’anima è il corpo allo stato liquido.

Quello che pertanto è paradossale in Berkeley è la sua pretesa di fondare la filosofia cristiana su di una gnoseologia idealista, che ne è la precisa negazione. Come infatti l’idealismo potrebbe giustificare la distinzione tra essere e non-essere, tra pensiero ed essere, tra senso e intelletto, tra logica e metafisica, tra reale ed ideale, tra spirito e corpo, tra bene e male, tra obbedienza e libertà, tra colpa e pena, tra uomo e natura, tra uomo e Dio, tra Dio e mondo?

Se dovessimo applicare la gnoseologia di Berkeley ai contenuti della filosofia cristiana, essi ne uscirebbero o stravolti o dimezzati. Stando al modo col quale Berkeley presenta la concezione cristiana, la verità non sarebbe più adeguazione delle nostre idee alla realtà esterna, ma adeguazione della realtà  alle nostre idee; non conosceremmo più Dio per mezzo delle creature materiali, ma direttamente illuminati da Lui come gli angeli o semplicemente riflettendo sul nostro io; Dio non sarebbe più il creatore del cielo e della terra, ma solo del cielo; l’uomo non sarebbe più un composto di spirito e corpo, ma un puro spirito; il bene privato sarebbe assorbito dal bene comune; mancherebbero le opere della misericordia corporale; lo studio della natura e la produzione delle opere dell’arte e della tecnica non avrebbero senso, dato che la materia non esiste.

Gli idealisti tedeschi come Schelling ed Hegel non avrebbero avuto l’ingenuità di Berkeley nel negare l’esistenza della natura e del mondo materiale, ma si sarebbero impegnati a fondo nel tentativo di accordare lo spirito con la materia, anche se il risultato fu fallimentare, avendo materializzato lo spirito e vanificato la materia.

Così gli idealisti successivi, consapevoli di tale imprudente operazione berkeleyana, che non faceva buona propaganda all’idealismo, intervennero a frenare simile scriteriato attacco alla dignità della materia, e tra questi lo stesso Kant, proprio in nome dell’idealismo, per dimostrare che l’idealismo è una cosa seria e non si risolve in un attacco iconoclasta al mondo della realtà materiale, quale neppure si trova nel pessimismo platonico. Oggi nessun idealista accetterebbe l’ingenuità di Berkeley, ma il suo metodo di fondo, il suo famoso esse est percipi ha fatto scuola e tuttora resta alla base dell’idealismo oggi più affermato.

Bisogna tuttavia osservare, per nostra istruzione, che quando, come un Berkeley,  si interviene in un tema filosofico complesso in modo così estremistico ed unilaterale, invece di ottenere il fine che ci si è prefissi, si suscita la reazione contraria dell’altro lato della verità e, non essendo capaci di fare la dovuta distinzione né di conciliare gli opposti, si finisce per cadere nell’estremo opposto e per ottenere il contrario di quello che si voleva.

È esattamente quello che accade al povero Berkeley e l’esito di questa disavventura ha alla fin fine qualcosa di umoristico, se non fosse che essa purtroppo cela un clima di sostanziale sensualità, quale emerge sempre dall’occamismo, sotto la copertura della finta spiritualità propria del cartesianismo.

 Abbiamo così nella gnoseologia di Berkeley la caratteristica confusione occamistica, che diverrà tradizionale nell’empirismo inglese, dell’intelletto col senso, da cui il rifiuto della dottrina dell’astrazione, la negazione della realtà dell’universale, la sostituzione dell’essenza con l’immagine, la confusione del concetto col nome, la confusione dello spirituale con lo psicologico, l’utilitarismo etico, la riduzione della logica al linguaggio, la riduzione della religione a farisaismo.

Ci si potrebbe chiedere che efficacia può avere un’impostazione idealistica del cristianesimo per ottenere vittoria sull’astuzia e l’albagia dello scetticismo, sulla volgarità e ottusità del materialismo e sull’empietà e l’arroganza dell’ateismo. È col realismo, non con l’idealismo che si mette alle corde lo scetticismo; è conducendo la ragione per causas dal sensibile all’intellegibile che la si fa trovare Dio; è con il giusto rispetto per la corporeità e per la materia che si vince il materialismo.

Dopo aver veduto nel prossimo paragrafo gli errori di Berkeley, vedremo le successivi due critiche a Berkeley: quella di Kant, il quale biasima  giustamente Berkeley per il suo negare l’esistenza della sostanza materiale esterna  riducendola a una semplice idea, mentre Kant ammette l’esistenza della cosa in sé esterna all’intelletto. Egli approva di Berkeley solo il fatto di ammettere l’idea come forma della realtà. Tuttavia per Kant l’idea, ossia la forma a priori dell’intelletto, dà forma a un materiale proveniente dalla cosa in sé. Ciò si collega con la ben nota ammissione kantiana della cosa in sè, anche se non la possiamo conoscere nella sua essenza, ma solo come fenomeno.  

Gentile, invece, che ha alle spalle l’assorbimento fichtiano ed hegeliano della cosa un sé nel cogito cartesiano, fà a Berkeley una critica ancor più radicale. Infatti,  dato che è evidente che il percepire è immateriale, ecco che appare eliminato il pericoloso e seducente mondo materiale e restano solo - almeno così sembra a tutta prima - l’anima, gli ideali, i puri pensieri e voleri, lo spirito, gli angeli e Dio. Senonchè, come dice il proverbio, gli estremi si toccano. Chi esagera nel disprezzare la materia, è proprio colui che vi si immerge fino in fondo.

Notiamo pertanto che chi manca di rispetto per la carne in nome di una farisaica lode dello spirito, chi si vanta di essere un puro spirito, è proprio colui che si aggroviglia nell’oscurità della materia. Chi pensa di sperimentare a priori l’Assoluto, si ritrova a far ridere i polli.  Proprio colui che odia la carne in nome dello spirito, è colui che diventa schiavo della carne. La materia, disprezzata dal’idealista, si vendica accecandolo con le più grossolane allucinazioni ed assoggettandolo alle più basse passioni.

Non è con l’idealismo che si rimedia al materialismo, perché l’idealismo, come dimostra il percorso che da Hegel va a Marx, è quel panteismo che porta all’ateismo, è il sovraumano che produce il disumano, è lo spirito confuso con la carne che produce la carne confusa con lo spirito.

Fine Prima Parte (1/3)

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 23 gennaio 2023

Ora, nel processo si sviluppo dell’idealismo che da Cartesio porta ad Hegel, George Berkeley svolge il ruolo di un’importante tappa intermedia, che da una parte esplicita il cogito cartesiano e dall’altra prepara l’io penso kantiano. Nel contempo Berkeley s’inserisce nella tradizione empiristica inglese che riduce l’intelletto al senso, il razionale all’irrazionale, la libertà all’arbitrio e la volontà all’emozione, per cui Berkeley esplicita il sensismo edonistico di Ockham e prepara quello di Hume.


 

Per Berkeley, senza pensiero, niente essere. Non l’essere presupposto al pensiero, ma è il pensiero ad essere il presupposto dell’essere. Non il pensiero fondato sull’essere, ma l’essere fondato sul pensiero. Non c’è un essere non pensato, ma l’essere è per essenza pensato, pena la sua non-esistenza. Siamo già in perfetto e completo idealismo, che attirerà l’approvazione di Gentile, il quale però accantonerà con compatimento tutte le idee religiose di Berkeley, per assumere solo il succo idealistico.

Immagini da Internet:
- George Berkeley
- Giovanni Gentile

[1] Cf Metafisica, libro IX, c.10, 1051b5.

[2] Carabba Editore, Lanciano 1924.

2 commenti:

  1. Carissimo p. Giovanni come lei giustamente scrive, analizzando la gnoseologia di Berkeley: “la verità non sarebbe più adeguazione delle nostre idee alla realtà esterna, ma adeguazione della realtà alle nostre idee”, lo stesso nel suo: Trattato sui principi della conoscenza umana, scrive:
    «Certe verità sono così immediate, così ovvie per la mente che basta aprire gli occhi per vederle. Tra queste credo sia anche l’importante verità che tutto l’ordine dei cieli e tutte le cose che riempiono la terra, che insomma tutti i corpi che formano l’enorme impalcatura dell’universo non hanno alcuna sussistenza senza una mente, e il loro essere consiste nel venir percepiti o conosciuti» (G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana, § 6).
    La realtà non avrebbe una sua sussistenza indipendentemente dalla mente umana che la percepisce, queste affermazioni evidenziano un pensiero chiuso in se stesso, impegnato a dimostrare e provare che c’è una realtà al di fuori di se stesso e che tale realtà non esiste in sé ma solo in quanto pensata, è il cogito di cartesiana memoria che determina l’essere delle cose.
    Le estreme conseguenze di questo modo di intendere la conoscenza diventa un processo interno della mente umana, la cosa pensata diventa della stessa natura del pensiero che la pensa, viene esclusa la cosa in sé, l’oggetto esterno, il mondo esterno diventa una rappresentazione della coscienza, un suo prodotto, la materia, la cosa in sé rimane estranea ad ogni conoscenza, la materia non avrebbe nessun fondamento oggettivo in quanto è solo una forma del pensiero.
    Sta qui la pretesa e l’errore di ogni idealismo, il pensiero non fonda niente perché il suo compito non è quello di fondare la realtà ma semplicemente di riconoscerla ed indagarla.
    La filosofia contemporanea è erede di questo pensiero “debole” che nega che l’intelletto e la coscienza possa uscire dai propri limiti e riconoscere come esistente una realtà esterna da sé, ciò che è conosciuto deve essere nel pensiero altrimenti non è reale.
    Carissimo p. Giovanni sarebbe interessante se sul suo blog affrontasse e trattasse, in prospettiva gnoseologica, anche l’ontologia del beato Antonio Rosmini che ritengo sia stato uno dei più grandi filosofi e teologi dell’ 800 italiano insieme a Vincenzo Gioberti. Le faccio questa richiesta, un po’ personale, perché prima di essere ordinato sacerdote diocesano la mia formazione religiosa è iniziata con i PP, Rosminiani dell’Istituto della Carità.

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    1. Caro Don Vincenzo,
      mi complimento per la sua analisi della gnoseologia di Berkeley e dell’idealismo, fatta molto bene.
      Per quanto riguarda la sua proposta di scrivere qualche cosa sulla gnoseologia del Beato Antonio Rosmini, ho già scritto due lunghi articoli nella rivista Divinitas, diretta da Mons. Brunero Gherardini, negli anni 2005-2006:
      1. Il fascino dell’idea “reale” e “ideale” nel pensiero di Antonio Rosmini, Divinitas, 3/2005, pp. 255-293
      2. Il fascino dell’idea “reale” e “ideale” nel pensiero di Antonio Rosmini, Divinitas, 1/2006, pp. 50-86

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