Luigino non spera più, ma gli basta la vita presente

Luigino non spera più, ma gli basta la vita presente

La nostra esistenza è il passare di un’ombra

e non c’è ritorno alla nostra morte.

Su, godiamoci i beni presenti,

facciamo uso delle creature con ardore

Sap 2,5-6

 

Sappiate che questa vita non è altro che gioco e svago,

apparenza e reciproca iattanza, vana contesa di beni

e progenie. [Essa è] come una pioggia:

la vegetazione che suscita, conforta i seminatori,

poi appassisce, la vedi ingiallire e quindi diventa stoppia.

Nell'altra vita c'è un severo castigo,

ma anche perdono e compiacimento da parte di Allah.

La vita terrena non è altro che godimento effimero.

 

Il Corano, Sura 57, 20

 

Quanto è bella giovinezza, che si fugge tuttavia,

del doman non c’è certezza, chi vuol esser lieto sia.

Lorenzo il Magnifico

 

Siamo ormai scesi al fondo e Luigino scopre le carte

Ormai da più di tre mesi sto seguendo su Avvenire la parabola di Luigino Bruni, nei suoi periodici articoli, nei quali egli, trattando interessanti temi spirituali ispirati ai Salmi biblici, ci svela con sempre maggior chiarezza, seppur sempre in modo velato, un suo passato ora guardato con rimpianto, ora giudicato sbagliato: un’oscillazione di giudizio che egli pare presentare come comune esperienza del passato di tutti, ma che in realtà, non potendo pretendere simile universalità, è evidentemente il ritratto del suo caso personale, che egli cela sotto questa finta generalità.

Anche questa volta appaiono allusioni cupe al suo passato. Commentando il Salmo 90, gli appare «l’evidenza di un grande sciupìo, quando ci avvolge l’impressione forte e vera di aver investito la vita in luoghi sbagliati e arriva la certezza che il tempo della vita è volato e la nostra vita è rimasta legata al palo». Luigino si scopre come Sisifo nella sua disperata e inutile fatica 

 

«nello stesso esercizio di spingere lo stesso masso verso la stessa montagna». Ma ciò gli va benissimo: «quando quell’eroe tragico che siamo noi prende finalmente coscienza del proprio destino, ringrazia il suo sasso perché capisce che è stata quella pietra a spingerlo ogni mattina verso la vetta».

Tuttavia Sisifo piace a Luigino; sembra che egli vi ritrovi sé stesso. Troviamo qui lo stesso compiacimento morboso e frustrante col quale Luigino in precedenti articoli ha fatto l’elogio dell’imperfezione, della sete e dell’utopia. È l’elogio del fallimento, perché egli stesso ha fallito, ma siccome non vuol riconoscerlo sentendosi in colpa, eccolo a crogiolarsi nell’effimero snobbando l’eternità divina e ingolfandosi nel lavoro come chi si dà al bere per dimenticare. Magra consolazione! 

Egli vorrebbe presentarsi come maestro di spiritualità, ma a guadar bene quello che dice, si vede che è un credente in crisi di fede e l’importanza dei temi che affronta – il rapporto con Dio, il castigo divino, la preghiera, la conversione, il sacrificio, la perfezione,  la sete di Dio, il senso della vita, dell’utopia, la profezia, la sapienza, la colpa, la fraternità – fa pensare, come dicevo nell’ultimo mio articolo su di lui, ad un sacerdote infedele al suo ministero, il quale, avendo perso il gusto delle cose del cielo e la speranza del paradiso, cerca di trovar soddisfazione, direbbe Sartre, nelle nourritures terrestres, «come una farfalla effimera», secondo quanto recita il titolo stesso dell’ultimo articolo di Luigino del 9 agosto. «Siamo farfalla effimera, nasciamo per volare un solo giorno». Poveri noi!

Ma Luigino pensa di essere felice, perché si sente una sola cosa con l’universo:

 

«il mare e noi abbiamo un senso, ed è lo stesso senso». Sarebbe, questa, «un’esperienza dell’assoluto». L’ebbrezza del «“folle volo” della farfalla è la stessa ebbrezza dell’universo».

 

Torna la visione di Dio che abbiamo già visto: un Dio in reciprocità con l’uomo:

 

«Il nostro tempo è un attimo, ma ha la stessa qualità del tempo di Dio. Perché l’assoluto è entrato nel nostro tempo». Dio non è eterno, ma è temporale come Luigino è temporale.

Ma ecco che invece, rivolgendosi a Dio, Gli dice Luigino:

 

 «Tu sei da sempre e per sempre, noi sentinelle da un unico turno di veglia, profeti per una sola notte (Isaia 21). E lì, in quel solo breve momento, incontriamo davvero Dio, ci tocchiamo veramente. Tu ci ferisci, noi ti feriamo, fino a inchiodarti su una croce».

 

Sempre questa reciprocità: Dio ferisce noi e noi feriamo Dio. Certo viene in mente la croce di Cristo. Ma qui non funziona la communicatio idiomatum. Sappiamo come Luigino concepisce Dio: Lui influisce su di noi e noi influiamo su di Lui. Noi diventiamo l’assoluto ed Egli diventa l’effimero.

Luigino questa volta commenta il Salmo 90, che, come è suo solito, stravolge a suo gusto:

 

«Il Salmo 90 ricorda che si può vincere la fugacità dell’esistenza intonando il nostro cuore con quello dell’universo». «E quando riusciamo a intonare il nostro cuore con quello dell’universo, sentiamo lo stesso battito, scopriamo che i due pulsano all’unisono … La preghiera, forse, è solo questo».

In questo Salmo si parla bensì della precarietà della nostra vita e delle sventure che ci capitano per l’impeto dell’ira divina, ma non c’è alcun invito a «intonare il nostro cuore con quello dell’universo», suggerimento di sapore panteistico assolutamente estraneo alla Scrittura. 

La preghiera nel senso biblico non ha niente a che vedere con oscure pratiche magico-alchemiche di fusione del nostro io con l’assoluto cosmico, fantasie che ricordano quelle di Giordano Bruno, ma – e Luigino dovrebbe saperlo bene – essa è un’umile e fiduciosa elevazione della nostra anima al trono dell’Altissimo e al Dio eterno, per intercessione di Cristo, per chiedergli perdono dei nostri peccati, nel riconoscimento della fragilità e precarietà della nostra esistenza a causa del peccato originale e dei nostri peccati, nonché dei meritati castighi, e per implorare la grazia della salvezza, nel desiderio ardente e nella speranza di vedere un giorno per sempre il suo volto in paradiso nell’assemblea dei beati. Questa, come tutti i cristiani sanno, è la vera preghiera biblica e non il pastrocchio panteista-nichilista di Luigino.

Luigino nota la precarietà della vita presente,

ma in essa si trova molto bene,

anche perchè secondo lui non c’è un’altra vita dopo questa.

Luigino si ferma a sottolineare la fugacità e la precarietà della vita presente, ma senza alcuna prospettiva di una futura vita eterna nella resurrezione e nella visione di Dio, nelle quali non crede più. Egli anzi osa affermare, con empia audacia, per giustificare la sua ignavia e la perdita della fede, che nell’Antico Testamento non c’è alcuna coscienza della sopravvivenza dell’anima dopo la morte, che non esiste alcuna prospettiva, attesa o speranza di una risurrezione o eterna beatitudine nella visione del volto di Dio e che la «sapienza del cuore» consisterebbe nell’approfittare dei piaceri della vita terrena, perché dopo questa vita c’è il nulla.

Luigino non si rende affatto conto del fatto che questo desiderio di eternità e di immortalità presso Dio, con Dio e grazie a Dio, costituisce l’anima e il significato profondo di tutta la Sacra Scrittura e la sua eccellenza fra tutti gli altri documenti religiosi dell’umanità, e quindi costituisce il nesso essenziale che lega i due Testamenti fra di loro e pone il secondo in continuità col primo, portandone a supremo ed inaspettato compimento le aspirazioni messianiche.

Sono infiniti i testi dell’Antico Testamento che, nei modi più svariati, implicitamente o esplicitamente, direttamente o indirettamente, testimoniano dell’assunto che ho detto. Vedere nell’Antico Testamento solo una raccolta di grossolani proverbi popolari di astuta saggezza terrena, venati di sottile materialismo, alla stregua delle massime di Confucio, o dell’utilitarismo di John Stuart Mill o di  Arthur Bertrand Russel, senza aspirazioni ad una vita immortale dopo la morte, è un totale fraintendimento del significato, dell’Autore, delle origini e dello scopo della Bibbia, è un’abominevole falsità, è un insulto gravissimo e un’intollerabile calunnia contro la Scrittura, scrigno sacro della Parola di Dio, oltre che insulto ed offesa gravissimi ai nostri fratelli maggiori Ebrei, custodi gelosi dell’Antico Testamento, che costituisce la base di dialogo ebraico-cristiano, che tanto sta a cuore alla Chiesa di oggi. Luigino, quindi, congiunge il disprezzo per la Bibbia al disprezzo per gli Ebrei.

La Scrittura nasce interamente dall’anima assetata di Dio. È tutta percorsa dal desiderio di vedere Dio, è tutta ispirata da Dio per questo scopo. Chi non capisce questo, non capisce l’impulso primordiale che ha prodotto la Sacra Scrittura e il fattore coagulante che ne genera l’unità e la coerenza, al di là dei suoi diversi generi letterari, della molteplicità e varietà dei suoi libri, e dei contenuti e fini particolari di ciascuno di essi.

La Scrittura, già dall’Antico Testamento, ha chiaro il primato di Dio sul mondo, dello spirito sulla materia, dell’anima sul corpo. L’uomo è creato ad immagine del Dio immortale. Gli angeli sono esseri celesti ed immortali. I giusti sperano nell’immortalità (Pr 11,4; Sap 3,4). La sapienza conduce all’immortalità (Sap 6,18; 8,13.17; 15,3). Dio promette di donare il suo Spirito (Ez 36,27; 39,29; Is 32,15). Dio dona il suo Spirito ai profeti. L’uomo biblico crede nella risurrezione dopo la morte (II Mac 7,23; Ez 37,5.10.14). I giusti dopo la morte si ricongiungono ai padri e vanno nel seno di Abramo. Gli empi cadono gli inferi. Giobbe però si attende di vedere Dio dopo la morte. Mosè chiede a Dio di mostrargli il suo volto. Gli stregoni evocano i morti. 

Gerusalemme ha un futuro immortale e celeste. Sul Messia si poserà lo Spirito di Dio e il suo regno sarà eterno. Il popolo d’Israele è popolo messianico. Isaia prevede che nell’età messianica l’umanità sarà immortale e felice. Nel Giorno del Signore avverrà il Giudizio universale. Dio promette ad Abramo una discendenza come la sabbia del mare: evidente accenno ad una discendenza immortale. Il profeta Natan prevede a Davide un regno eterno. Salomone ottiene la sapienza come dono di Dio. L’esistenzialista Qoelet, pezzo forte dei materialisti amari e goderecci, conclude dicendo che con la morte lo spirito «torna a Dio che lo ha dato» (Qo 12,7). In mille modi i Salmi esprimono il desiderio di Dio. Ci vuole proprio un Luigino per offuscarne il significato e far dir loro il contrario di quello che vogliono dire. Per lui la cerva ha sete, ma è contenta della sua sete. 

L’invidia per Dio

Inoltre Luigino suggerisce di coltivare verso Dio in bruttissimo vizio: l’invidia. Secondo lui nei Salmi

 

«la lode s’intreccia con la tristezza, la riconoscenza di essere vivi e amati sfiora l’invidia per Dio e per la sua eterna aurora. Non capiamo molta preghiera senza prendere sul serio anche la sofferenza che nasce dall’invidia per Dio. Questa tipica e paradossale sofferenza dell’uomo religioso, nei salmi è ancora più tremenda perché in quell’umanesimo la morte non è continuazione diversa dello stesso volo sotto l’ala di Dio, ma è tramonto senza nuova alba – “compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre a darti lode?” (Sal 88,11)».

Ancora una volta Luigino osa falsificare l’essenza della preghiera confondendola empiamente e spudoratamente col vizio dell’invidia, uno dei sette famosissimi vizi capitali. La preghiera non ha nulla a che vedere con l’invidia, anzi ne è l’esatto contrario e l’antidoto, e per giunta Luigino giunge al colmo dell’empietà supponendo e proponendoci con fare da maestro spirituale, addirittura  un’«invidia per Dio», che Luigino vorrebbe spacciare nientemeno che per il sentimento dell’«uomo religioso», volendo darci ad intendere, come se fossimo degli allocchi, che questo sarebbe l’insegnamento dei Salmi. Ci vuole parecchia fantasia, e a Luigino non manca, per mettere in piedi una truffa del genere, costruita su così tanti imbrogli, uno peggiore dell’altro.

Le parole del Salmo «compi forse prodigi per i morti? O sorgono le ombre a darti lode?» non significano affatto, come s’immagina Luigino, che la vita dell’uomo sia «un volo sotto l’ala di Dio», così da comportare un «tramonto senza nuova alba», cosa che smentirebbe la permanenza dell’anima umana dopo la morte e la risurrezione del corpo, ma vogliono significare che il Dio della vita non è presente laddove ci sono la morte o i fantasmi, appunto perché Egli non ha nulla a che vedere con la morte o gli spettri, ma è il Dio che fà vivere e dona la vita eterna. Dunque Luigino intende esattamente l’opposto di ciò che il Salmo intende dire.  Luigino può sostenere la sua teoria pagana della vita solo facendo dire alla Bibbia quel che non vuol dire.

Chiarito questo punto, passiamo adesso a chiarire che cosa è l’invidia nella sua opposizione radicale alla preghiera, della quale ho già parlato. E poi vedremo l’aggravante di colpa, che l’invidia assume, quando oggetto dell’invidia è Dio. L’invidia è il dispiacere per il bene altrui, bene che noi non possediamo, ma che non riusciamo ad ottenere da soli. Potremmo chiedere tal bene al suo possessore, che potrebbe parteciparcelo; ma l’orgoglio, che generalmente si accompagna all’invidia, c’impedisce di chiedere. L’invidioso vorrebbe per sé il bene posseduto da altri e gli dispiace che sia posseduto da altri. L’invidia genera solitamente odio nell’invidioso verso colui del quale ha invidia, anche perchè il valore della persona della quale ha invidia può dargli ombra.

Il peccato d’invidia verso Dio dipende dal fatto che l’uomo, scoprendosi fragile ed effimero davanti a un Dio eterno e immortale; scoprendosi infedele e traditore davanti a un Dio leale e fedele; scoprendosi in colpa davanti a un Dio santo; scoprendosi sofferente davanti a un Dio beato, non si accetta nel suo limite creaturale e non gli viene in mente, a causa del suo orgoglio, di chiedere aiuto o perdono a Dio, ma vorrebbe essere come Dio. È il peccato di Satana.

Non accetta di dipendere totalmente da Dio, ma vorrebbe essergli alla pari. Crede allora di poter cambiare Dio perché sia come lui lo vuole. Abbiamo già visto in un articolo precedente questo atteggiamento arrogante di Luigino. Siccome non vuol cessare di peccare, ma nel contempo vuole un Dio benevolo, prende le sventure che gli capitano non come richiami al pentimento e alla conversione, ma solo come colpi della sorte o disfunzioni della natura ed è convinto che Dio non lo castighi. E nel contempo si convince che Dio finge di non vedere e lo lascia fare.

 

Luigino non guarda più al primo patto, ma si è adagiato nel mondo

Come abbiamo visto nelle puntate precedenti, a Luigino vengono dei rimorsi per aver tradito e abbandonato il primo patto, il proprio impegno, la propria vocazione. In un primo tempo aveva avuto l’idea che forse no, forse egli era sempre lo stesso. Poi, guardando con nostalgia e rimpianto la sua innocenza di fanciullo, gli era venuta l’idea di tornar fanciullo. Di tornare a quel «primo patto», del quale aveva parlato nell’articolo precedente, quella fanciullezza innocente, della quale in un altro articolo precedente, aveva avuto vana nostalgia, dopo essersi «ricoperto di polvere» nel travagliato cammino. 

Ma poi, abbiamo visto come Luigino, in queste ultime puntate, ha abbandonato il progetto di tornare fanciullo e al primo patto ed ha cominciato a cercare giustificazioni e pretesti, per potersi adattare ed adagiare in questa misera e fugace vita terrena, nel «volo della farfalla», senza più prospettive di eternità, ma immerso nel lavoro quotidiano, pensando di trovar pace qui, perché ha perso la speranza di poter tornare com’era prima. Ma soprattutto ha perso la fede nell’esistenza di una felicità eterna dopo la morte. Dove lo ha scoperto? Nella Bibbia. È la Bibbia che gli ha insegnato che il paradiso non esiste. Leggiamo queste sue allucinanti parole:

 

«Ci vuole molta fantasia teologica per trovare nel Salterio, in Qoelet o in Giobbe anticipazioni della risurrezione cristiana dei morti. Sta in questa assenza radicale di consolazione il grande dono dell’Antico Testamento, che, non collocando il paradiso oltre la morte, ci invita a trovarlo quaggiù, dove c’è davvero. Se il nostro unico volo è questo sotto il sole, se non abbiamo una seconda possibilità, allora la nostra storia è tanto breve quanto seria ed importante. Davanti all’esperienza della vanitas della vita, la Bibbia sa che una delusione vera è preferibile ad un’illusione finta, che la disperazione può essere una buona via d’accesso all’esistenza, certo migliore delle consolazioni inventate».

 

Abbiamo già visto sopra la falsità della tesi di Luigino, secondo la quale nell’Antico Testamento non vi sarebbero prospettive di una vita eterna dopo la morte e di risurrezione dei morti. Per Luigino il grande dono dell’Antico Testamento non sta nella prospettiva del paradiso dopo la morte, ma in quella di goderci la vita di quaggiù. Il paradiso non è oltre la morte, ma è quaggiù su questa terra. Se in questa vita siamo infelici, non c’è una seconda possibilità in cielo. O siamo felici qui o non lo saremo mai, perchè dopo la morte c’è il nulla.

Godiamoci la vita finché siamo in tempo, perché dopo saremo polvere per sempre. Questa vita mortale è molto seria e importante, perché è la sola che abbiamo. Non ce n’è un’altra dopo la morte. Il crederlo è una invenzione e una illusione, non della Bibbia, ma dei preti. La Bibbia è materialista e insegna a godere della vita presente. Non Sant’Agostino o San Tommaso, ma Marx, Freud e Nietzsche sono i veri interpreti della Bibbia.

Luigino vorrebbe dare una copertura di credibilità al suo materialismo atteggiandosi a censore dell’«uomo ricco» di Lc 12,19, che dice a se stesso: «anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; riposati, mangia, bevi e datti alla gioia». E non si accorge o vorrebbe darci ad intendere, come appare chiaramente da tutto il contesto del suo articolo, che è proprio lui questo povero illuso. Il ricco egoista e materialista sa benissimo, come lo sa Luigino, di non essere «invincibile e immortale», ma, come Luigino, se ne infischia: a lui basta ed interessa godere materialmente adesso il massimo e il più a lungo possibile con ogni mezzo lecito e illecito, perché poi, quando giungerà la morte, tutto sarà finito.

I soggetti che si credono immortali e invincibili per conto proprio e non grazie a Dio non sono necessariamente ingordi di beni terreni, come fossero degli animali, anzi sono soggetti che percepiscono benissimo ed apprezzano il primato dello spirito sulla materia, possono essere austerissimi asceti indiani o modesti docenti universitari o sobri teologi rahneriani. Il fatto è che essi si credono immortali e invincibili perché credono che il loro effimero io empirico non sia che l’apparire caduco al mondo del loro io profondo, che è Dio stesso.

Ora a Luigino questo non passa neanche per la mente, perché, se egli ha un merito in teologia, che gli ho già riconosciuto in una puntata precedente, è proprio quello di riconoscere l’alterità di Dio dal suo io, come detta la sana ragione ed è confermato dalla Scrittura.

Il guaio è che poi Luigino intende la personalità divina alla stregua di un dio pagano, per cui il suo rapporto con Dio, come abbiamo visto ad abundantiam nelle puntate precedenti e anche in questa, è simile al rapporto che il pagano ha col suo dio: lo tratta non con sottomissione a lui, ma per piegare la volontà del dio con astute piaggerie – le arti magiche – a fare la sua volontà.

La lunga trattativa che Abramo ha con Dio perché risparmi Sodoma e Gomorra (Gen 18,16-33) potrebbe avere l’apparenza di rispecchiare il metodo mercantilistico di Luigino, ma in realtà questo episodio dev’essere interpretato per farci capire che Abramo aveva una profonda conoscenza della misericordia divina, anche se poi, come sappiamo dal seguito della storia, Sodoma e Gomorra furono comunque punite per la loro ostinata ribellione.

 

Luigino fa dire alla Bibbia il contrario di quello che vuole insegnare

Si potrebbe immaginare una spudoratezza e una sfrontatezza maggiori di queste? Finora i negatori del paradiso erano annoverati fra i pagani, gli atei, i libertini, gli epicurei, i miscredenti e i bestemmiatori in polemica con la Bibbia. Invece il nostro Luigino ci assicura che la Bibbia è proprio con loro!

Luigino inoltre interpreta la preghiera del Salmista a Dio che ci conceda di poter «contare i nostri giorni» (cf Sal 90,12) non nel senso salutare di ricordarci della precarietà e finitezza della vita presente per non attaccarci ad essa come fosse l’assoluto, e per ricordarci che solo Dio è il nostro sommo bene; ma proprio nel senso di rattrappire tutto il nostro destino fatto per l’Eterno nello spazio angusto di quei pochi giorni della vita presente, come se in essi dovessimo trovare chissaquali meraviglie («effimero, brevissimo, stupendo»).

La vita presente non appare più a Luigino come una pregustazione dell’eterna beatitudine della Chiesa celeste e della pienezza del regno di Dio nella compagnia dei santi e degli angeli. No. Dopo questa vita terrena, piena di travagli, vanità e sofferenze, lo attende il nulla. Egli riprende un canto sudanese del Denka: «l’uomo nasce e muore e non ritorna più».

In un clima di mitizzazione del lavoro quotidiano di sapore marxista Luigino termina di commentare il Salmo 90 attribuito a Mosè:

 

«mentre Mosè concludeva la sua opera sentì la tristezza per la vanità che avrebbe inghiottito anche questo suo lavoro» (la costruzione dell’Arca, Es 35) «e provò la tipica tristezza di chi si trova di fronte all’effimero della vita. E lì gli nacque una preghiera nuova: “dai sostanza a quest’opera, che non passi anch’essa come vento: salvala, anche se non puoi salvare me”. Da lì, da quel Sos per proteggere quell’opera dal mare del nulla, quel poeta dell’effimero giunse all’Assoluto e gli chiese di imparare a contare i suoi giorni. E mentre faceva quella preghiera scoprì che stava già contando bene un giorno, quello nel quale stava terminando quel suo lavoro. Lavorando, mattino dopo mattino, compiamo la nostra opera e terminiamo il nostro lavoro. Effimero, brevissimo e stupendo».

 

In realtà il Salmo non parla affatto di un Dio che non vuol salvare Mosè. Figuriamoci! – questo se lo è inventato Luigino per lo scopo della sua tesi -, ma dice così:

 

«Si manifesti ai tuoi servi la tua opera e la tua gloria ai tuoi figli. Sia su di noi la bontà del Signor nostro Dio: rafforza per noi l’opera delle nostre mani, l’opera delle nostre mani rafforza» (Sal 90, 16-17).

 

Qui non c’è per nulla una concentrazione idolatrica sul lavoro delle proprie mani, ma c’è il voto espresso a Dio che Egli voglia manifestare la sua opera e la sua bontà rafforzando l’opera dell’uomo, la quale pertanto non può attirare a sé tutto l’interesse dell’uomo, come farebbe un idolo, ma ha lo scopo di manifestare la potenza di Dio, Che si rivela nelle opere dell’uomo, affinchè l’uomo, nella gratitudine a Dio Che gli ha consentito di produrle, renda culto e gloria a Dio suo sommo bene, beatitudine e fine ultimo della sua vita. 

Con queste ultime deliranti dichiarazioni Luigino ha scoperto le carte. Ha toccato il fondo. Appare ormai che egli ha terminato la sistematica opera di demolizione dei valori cristiani che conduceva su Avvenire da alcuni mesi. Ogni volta abbatteva un valore.  L’ultimo valore da abbattere, sostegno e fine di tutti gli altri, era il paradiso, la vita eterna, la visione beatifica. Tolto questo, non c’è rimasto più nulla.

Siamo nel buio e nella disperazione totale a goderci l’effimero lavoro quotidiano, non si sa perchè e non si sa per che cosa. Speriamo solo che sia pagato bene. È quell’opera di «autodemolizione della Chiesa» da parte di se stessa, della quale San Paolo VI parlò nel 1975. Come Mosè ha terminato il lavoro, così Luigino ha terminato il suo lavoro, con la differenza che Mosè ha costruito l’Arca, mentre Luigino l’ha distrutta. Nelle prossime puntate dovrebbe descrivere la bellezza del mondo senza Cristo, senza Dio, la bellezza dell’attimo fuggente che non torna più. A meno che non voglia risalire la china. 

Potrà mai Luigino riemergere da tutto questo fango nel quale è immerso fino al collo? Potrà mai risollevarsi da questa abiezione nella quale si è cacciato e vorrebbe cacciare anche i lettori di Avvenire? Tra 250 vescovi della CEI non c’è nessuno che s’interessi di quest’anima in pericolo? Quante altre anime trascinerà nel suo vortice con le sue fandonie?

La sensazione che ho è che egli in questo fango ci sguazzi e ci stia bene, almeno per adesso. Tuttavia non dubito che egli senta il richiamo della coscienza. Il primo patto e la sua vocazione non può averli dimenticati. Lo sa che ha tradito. Ce lo ha detto egli stesso. Dunque, Luigino, coraggio, vieni qua, guardiamoci negli occhi. Ritorna al Signore.

Ennesima perorazione finale

E voi, Amici di Avvenire, dove siete finiti? Chi ve lo fa fare a darvi la zappa sui piedi? Come mai siete giunti a questo punto, a questa débacle? Che cosa vi è successo? Chi vi ha trascinato? Vi pagano? Che cosa sperate di ottenere? Che cosa state ottenendo? Dove è finita la vostra fede? Ci credete ancora nel paradiso? Perché vi fregiate del titolo di «cattolico» che non lo siete?

Continuo a rivolgermi a voi, Amici di Avvenire, come un cattolico che si rivolge a cattolici, un fratello di fede a fratelli di fede, anche se ho l’impressione di parlare a sordi o perché non sentono o perché non vogliono sentire. Il Signore vi ha parlato con questa pandemia, ma pare che voi non ci sentiate. Deve alzare la voce? Se poi anche sentendo chiaramente, non ascoltate, che sarà di voi?

Vedo infatti che non avete ancora compreso il messaggio spirituale della pandemia come richiamo alla penitenza e alla conversione. Eppure basterebbe leggere la Scrittura senza occhiali buonisti per capire ciò. Ho l’impressione che nel mondo la lezione divina della pandemia non sia servita a nulla e che i peccati siano in aumento e non in diminuzione. Dove sono i pentimenti? Dove sono i ravvedimenti? Dove sono le conversioni? Chi riconosce di aver sbagliato? Chi riconosce di aver peccato? Chi fa penitenza? Chi è che torna a Dio?

Eppure, sono almeno quattro anni che io, nelle mie pubblicazioni, sto spiegando alla luce della Scrittura, della dottrina della Chiesa e dei Santi, il significato cristiano della sofferenza. Mi sembra di avere a che fare con voi con quelle stesse persone che nel 2016 mi fecero cacciare da Radio Maria, perché mi azzardai a parlare dei castighi divini, non facendo altro che esporre il Catechismo. Allora l’occasione fu quella del terremoto in Umbria, oggi c’è la pandemia: ma incontro anche oggi le stesse resistenze, le stesse incomprensioni, gli stessi errori, sebbene nessuno più come allora osi attaccarmi, anzi ho incontrato molti consensi.

Ma le posizioni buoniste continuano ad essere molto forti e seguìte e tuttavia non mi arrendo, perché, come dice San Paolo, «scio cui credidi» (II Tm 2,12). So di avere dalla mia parte tutta la Tradizione, tutta la Scrittura, tutto il magistero della Chiesa, tutti gli insegnamenti dei Santi. Chi mi dà contro si appoggia su sofismi, equivoci e pregiudizi, quando non si tratta di opposizioni formali al buon senso e alla Parola di Dio.

Vorrei pertanto ricordarvi, cari Amici, che, per risolvere il problema della sofferenza, occorre, come fa Giobbe, ricondurla a Dio, per quanto ciò a tutta prima sembri ripugnante. Ma non c’è altra strada. Altrimenti, qualunque altra causa assegniamo alla sofferenza, sia essa la malvagità umana, sia la natura, sia il destino o sia il demonio, siamo costretti a ricondurla ad un principio estraneo a Dio ed indipendente da Dio, principio sul quale Dio non ha alcun controllo.

Dovreste accorgervi che così facendo scendete per una china molto pericolosa, al termine della quale c’è il manicheismo, ossia l’ammissione di un anti-Dio, che Dio non può né bloccare né vincere, né sottomettere né utilizzare, ma che gli sfugge e gli fa da antagonista eterno, un anti-Dio che agisce sempre in concomitanza col Dio buono, ma per conto proprio e contro di lui, senza che il Dio buono possa farci nulla, come certi pastori o superiori, che lodano i santi, ma poi lasciano fare i malvagi.

Dunque questa concezione del Dio che non punisce è falsa già sul piano della religione naturale. È la concezione che Marcione aveva del Dio del Nuovo Testamento, già condannata come eretica dalla Chiesa fin dal sec. III. A maggior ragione lo è dal punto di vista della Scrittura e della fede. Un Dio che ha accanto a sé un anti-dio e agisce in combutta con lui, un Dio che non castiga, ma sta solo a guardare e tollera tutto e sorride tanto al santo quanto all’assassino, un Dio che non interviene a liberare l’oppresso dall’oppressore, perché tanto anche questi si salva, un Dio siffatto non è un Dio onnipotente, che sappia far giustizia, ma un Dio che se ne infischia, non è il Dio misericordioso, come vorrebbero farci credere i buonisti, ma è un qualcosa di abominevole. In pratica non è Dio. Un Dio così è un mostro. Chi crede a un Dio del genere è sostanzialmente un ateo.

Come mai Luigino si è ridotto in questo stato

Non sarei alieno dal pensare che Luigino, se non agisce con astuzia, abbia abbandonato la sua vocazione e la fede perchè sviato e scandalizzato da superiori buonisti, i quali, proponendogli ipocritamente l’esempio della mitezza di Cristo sofferente, non gli hanno reso giustizia per un grave torto subìto da parte di qualche potente nella Chiesa, che non conveniva toccare.

Altra ipotesi, più probabile, che mi sentirei di fare per spiegare l’attuale situazione di Luigino, è che egli abbia lasciato prevalere in lui l’attaccamento al suo io, mondanizzando il suo concetto di Dio. La carne, direbbe San Paolo, ha prevalso sullo spirito.

Luigino conserva ancora la coscienza che Dio è fedele, mentre lui è stato infedele; sa bene che la vita presente è effimera e fugace, mentre Egli è eterno; che lui è peccatore mentre Dio è innocente. Ma nel contempo, lasciando prevalere in lui l’immaginazione sull’intelletto, e la superbia sull’umiltà, si è lasciato prendere dall’invidia per Dio, non ha più accettato che Dio fosse la regola e il modello della sua vita, ma ha cominciato a ingrandire il proprio io e a svilire il suo concetto di Dio, fino al punto da impostare il suo rapporto con Dio non sul piano della dipendenza, ma della reciprocità dicendogli spavaldamente: io dipendo da te, ma anche tu dipendi da me. 

Così Luigino ha creduto di poter correggere Dio – un dio inventato da Lutero - dalla sua eccessiva severità e di liberarsi dalla tormentosa coscienza delle sue colpe. Gli ha detto: «sono fatto così e devi accettarmi come sono. So come devo essere e non sta a te dettarmi legge». È l’io della modernità nato da Cartesio. È l’io della magia kabbalistica e delle religioni primitive. Anche con Pachamama è possibile parlarle in questo modo.

Ma allora che cosa è successo? Luigino ha fatto con l’ultimo articolo, un ulteriore passo avanti e dice a Dio: «la vita eterna, o Dio, non è fatta per me, anzi non m’interessa. Tientela per te. Sono stufo del Dio della metafisica, preferisco un Dio fatto “con le mie mani e i miei piedi”», come ha detto l’altra volta.  A me – dice Luigino a Dio - basta immergermi nel flusso vitale dell’universo, sentire che «il mio cuore batte all’unisono con lui», dedicarmi al mio lavoro quotidiano, avere i lettori di Avvenire, e godermi la vita presente, perché non credo più – se mai ci ho creduto – nell’immortalità dell’anima e nella risurrezione, cose astratte e inverificabili. Finita questa vita concreta e succosa, per me è finito tutto. Sono la farfalla del volo di un giorno.

Davanti a questo spettacolo deprimente devo dire però che non mi pare che Luigino sia del tutto scusato, quando con ragionamenti contorti e una pseudoesegesi biblica cerca di coprire il suo tradimento e di farlo passare per uno stato felice. La cosa vergognosa, cari Amici – lasciate che ve lo dica con franchezza -, è che voi, invece di richiamare Luigino come faccio io, che gli voglio veramente bene, lo sfruttate per un disonesto guadagno presso quegli infelici lettori, i quali, avendo tradito in un modo simile a lui, lo vedono come il loro profeta e il loro portabandiera.

Ma voi non dovreste prestarvi a questo gioco così poco onorevole, e vi suggerirei invece di pubblicare articoli fedeli alla dottrina della Chiesa, sul tipo di quelli che ho pubblicato nel mio libro Perché peccando ho meritato i vostri castighi[1], che tratta appunto di come affrontare da credenti il dramma della pandemia e il gravissimo problema della sofferenza alla luce di Cristo. 

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 13 agosto 2020 

 

 Immagine da internet

 


[1] Chorabooks, Hong Kong 2020.

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