Abolire la parola castigo?

 

Abolire la parola castigo?

Un Lettore mi ha inviato i seguenti commenti al mio articolo “Padre Bruno Esposito e la questione dei castighi divini” 

https://padrecavalcoli.blogspot.com/2022/07/padre-bruno-esposito-e-la-questione-dei.html 

Pubblico i due commenti, ai quali faccio seguire la mia risposta.

Gentile Padre,

Ho letto come sempre con interesse il suo contributo. Al di là delle considerazioni teologiche, a me viene in mente anche un altro tipo di obiezione, certamente meno importante ma che comunque mi dà da pensare.

Il concetto di castigo divino, presentissimo nella spiritualità cristiana (non solo cattolica) finché il buonismo non ha cominciato a spadroneggiare in decenni tutto sommato recenti, ha trovato espressione anche in eventi quali le apparizioni della B. V. Maria a Fatima ("[...] Dio sta per castigare il mondo per i suoi crimini, per mezzo della guerra, della fame e delle persecuzioni alla Chiesa e al Santo Padre [...]").

Ora, benché le apparizioni mariane, com'è noto, non costituiscano in alcun modo una fonte di rivelazione o di magistero, mi pare che il "constat de supernaturalitate" che la Chiesa vi ha apposto come sigillo implichi che esse per lo meno non contengono nulla che ripugni alla sana dottrina.

Ergo, o la Madonna si è sbagliata ad usare delle espressioni imprudenti e, a dire di alcuni, persino blasfeme, e inoltre si è sbagliata la Chiesa nell'approvare queste apparizioni, oppure si sbaglia chi si scaglia contro questa precisa maniera di esprimersi, che trova la sua origine più evidente nella Sacra Pagina e che si sviluppa senza discontinuità lungo i secoli nell'insegnamento dei santi e sulle labbra dei Sommi Pontefici.

A tal proposito, poiché nel blog da lei commentato si cita una catechesi del Santo Padre Francesco, mi piacerebbe capire perché una catechesi recente dovrebbe obliterare un discorso tenuto da Benedetto XV ai predicatori quaresimali nel 1917, in cui il Sommo Pontefice allora regnante si esprimeva come segue: "Tutto ciò che accade nel mondo dev’essere spiegato alla luce della fede. Questo ammirabile lume, per non accennare che ad una parte dei suoi insegnamenti, ci fa comprendere che le private sventure sono meritati castighi, o almeno esercizio di virtù per gli individui, e che i pubblici flagelli sono espiazione delle colpe onde le pubbliche autorità e le nazioni si sono allontanate da Dio" (cf. qui: https://www.vatican.va/content/benedict-xv/it/speeches/documents/hf_ben-xv_spe_19170219_lenten-priests.html).

Forse che quel che viene detto nel 2022 ha ex sese più valore di quel che veniva detto nel 1917? Ammetto di essere molto disorientato di fronte a questo modo di argomentare. Né mi pare che l'appello alla "mentalità corrente" risolva il problema: qui non si tratta di forme, ma di contenuti: Nostro Signore castiga positivamente e/o permissivamente, sì o no? Mi sembra che invocare la mentalità di un'epoca sia solo un modo per evitare di rispondere, e che non tenga laddove si tratta di un concetto ben preciso, e non della sua eventuale formulazione. Mi illumini, caro Padre.


In Cristo,

Aggiungo, caro Padre, che nel 1958 il Santo Pontefice Giovanni XXIII, da tutti, e a ragione, chiamato il "papa buono", si esprimeva alla popolazione di Messina nei termini seguenti (a proposito del terremoto del 1908): "Ed Egli [scil. Dio] vi dice di fuggire il peccato, causa principale dei grandi castighi". Ciò fa eco ai toni della Datis nuperrime, scritta appena due anni prima dal ven. Pio XII, che parlando della repressione sovietica in Ungheria dice espressamente che "[...] il sangue del popolo ungherese grida al Signore, il quale, come giusto giudice, se punisce spesso i peccati dei privati soltanto dopo la morte, tuttavia colpisce talora i governanti e le nazioni stesse anche in questa vita, per le loro ingiustizie, come la storia ci insegna".

 

Caro P.,

nel linguaggio di oggi il termine castigo riceve spesso l’accezione di atto crudele. Certamente il senso delle parole è ad libitum, ossia è convenzionale.

Tuttavia, in questo caso, questa accezione che oggi si è diffusa non è priva di inconvenienti, perché lascia scoperto il concetto, sicchè bisognerebbe trovare un’altra parola per esprimere il concetto, in modo tale che il concetto non vada perduto.

Un termine che si potrebbe usare è quello di pena, il quale significa una sanzione giuridica oppure significa la sofferenza, come quando per esempio parliamo delle pene della vita.

Un altro termine potrebbe essere quello di punizione, ma anche questo termine è diventato ostico.

Possiamo chiederci: che cos’è esattamente il castigo? Secondo il diritto naturale e la Sacra Scrittura il castigo è un atto giudiziario con il quale il giudice irrora una pena al criminale.

Ma il castigo può essere visto anche da un altro punto di vista, ossia dal punto di vista dello stesso peccatore. In questo caso, il castigo è ancora una pena che lo stesso peccatore si tira addosso con il suo stesso peccato. Secondo la Scrittura il peccato è causa di morte, la quale è considerata come punizione del peccato.

Altra considerazione da fare relativamente al castigo è che esso dev’essere giusto, per cui il giudice è tenuto per dovere di giustizia a irrogare un giusto castigo.

Qual è il problema, oggi? È che il rifiuto della parola castigo rischia di compromettere questo sistema di concetti, legati al concetto di giustizia e di peccato, che sono fondamentali per una corretta vita morale e per capire anche le azioni della divina Provvidenza.

Un altro problema che suscita la questione del castigo è quello della misericordia. Oggi c’è una tale enfasi sulla misericordia, che tanti non capiscono più come essa vada d’accordo col castigo. Molti infatti sostengono che Dio non castiga, perché perdona e usa misericordia, fino al punto di sostenere che tutti in fondo sono buoni e quindi si salvano.

Invece è molto importante ricordare, sulla base della Sacra Scrittura e di un retto concetto della provvidenza divina, che Dio in realtà usa misericordia con chi si pente e castiga chi non si pente.

Un altro problema legato a quello del castigo è il senso da dare a quelle che sono le sventure e le calamità della vita ed in generale al problema della sofferenza. Salvo restando il concetto che la pena è conseguenza del peccato, molti si interrogano sul perché tanti innocenti soffrono e perché tanti malfattori fanno fortuna.

Qui, la risposta viene dalla Scrittura, la quale da una parte ci presenta il valore redentivo della sofferenza di Gesù Cristo, l’innocente per eccellenza, e dall’altra ci fa presente che Dio sa attendere che ci convertiamo, mentre in caso contrario ci fa giungere la giusta punizione, come è accaduto al ricco epulone.

È inoltre importante ricordare l’opera della misericordia: essa solleva dalla sofferenza e, se lascia il sofferente nella sofferenza, lo consola invitandolo ad unirsi alla passione di Cristo.

Inoltre, l’opera principale della misericordia è la remissione dei peccati, tenendo presente che dal peccato ci viene ogni male. Il perdono divino pertanto toglie innanzitutto la colpa ed anche la pena, se non in questa vita, nella vita futura.

Le conseguenze del buonismo sono molto gravi per diverse ragioni.

1) Abolendo il castigo del peccato, castigo che ha una funzione deterrente, è chiaro che è più facile cadere nel peccato. Infatti, pensando che non ci sia castigo, uno è portato a peccare.

2) Il credere che tutti ricevono misericordia favorisce la prepotenza e la crudeltà. Infatti i prepotenti e i malfattori, credendo di non essere puniti, sono incoraggiati nel continuare le loro cattiverie contro il prossimo.

3) Le azioni che non sono punibili sono le azioni buone. Allora succede che, se il peccato non è punibile, appare un’azione buona, come le altre.

4) Coloro che sono appressi e maltrattati invano invocano giustizia, perché i loro oppressori possono agire liberamente nella sicurezza di non essere puniti.

5) Scompare il timore della dannazione eterna, in quanto si crede che in fondo tutti sono buoni e non esiste cattiva volontà, ma soltanto l’errore e la fragilità, ossia azioni tutto sommato scusabili.

6) scompare il valore della penitenza. Infatti essa serve a correggere la volontà e a scontare il peccato, ma, se il peccato non esiste, anche la penitenza non ha senso.

7) Infine, la cosa più grave: perde di senso l’opera della Redenzione. Infatti, il Verbo si è incarnato per prendere su di Sé il castigo del peccato (Is 53), scontare i nostri peccati, dare soddisfazione al Padre per l’offesa del peccato ed ottenerci il perdono divino.

Ma, se non esiste castigo, se non c’è niente da scontare, se non c’è da dare alcuna soddisfazione e se siamo già perdonati, l’opera della Redenzione è vanificata. Che cosa significa, questo? Che noi restiamo nei nostri peccati, la morte e la sofferenza restano odiose, ma sono invincibili.

A meno che non mettiamo la morte, il peccato e la sofferenza anche in Dio. Ma questo vuol dire confondere il male col bene.

Per questo affermazioni di questo genere sono semplicemente blasfeme.

In conclusione, in base a queste considerazioni appare come del tutto necessario ripristinare il significato autentico della parola castigo, perché in tal modo riprendiamo i contatti con il millenario patrimonio dottrinale di ragione e di fede, assolutamente necessario per dare senso alla nostra vita e procurarci la salvezza eterna.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 19 luglio 2022


Appare come del tutto necessario ripristinare il significato autentico della parola castigo, perché in tal modo riprendiamo i contatti con il millenario patrimonio dottrinale di ragione e di fede, assolutamente necessario per dare senso alla nostra vita e procurarci la salvezza eterna.

Immagine da Internet: Via Crucis

2 commenti:

  1. Gentile Padre,

    Grazie per le sue risposte. A proposito della parola "pena", faccio notare che di fatto è proprio la parola presente nell'editio typica del testo del c.d. Atto di dolore: "[...] poenas a te iuste statutas promeritus sum". Quanto alla definizione di castigo (divino), cosa pensa della definizione seguente: "malum poenae a Deo positive vel permissive proditum propter creaturae peccatum" ("male di pena da Dio positivamente o permissivamente voluto come risposta al peccato della creatura")? Un aspetto del problema è che ci siamo abituati a sentir dire che "Iddio non vuole e non produce mai il male", il che, mi sembra, è vero solo nel caso in cui per "male" si intenda il male di colpa, ma che non è sempre vero laddove si tratti del male di pena.

    Suo in Cristo,

    Pietro

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