La religione della mascherina

 La religione della mascherina

Una psicosi collettiva

Un mio confratello mi ha raccontato giorni fa che una signora nella chiesa del nostro convento, avendo sorpreso a quindici metri di distanza un’altra signora senza mascherina, le ha intimato di indossarla immediatamente, dopodiché è corsa dal Vescovo a denunciare il fatto.

Un tempo il fedele zelante denunciava al Vescovo un parroco che infrangeva le norme della celebrazione liturgica o che aveva dato scandalo pronunciando un’eresia nell’omelia della Messa o per una condotta sessuale scandalosa. Oggi si passa sopra a queste cose: occorre – si dice - rispettare le opinioni altrui e scelte morali «diverse».

Viceversa, le minuziosissime regole sanitarie relative al contenimento del contagio del covid stanno assumendo, a quanto pare, quel carattere di «valori non negoziabili», che Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, riprendendo un’espressione cara a Benedetto XVI, assegna ai dieci Comandamenti della morale ebraico-cristiana.

Dopo più di un anno di confronto con la pandemia, nel momento in cui la vaccinazione procede a pieno ritmo, stiamo assistendo, mi pare, ai segni preoccupanti di un logoramento psichico collettivo, nel quale ha buon gioco un’impressionante diffusione su larga scala in campo liturgico di un legalismo farisaico della più bell’acqua, favorito  proprio da quegli spiriti liberali, che fino a ieri si facevano promotori della spontaneità e della creatività liturgica mentre in campo morale impera il relativismo e la scostumatezza a ruota libera sotto il pretesto del pluralismo e della libertà.

Lungi da me naturalmente la minima disistima per la pratica, in linea di principio, della mascherina nelle dovute circostanze fissate dall’autorità sanitaria e religiosa, anzi colgo qui l’occasione per ringraziarle in questo frangente, che da più di un anno ci sta mettendo a dura prova, impegnandoci tutti, a cominciare dagli scienziati, dal personale medico e sanitario di tutto il mondo in un arduo esercizio  di dedizione e di solidarietà fraterne, che, come sempre in circostanze difficili, mette all’opera i cuori più generosi per non dire eroici in una lotta contro un nemico subdolo ed insidioso, circa la vittoria sul quale, grazie a Dio, cominciamo ad avere un barlume di speranza.

Quello che però è allarmante ed abnorme è l’impressione che possiamo avere che la premura per un’osservanza miope, ansiosa delle norme sanitarie, con particolare riferimento all’uso della mascherina  stia acquistando il tono di una specie di uno zelo religioso che sconfina nel fanatismo, e che finisce per essere un illusorio surrogato di quella premura che andrebbe impiegata per cause di ben maggiore importanza  e con ben maggiore profitto  per la salvaguardia della nostra salute morale e serenità psicologica, nonché per una  sana convivenza civile ed ecclesiale.  Soprattutto la mascherina è di rigore in chiesa, fosse ampia come San Pietro e dovessero esserci cinque o sei persone. Si fa eccezione nei bordelli, nelle discoteche e nelle osterie e nei luoghi delle vacanze e del turismo[1].

La mascherina sembra così fare le veci di un amuleto o di un portafortuna; il suo uso fideistico, feticistico e irrazionale sembra voler vanamente sopperire a quella mancanza di certezze morali, della quale moltissimi soffrono, certezze che non essendo fornite da una sana formazione civile e religiosa, vengono cercate spasmodicamente nella mascherina  ed in espedienti simili, cose che certamente non sono adatte a sopportare il peso della fiducia che viene loro accordata e che certo non è in grado di tranquillizzare la coscienza morale.

C’è in alcuni fedeli il sospetto non temerario che certe rigorosissime e dettagliatissime periodiche disposizioni dell’autorità civile, che toccano addirittura l’andamento delle cerimonie religiose e il regolamento del culto divino, avallate dall’autorità ecclesiastica forse con troppo zelo o forse per adulazione del potere politico, nascondano, sotto pretesto di salvaguardare la sanità pubblica e contenere il contagio, una sottile persecuzione della libertà di culto, che potrebbe avere radici massoniche o marxiste.

Sembrerebbe di essere tornati al cosiddetto «giuseppinismo», ossia allo stile del famoso Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, che si curava di regolare anche il numero delle candele sull’altare. Ma qui operava il suo zelo religioso, seppure indiscreto, mentre nel caso attuale, c’è purtroppo da temere che si tratti di un’ipocrisia che nasconde la volontà di distruggere la religione.

Alcuni indiscreti, peraltro, si sono lamentati che nelle chiese al posto dell’acquasantiera ci sia l’igienizzante. La cosa è ragionevole. Credere, come costoro, che l’acquasanta preservi come tale dall’eventuale contagiare o essere contagiati è un tentare Dio e quindi non va bene.

Noi siamo autorizzati a confidare negli aiuti divini solo quando, avendo esaurito la forza dei mezzi umani e avendo fatto il possibile con le nostre forze, non otteniamo ancora il risultato sperato. Solo allora è lecito e doveroso rivolgerci a Dio, accettando peraltro le sue disposizioni, che sono sempre sagge, anche se noi ci aspettavamo qualcosa di diverso. Come dice con la sua solita efficace brevità sostanziosa e succosa Sant’Agostino: «fa’ quello che puoi e chiedi quello che non puoi».

La mascherina sembra essere diventata un dovere assoluto ed universale. Viceversa continuano tranquillamente gli aborti, le fornicazioni, i concubinaggi, gli adulteri, i divorzi, le prostituzioni, le sodomie, le pedofilie, i furti, le violenze, la corruzione politica, il lusso, gli sprechi, le ingiustizie, i bagordi, la faziosità, gli odii, le eutanasie, i suicidi, gli omicidi, le guerre, le stragi, il terrorismo, le vendette, le bestemmie, i sortilegi, le stregonerie, gli scismi, le apostasie, le empietà, le eresie. È chiaro che in tutti questi casi si fa eccezione all’uso della mascherina.

Nessun timore che Dio possa castigarci, nessun suo richiamo alla conversione, anzi molti pastori, teologi, prelati e giornalisti lo escludono positivamente: neppure con questa pandemia, perché Dio o non esiste o, se esiste, è misericordioso. Non abbiamo nulla da scontare o da espiare, perché in fondo (molto in fondo) siamo tutti buoni e Dio ci ama. La pandemia è solo la vendetta della natura offesa per il mancato rispetto delle regole dell’ecologia.

La mascherina sembra esser diventata il simbolo di una diffusa ipocrisia, di un affettato rispetto gli uni per gli altri. Chi non porta la mascherina è uno che oltre a trascurare sé stesso, non evita di essere un pericolo per gli altri; è uno che non si cura o se ne infischia della salute degli altri.

Ma c’è dell’altro. La mascherina nasconde il volto della persona e lo rende quasi irriconoscibile. Maritain cita il motto di Cartesio «larvatus prodeo»[2]: procedo mascherato, nascondo la mia persona, dietro una maschera, che nasconde la mia vera identità. Ma perché nasconderla? Perché non manifestarsi come si è?  Che cosa ho da nascondere? Evidentemente qualcosa di inconfessabile, che non può esser fatto alla luce del sole. E quindi qualcosa di vergognoso. C’è qui una evidente volontà di finzione, di giocare una parte, come a teatro; poter di nascosto fare i miei comodi senza che alcuno lo sappia o mi veda.

E Dio non lo sa? Ma Dio sono io! Ecco il panteismo implicito celato sotto il cogito cartesiano, sotto il suo falso cattolicesimo, come emergerà chiaramente con Spinoza già nel ‘600 e nel sec. XIX con Fichte e con Hegel. Ma a che scopo? È chiaro: per apparire onesto coltivando interiormente la disonestà.  Il che vuol dire: sembro quello che non sono. Ecco l’ipocrisia.

La filosofia di Cartesio è la più grande maestra di ipocrisia dell’età moderna. Quando con Hegel l’uomo si uguaglierà esplicitamente a Dio, non occorrerà più conservare la maschera: la si può gettare senza vergogna e senza pericolo di scandalo, anzi suscitando ammiratori e seguaci, come è tipico del modernismo di oggi, soprattutto quello rahneriano. Teniamo la mascherina ma evitiamo la maschera.

Ci sono però anche oggi cattolici che non hanno questa spudoratezza e preferiscono portare la mascherina o la maschera, che dir si voglia. Ovviamente non intendo dire che tutti quelli che portano la mascherina siano dei cartesiani! Ci mancherebbe! Dico solo che la mascherina è un bel simbolo del cartesianismo.

Le ragioni della mascherina

Fin dal primo insorgere della pandemia gli esperti individuarono le cause e le condizioni della diffusione del virus. Esso si diffonde o per mezzo dell’alito emesso dalla respirazione della persona infetta o per contatto con una superficie toccata da una persona infetta. Il virus galleggia nelle goccioline dell’alito fino alla distanza di un metro o due e resta vivo e attivo per alcune ore. Se non entra in un altro organismo o per contatto o per le vie respiratorie, muore. Così similmente il virus di una persona infetta, restando attaccato in una superficie da essa toccata, resta attivo per alcune ore e poi muore.

Da qui l’utilità per non dire necessità rispettivamente della mascherina e dell’opportuna distanza interpersonale, che impedisce alle goccioline dell’alito della persona infetta anche asintomatica di raggiungere l’altra persona, nonché l’uso degli igienizzanti per le mani o per le superfici eventualmente contaminate.

Ma, osservate queste precauzioni, non ne occorrono altre. Non ha senso quindi portare la mascherina in luoghi solitari o ampli locali, come per esempio in una chiesa vuota o semivuota o a lunghe distanze dalle persone. Il virus non è come le zanzare d’estate all’imbrunire su di una costa romagnola, dove non ci si salva dovunque si vada. 

Ragionare a questo modo vuol dire non ragionare e non ragionare nell’attuale circostanza della pandemia, nella quale occorre più che mai non lasciarsi suggestionare da millantatori, ciarlatani o falsi veggenti o chi la spara più grossa, ma essere vigili, ponderati, lucidi e ragionare correttamente, è dannoso sia per il non ragionante che per coloro con i quali egli ha a che fare.

Quanto più le situazioni sono difficili e complesse, sono inverificabili le fonti d’informazione, è diffusa la prosopopea degli incompetenti, tanto più occorre usare cautela e prudenza e non lasciarsi suggestionare, o lasciarsi prendere dall’ansietà o dal panico, da eccessivi timori o ricorrere alla scaramanzia o adottare eccessive precauzioni.

Le insidie da evitare e i rimedi umani e divini

In una circostanza difficilmente sopportabile o risolvibile come questa della pandemia, nella quale pochi di noi restano lucidi, calmi ed oggettivi, mentre molti, salvo gli incoscienti, sono esposti a lasciarsi prendere dall’agitazione, dallo sconforto e dalla paura, e sono spinti quindi ad agire in modi irrazionali e controproducenti, che peggiorano il clima psicologico collettivo, diffidando dei veri competenti, ostacolando un’autentica opera di prevenzione, difesa e cura, è molto importante trovare solidi e sicuri motivi di conforto e di consolazione, di serenità e di speranza,  di coraggio e perseveranza, liberi da false consolazioni o rassicurazioni. E questo, sia sul piano naturale delle forze umane e sia sul piano della fede e della divina Rivelazione.

Non dobbiamo dimenticare, infatti, come il demonio approfitta proprio delle nostre prove e delle nostre sofferenze per spingerci su di un cammino fallace ingannati da false interpretazioni della parola di Dio ed in particolare del mistero delle Croce di Cristo.

Il demonio ci rende zelantissimi nell’uso della mascherina e degli igienizzanti, ma nel contempo ci maschera il vero volto di Cristo crocifisso per abbassarlo al semplice livello della vittima dell’ingiustizia umana, sicché ci viene oscurata la verità sul conseguimento della salvezza e sulla bontà di Dio. In tal modo riceviamo un’illusoria consolazione, che ci fa ignorare la nostra condizione di peccatori bisognosi di conversione e penitenza e ci impedisce di gustare la vera consolazione cristiana, che nasce dal sapere che il «castigo che ci dà salvezza si è abbattuto sui di Lui e che dalle sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5).

Beati coloro che sanno gustare queste paradossali parole e, per converso, infelici coloro che, sprezzanti della loro divina sapienza, si attaccano a false consolazioni. Il Papa ci ha detto di recente che «siamo provati». Ebbene, da queste parole del Papa si può giungere a comprendere il valore profetico delle parole di Isaia, che coglie già sei secoli prima il significato salvifico del sacrificio di Cristo.

Il Pontefice non aveva mai usato finora questa espressione a proposito della pandemia. Possiamo trarre infatti da queste parole luce, conforto, consolazione e speranza in linea con le parole del Profeta. Apparentemente Francesco non pare aver detto nulla di straordinario. Ma egli ha spesso la capacità di dire brevemente grandi cose. Occorre non lasciarsi sfuggire certe osservazioni o sentenze apparentemente banali, ma che in realtà nascondono importanti insegnamenti.

Questa espressione del Papa non piace troppo, per la verità, ai buonisti, i quali con la loro solita faciloneria preferiscono dire tout court: «siamo perdonati», saltando i dovuti passaggi e condizioni. Un Dio che ci mette alla trova sa troppo di un Dio severo, un Giove tonante che manda fulmini, un Dio che fa soffrire o porta disgrazie, un Dio costruito dalla loro fantasia e del quale ovviamente hanno orrore come di un dio pagano o al massimo dell’Antico Testamento. Infatti per loro Dio è solo misericordia, tenerezza e perdono.

Tuttavia la sofferenza esiste, la pandemia esiste. E come se la spiegano? Non se lo chiedono. Semplicemente combattono la sofferenza e la sopportano, magari aiutando gli altri a vincerla. In ciò sono anche encomiabili. Ma sono lontanissimi dal credere che essa possa essere giusto castigo per i loro peccati e mezzo di espiazione e di salvezza, come insegna Isaia e che quindi possa essere mandata da Dio per il nostro bene.

Così pure non capiscono le parole della Lettera agli Ebrei: «senza spargimento di sangue non c’è perdono» (Eb 9,22). Loro ritengono di essere perdonati senza troppi fastidi, perchè Dio è misericordioso. Non ritengono che si debba pagare un prezzo, perché, come essi dicono, la grazia è gratuita. Ma osserviamo che la grazia non è fatta per gli scrocconi. È mai possibile che un Gesù innocente debba esser stato «messo alla prova ed aver sofferto» (Eb 2,18) per noi, mentre noi allegri peccatori e meritevoli di castigo, dobbiamo farla franca tra i piaceri del mondo facendo i nostri comodi, «tanto Dio è buono»? È onestà, questa?

Non abbiamo un minimo di dignità? Perché il buon ladrone è detto «buono» e va in paradiso? Perché fa il furbo? Non ci rendiamo conto di essere anche noi dei ladroni? E perché il buon ladrone chiede misericordia se non dopo aver riconosciuto di essere stato giustamente castigato? Può Dio perdonare chi non accetta la sua giustizia?

Che vuol dire «siamo provati»?

Occorre esplicitare ciò che è contenuto nelle parole del Papa apparentemente scontate. Verrebbe a tutta prima fatto di dire: siamo provati? Bella scoperta! È evidente che siamo provati. Chiediamoci però che significa ciò in un senso cristiano. Infatti non sono queste le semplici parole di un amico che sta prendendo con noi un caffè al bar usando le solite frasi fatte. Ma sono le parole di un Papa, con tutta la profondità implicita che può essere contenuta nelle parole del Vicario di Cristo. Il significato immediato di queste parole è che si tratta solo di dar prova di pazienza secondo una morale stoica? Non lo possiamo negare. Però il discorso è ben lontano dall’esser tutto qui. Esso cela il significato cristiano della sofferenza.

Per fare un passo avanti, dico che mi pare evidente che se siamo provati nella pazienza, siamo anche provati soprattutto nelle fede e nella nostra capacità di rispondere alle esigenze della fede, la quale ci spiega il motivo salvifico della pazienza e la cui pratica ci dà forza nella pazienza.

Dio ci prova con la sofferenza per rafforzare la nostra fede nel valore redentivo della sofferenza e per rafforzarci nell’amore a Cristo in risposta all’amore che Lo ha spinto Lui innocente a far suo il castigo dovuto ai nostri peccati, trasformandolo in «castigo che dà salvezza», sicché le sue piaghe sono piaghe che ci guariscono, perché sono fatte proprie dal Dio della vita, che trasforma in vita ciò che è principio di morte.

Il Papa vuol dirci dunque che siamo provati nella nostra capacità di far nostra la passione di Cristo, sicché possiamo dire con San Paolo: «sono stato crocifisso con Cristo e non son più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2, 20). «Siamo provati» vuol dire dunque che siamo provati nell’amore per Cristo e per i fratelli, amore che è la messa in pratica della fede.

Ciò suppone dunque che siamo provati nella fede, con la quale crediamo: primo, che siamo castigati per i nostri peccati; secondo, che Cristo per amor nostro ha soddisfatto al Padre al nostro posto; terzo, che col sacrificio della Croce ci ha ottenuto dalla misericordia del Padre il perdono dei peccati; quarto, che unendo le nostre sofferenze a quelle redentrici di Cristo otteniamo la divina misericordia e possiamo sperare nella salvezza e possiamo meritare il premio celeste.

La coscienza cristiana di essere provati da Dio certamente a tutta prima può dare tristezza e angoscia per il fatto che sentiamo pesare su di noi la sua mano, che ci corregge; ma pensando al fatto che Cristo si è donato ed è morto per noi per liberarci da ogni male di colpa e di pena, proviamo consolazione e speranza, anche se indubbiamente la gioia piena potrà essere solo quella che proveremo uscendo vittoriosi dalla prova.

Il Signore ci prova non per farci cadere, ma per rafforzarci nella virtù, in particolare nella pazienza, nello spirito di sacrificio, nella fedeltà a Lui, nell’imitazione di Gesù crocifisso, nella speranza. Le prove hanno una funzione purificatrice, espiatrice, miglioratrice. Dio peraltro libera dalle prove troppo pesanti. Il Signore mette alla prova il giusto perché diventi più giusto: lo ha fatto con lo stesso suo Figlio (Eb 2,18) e prova anche i peccatori, perché si scuotano e si ravvedano. Dio manda molte prove ai giusti, perché li vuol far eccellere nella giustizia. Si può crollare sotto la prova, ma allora non si ha colpa.

È colpevole solo chi non regge alla prova per mancanza di fede o per viltà o perché non chiede aiuto a Dio. Non è detto che una prova sia un castigo, come possiamo vedere in Giobbe e in Cristo. L’innocente paga per i peccatori.  Ma il castigo, salvo quello solo afflittivo dell’inferno, è sempre una prova che serve a correggere il peccatore. Dio castiga chi si sottrae alla prova per mancanza di fiducia un lui, ma premia chi l’accetta con fiducia, soprattutto se sente che ha peccati da scontare.

La gioia nasce dal superamento delle prove, ma già nel corso della prova, nella consapevolezza che è il Signore a mandarla, l’animo è sereno e fiducioso di farcela. Nelle prove e nelle sofferenze, bisogna sempre vedere il dito di Dio o che paternamente ci rimprovera o che vuol farci fare un balzo in avanti. Quando arrivano le prove non ci si deve spaventare, ma mettersi fiduciosamente nelle mani di Dio, ricordando le altre volte che ci ha aiutato e consolato.

Quando arriva una prova che ci spaventa e magari mai accaduta, non dobbiamo lambiccarci il cervello su come ce la caveremo, ma bisogna mettersi con totale fiducia nelle mani di Dio ed Egli da par Suo non manca di aiutarci in modi del tutto imprevedibili e quasi insperabili.

«L’annuncio del Vangelo – ha detto il Papa nell’omelia della Messa crismale del Giovedì santo – è sempre legato all’abbraccio di una croce concreta». Perché abbracciare la croce di chi soffre? Che vuol dire? Che conforto possiamo dargli? Perché abbracciare la Croce? Che senso ha? Non è un masochismo? Per nulla. È grande saggezza, È la scientia Crucis.  Santa Caterina da Siena esorta più volte i suoi figli con queste parole: «ripòsati sulla croce!».

Come possono delle piaghe guarirci? Perchè sono le piaghe di Cristo! Che consolazione, che conforto possiamo trarre dal subìre ingiustizia, dall’essere afflitti dalla sventura, dall’essere castigati da Dio? Perché il nostro castigo se l’è preso Lui, pur essendo innocente e così l’ha trasformato in salvezza.

Dobbiamo dunque chiedere a Dio che ci liberi dalle croci o forse è meglio chiederGli che ci aiuti a sopportale e valorizzarle? È lecito e naturale in ogni caso chiedere al Signore che ci liberi dalle prove, come per esempio da questa pandemia. Tuttavia occorre poi accettare con rassegnazione e fiducia ciò che Dio dispone per il nostro bene, che può essere il perdurare del malanno, anche se per noi è faticoso accettare ciò. Ma occorre fidarsi di Dio, che sa meglio di noi ciò che per il momento è il meglio per noi.

Un tempo si praticavano le cosiddette «rogazioni», pie pratiche collettive in forma di processioni per supplicare Dio di liberare il popolo da qualche sciagura, che poteva essere benissimo un’epidemia. Ma oggi come oggi le attuali regole sanitarie riguardo alla pandemia, come è noto, le proibiscono.

Ottima e salutare preghiera, invece, che Dio immancabilmente e subito esaudisce e più di quanto chiediamo, è quella di chiederGli di trarre frutto spirituale dalla prova, con propositi di penitenza, conversione e rinnovata volontà di esercitare la carità e, possibilmente, l’assistenza a malati e sofferenti, pregando Dio per i vivi e per i morti.

P. Giovanni Cavalcoli

Fontanellato, 2 aprile 2021

 

il «castigo che ci dà salvezza si è abbattuto sui di Lui e che dalle sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5).

Il Papa ci ha detto di recente che «siamo provati». Ebbene, da queste parole del Papa si può giungere a comprendere il valore profetico delle parole di Isaia, che coglie già sei secoli prima il significato salvifico del sacrificio di Cristo.



 

 

Il Pontefice non aveva mai usato finora questa espressione a proposito della pandemia.


Possiamo trarre infatti da queste parole luce, conforto, consolazione e speranza in linea con le parole del Profeta. 

Apparentemente Francesco non pare aver detto nulla di straordinario. Ma egli ha spesso la capacità di dire brevemente grandi cose. Occorre non lasciarsi sfuggire certe osservazioni o sentenze apparentemente banali, ma che in realtà nascondono importanti insegnamenti.

Immagini da internet

[1] Vedi le recenti foto di allegri affollati assembramenti di vacanzieri a Londra e a Parigi sotto il sole primaverile senz’alcuna preoccupazione di distanze o mascherine.

[2] Le songe de Descartes, Buchet&Chastel, Paris 1932.

6 commenti:

  1. Tutto ragionevole e chiaro. Bella e originale la parte dove scrive degli "scrocconi", é proprio così. E' un'espressione divertente ma anche seria che spiega benissimo quell'atteggiamento di buonismo che esiste tra di noi.

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    1. Caro Alessandro, sono contento che lei abbia gradito le mie parole e le auguro ogni bene nel suo cammino di santità.

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  2. Davvero straordinaria la capacità di p. Cavalcoli di ricavare dal "siamo provati" di papa Bergoglio una catechesi sul castigo e sulla prova cui inevitabilmente chi è amato da Dio va incontro. Perfino Cristo non ha potuto evitare il calice amaro preparato dal Padre. Se Bergoglio si è convinto che in definitiva siamo provati, perché la CEI non prende atto del pensiero del papa e rimette nel Padre Nostro la formula originale "non ci introdurre nella prova"? Silvio-

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    1. Caro Silvio,
      il termine greco del testo evangelico è peirasmos. Questa parola può significare o “prova” o “tentazione”. San Girolamo ha fatto bene a tradurre con temptationem, perché mentre la prova è mandata da Dio per santificarci, la tentazione è mandata dal diavolo per farci cadere.
      Ora, stando così le cose, tu capisci che non ha senso chiedere a Dio che non ci mandi le prove, perché esse servono alla nostra santificazione.
      Per questo la nuova traduzione “non abbandonarci alla tentazione” appare migliore della traduzione precedente “non indurci in tentazione”, perché questa formula può dare l’impressione che Dio possa essere un tentatore, il che sarebbe una bestemmia, perché si scambierebbe Dio col diavolo.
      Naturalmente in passato i buoni cristiani non hanno mai pensato ad una cosa del genere. Tuttavia la formula non era così perspicua come quella nuova, la quale toglie ogni possibile equivoco, perché essa invoca l’aiuto divino nella tentazione.
      Cioè noi chiediamo a Dio di non abbandonarci quando siamo tentati “dal demonio, dalla carne e dal mondo”.

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  3. Caro Padre Cavalcoli, sono totalmente d'accordo con la tua riflessione sulla "religione della mascherina", e sugli ipocriti eccessi farisaici nell'adempimento delle norme sanitarie, vale a dire che superano quanto ragionevolmente necessario nelle circostanze del pandemia in corso. Ma capisco che sia necessario rispettare anche norme igieniche, oltre che regole, proprio per lo scopo a cui tendono. Il caso di quanto accaduto a Parigi nella messa di Pasqua nella chiesa di Saint-Eugène-Sainte-Cécile (cf: https://www.ilgazzettino.it/esteri/parigi_messa_pasqua_polemiche_senza_mascherina-5879980.html), che ha motivato i processi canonici ordinati dall'arcivescovo Aupetit, mi sembra misure giuridiche assolutamente fondate.

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    1. Caro Ross,
      ti ringrazio per questa informazione. Comprendo il risvolto canonico che può avere una infrazione alle norme sanitarie concernenti l’uso della mascherina.
      Il motivo di ciò è dato dal fatto che l’autorità ecclesiastica, con suo pieno diritto, ha fatte proprie le norme sanitarie emanate dalla autorità civile.
      Per questo si può comprendere che gravi infrazioni alle norme sanitarie possono avere un riflesso canonico e motivare un intervento dell’autorità ecclesiastica finalizzato a sanzionare tali infrazioni, in quanto riconosciute come disobbedienza alle norme della Chiesa.

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