Giustizia e crudeltà - Seconda Parte (2/2)

Giustizia e crudeltà

Seconda Parte (2/2)

La polemica contro Sant’Anselmo

Da alcuni decenni è diventato quasi un luogo comune tra i modernisti, quando si tratta del perché della morte di Cristo, prendersela con Sant’Anselmo accusandolo non solo di rigidezza nella determinazione di motivazioni razionali della Redenzione, il che andrebbe anche bene, ma arrivando al punto da respingere il fine soddisfattorio della morte di Cristo, così da andare contro il dogma del Concilio di Trento[1].

Non si capisce peraltro perché prendersela proprio con Sant’Anselmo, il quale non ha fatto altro che riprendere la tematica del sacrificio del Servo di Jahvè di Is 53, la quale arriva alla dottrina della Redenzione del Nuovo Testamento, di Cristo stesso, nonchè di San Paolo e San Giovanni, ed inaugura un’ermeneutica del Mistero della Croce che troverà la sua consacrazione dogmatica nel Concilio di Trento. Inoltre Anselmo non usa mai l’espressione pur biblica del «placare l’ira divina», ma parla sempre di «soluzione del debito verso Dio» e di «restituzione dell’onore che Gli è dovuto».

Anselmo usa i termini satisfactio ed expiatio, non però per significare un atto propiziatorio, ma l’atto della riparazione del peccato, dell’ingiustizia o della disobbedienza nei confronti di Dio. Anselmo arriva a parlare di «furto», certo in senso metaforico, riferendosi a quell’onore che dobbiamo a Dio obbedendo ai suoi comandamenti.

Ora, è vero che il termine soddisfazione non esiste nella Scrittura, ma esiste il termine equivalente espiazione (kippur, ilasmòs, expiatio), che è il compimento del sacrificio col quale il sacerdote offre a Dio una vittima per placare l’ira divina. L’uccisione della vittima non è necessaria. L’importante è che essa sia dedicata solamente e totalmente a Dio.

Il sacrificio (gr. thysìa, ilasterion, eb. zabah, sehitah) è l’atto centrale della virtù di religione da sempre presso tutti i popoli[2]. È per sua essenza azione sacra (sacrum-facio) compiuta dal sacerdote (sacer-dos, sacrum-dans), per la quale egli, offrendo a Dio qualcosa che gli è gradito, ossia una vittima di espiazione, dà a Dio soddisfazione per i peccati, placa l’ira divina (expiatio) e rende Dio propizio all’uomo sicchè Dio perdona il peccato e gli fa misericordia.

Già però l’Antico Testamento prospetta una vittima del sacrificio che non sia una cosa esteriore, ma la propria stessa volontà: «uno spirito contrito è sacrificio a Dio» (Sal 50,19). Non si tratta tanto di mortificare il proprio corpo quanto piuttosto la propria volontà nell’obbedienza, anche se si tratta di una mortificazione costosa.

Bisogna inoltre tener presente che il sacrificio è un atto di giusta compensazione o restituzione o riparazione nei confronti di Dio. Pertanto la satisfactio è essenziale al sacrificio. Occorre riacquistare la benevolenza del Dio da noi offeso. Da qui la propitiatio.

Per questo, chi nega la satisfactio propiziatoria come non so quale atto meschino davanti alla violenza o pretesa crudele di un Dio dispotico e vendicativo, assetato di sangue, come mancanza di fiducia nella divina infinita misericordia, sola virtù degna di Dio, nega in realtà alla radice con ciò stesso, forse senza accorgersene, nientemeno che la stessa virtù di religione e cade nell’empietà, vizio oggi diffusissimo soprattutto a causa della diffusione dell’ateismo e dell’antropocentrismo, che sostituisce l’uomo a Dio e considera l’uomo alla pari di Dio. Il buonismo non fa altro che causare questa totale mancanza di responsabilità nei confronti di Dio, mantenendoci in un’atmosfera ovattata di falsa sicurezza, che è proprio il modo di farci correre il pericolo della dannazione.

L’uccisione della vittima non è necessaria ed è propria delle religioni primitive, per esprimere la totale appartenenza della vittima a Dio e il fatto che essa si sottrae al possesso dell’uomo. Il Padre ha voluto la morte della Vittima divina. Ma, se avesse voluto, poteva accontentarsi semplicemente del sacrificio di sé di un uomo totalmente dedicato al suo servizio. Sant’Anselmo non tiene conto di questa possibilità.

Un esponente illustre di questo atteggiamento polemico è Joseph Ratzinger, non il Ratzinger Prefetto della CDF, coautore del Catechismo della Chiesa Cattolica e tanto meno Papa in esercizio, ma il Ratzinger semplice teologo dell’Introduzione al cristianesimo del 1967[3] e Benedetto XVI Papa Emerito[4].

Al riguardo addolora leggere il tono calunnioso della domanda su Sant’Anselmo che l’intervistatore rivolge a Benedetto:

 

«Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno. Esprimendosi in questo modo, si rischia di proiettare su Dio un’immagine di Dio di collera, dominato, dinanzi al peccato dell’uomo, da sentimenti di violenza e di aggressività paragonabili a quello che noi stessi possiamo sperimentare. Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai assodata presso i fedeli, che il Dio dei cristiani è un Dio “ricco di misericordia” (Ef 2,4)?

La cosa che qui sorprende è come Benedetto, anziché correggere il tono calunnioso della domanda, la prende per buona e parte a sua volta rincarando la dose ed affermando, senza fare alcuna distinzione o precisazione, che «le categorie concettuali di Sant’Anselmo sono diventate oggi per noi di certo incomprensibili» (p.89). E prosegue:

 

«La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia e il Figlio che ubbidisce al Padre e obbedendo accetta la crudele esigenza della giustizia non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata» (p.90).

Dobbiamo osservare con franchezza che questo modo dell’Emerito di presentare la dottrina di Anselmo è del tutto falsa. Riguardo al rapporto del Padre col Figlio Anselmo non si sofferma sull’episodio del Gethsemani. Dimostra con buoni argomenti di convenienza che il Padre aveva tutto il diritto di esigere una riparazione per il peccato commesso dall’uomo. Egli mostra come questa esigenza è legata alla misericordia e alla volontà di glorificare l’uomo, dandogli in Cristo la possibilità di operare efficacemente per la propria salvezza.

Ciò che può creare in noi una certa riserva non è l’affermazione della costosa e meritoria obbedienza del Figlio al piano del Padre di aver voluto l’Incarnazione affinchè Cristo soddisfacesse al Padre per il «furto» che l’uomo Gli aveva fatto del suo «onore». È questo il linguaggio di Anselmo, ricco di nobiltà ed elevatezza di pensiero, che niente ha a che vedere con non sappiamo quale «crudeltà» o cose del genere.

Ciò che non saprebbe ricevere il nostro consenso è il fatto che Anselmo sembra voler sostenere che il Padre non poteva non esigere soddisfazione, altrimenti sarebbe stato ingiusto. E invece bisogna dire che il Padre avrebbe potuto salvarci in altri modi, diversi da questo. Avrebbe potuto perdonarci tutti senza castigarci e senza esigere riparazione. In ciò il Padre ha agito con totale libertà, senza essere affatto obbligato e quindi nell’esigere riparazione non è stato necessitato.

Occorre dire d’altra parte, che questo spiacevole incidente occorso all’Emerito è una prova di come un Papa emerito, per quanto possa restare Papa, non esercitando più il munus petrino, decade al livello della fallibilità dottrinale comune dei fedeli dalla quale è immune solo il Papa in esercizio.

Anselmo è invece abile nel mostrare le necessità logiche interne al piano della salvezza, come per esempio il fatto che una volta che il Padre aveva deciso di esigere una soddisfazione adeguata, non poteva non volere l’Incarnazione del Figlio per il fatto che mentre l’uomo Gesù poteva morire nell’offrirsi in sacrificio, solo il Verbo con la sua divina potenza poteva espiare il peccato, vincere le potenze sataniche,  consentire a Gesù di acquistare meriti infiniti e all’uomo di essere liberato dal peccato e dalla morte, di diventare figlio di Dio e di meritare il paradiso. 

Per Anselmo non è conveniente che Dio rimetta il peccato per pura misericordia senza la soluzione del debito. Egli paragona Dio a un proprietario che è stato derubato da un creditore. Non parla di una persona che è stata offesa e non appare neppure l’immagine dell’ira divina. Egli invece si rifà al paragone del derubato, il quale ha tutto il diritto di esigere che il ladro gli restituisca il maltolto, mentre colui che ha concesso un credito ha tutto il diritto che gli venga onorato il debito.

Il derubato e il creditore hanno un dovere di giustizia nei confronti del ladro e del creditore. Ma Anselmo non considera il fatto che se i due rinunciassero al loro diritto per un atto di pietà compierebbero un atto di virtù superiore, che è appunto la misericordia. Per questo Anselmo, nel dimostrare la ragionevolezza delle esigenze dei due personaggi, trascura la possibilità del condono, anche se di fatto, poi, considerando come Dio si è comportato con l’uomo, non ha difficoltà a riconoscere l’azione della misericordia.

Anselmo ci mostra molto bene quanto grande è la gravità del peccato, se per riparare al guasto da esso provocato è stato necessario che il Padre sacrificasse suo Figlio. Anselmo ci indica quindi qual è il punto di vista giusto per capire l’iniziativa del Padre. Il Padre, sì, ha voluto soddisfazione, ma ciò avviene per il motivo fondamentale e primario che il Padre ha voluto liberare l’uomo da un male – il peccato – dal quale da sé non poteva liberarsi.

Quindi il Padre nell’opera redentrice si mostra sostanzialmente generoso fino a non risparmiare neppure suo Figlio, più che preoccupato di salvare il proprio onore ed essere risarcito o compensato. Questo intento non è il principale, ma è subordinato e secondario – del tutto legittimo -, rispetto a quello primario di salvare l’uomo, costasse pure il sacrificio cruento del Figlio.

Anselmo, però, fermo nella considerazione che Dio ha di fatto voluto soddisfazione, non ha pensato al fatto che non era così necessario come egli credeva che il Padre si limitasse a quel modo di salvare l’uomo, ma poteva usare altri mezzi. D’altra parte, lo sbaglio dei buonisti è quello di sostenere che il Padre si è comportato di fatto – usare solo misericordia – così come avrebbe potuto comportarsi, se avesse voluto e di non voler riconoscere ciò che di fatto ha voluto. 

Se avesse voluto, Dio avrebbe potuto farlo. Non era necessario che lo facesse. Ma ha preferito onorare l’uomo dandogli in Cristo la possibilità di sdebitarsi. Di fatto, però, adesso, stante quello che il Padre ha deciso liberamente, per salvarci è obbligatorio o necessario espiare il peccato in Cristo. Certo, una volta che il Padre ha voluto avere piena soddisfazione, era logicamente necessario che incaricasse suo Figlio, perché solo Lui poteva sborsare una somma infinita per pagare l’infinito debito contratto col Padre da Adamo.

Anselmo riconosce che solo Cristo avrebbe avuto la forza divina necessaria per distruggere o rimettere il peccato, per portare la vita laddove c’era la morte, per aiutare l’uomo laddove non riusciva a farcela da solo. Quindi l’aiuto di Cristo è stato necessario per la salvezza. Se avesse voluto, Dio poteva anche non punire il peccato di Adamo. Poteva toglierlo senza bisogno di espiazione. I buonisti sostengono come avvenuto ciò che poteva avvenire, ma che di fatto non è avvenuto.

Dio sarebbe ingiusto se non punisse chi merita di essere punito, ma è misericordioso se perdona senza esigere riparazione. Di fatto ha deciso di esigere riparazione. E per questo ha voluto il sacrificio espiatorio del Figlio. I buonisti ritengono come avvenuto ciò che era solo possibile, ma che di fatto non è avvenuto. Anselmo invece ritiene che era necessario che Dio esigesse riparazione, per non apparire ingiusto.

Ora, bisogna dire che commette ingiustizia il giudice che non punisce un criminale, ma Dio, che ha la possibilità di cambiare i cuori, può convertire un peccatore risparmiandogli la punizione. Avrebbe potuto, se avesse voluto, convertire Adamo dopo il peccato risparmiando all’umanità le conseguenze del peccato originale.

Sant’Anselmo si chiede se è conveniente che Dio rimetta il peccato per pura misericordia senza la soddisfazione del debito e ritiene di poter dimostrare che non era ragionevole ossia che era necessario che Egli esigesse soddisfazione.

Le ragioni che porta Anselmo, benché le chiami necessarie, sono in realtà di semplice convenienza, perchè anche Anselmo sa benissimo che qui si tratta di una semplice scelta divina. Osserviamo, infatti, che se Dio avesse voluto, avrebbe potuto evitare di esigere soddisfazione e non per questo non avrebbe salvato l’umanità.

Ma Dio ha preferito onorare l’uomo dandogli in Cristo la possibilità di sdebitarsi. Di fatto, pertanto, adesso, stante quello che il Padre ha deciso liberamente, per salvarsi è obbligatorio o necessario espiare il peccato in Cristo. Certo, una volta che il Padre ha voluto avere piena soddisfazione, era logicamente necessario che incaricasse suo Figlio, perché solo Lui poteva sborsare una somma infinita per pagare l’infinito debito contratto col Padre da Adamo.

Solo Cristo avrebbe avuto la forza divina necessaria per distruggere o rimettere il peccato, per portare la vita laddove c’era la morte, per aiutare l’uomo laddove non riusciva a farcela da solo. Quindi l’aiuto di Cristo è stato necessario per la salvezza. Se avesse voluto, Dio poteva anche non punire il peccato di Adamo. Poteva toglierlo senza bisogno di espiazione. I buonisti sostengono come avvenuto ciò che poteva avvenire, ma che di fatto non è avvenuto.

Anselmo inoltre ritiene di poter dimostrare razionalmente che se Dio non avesse esigito soddisfazione sarebbe stato ingiusto. Dio, spiega Anselmo, sarebbe ingiusto se non punisse chi merita di essere punito. Tuttavia, dobbiamo osservare noi, Dio, se avesse voluto, avrebbe potuto esercitare la sola misericordia senza esigere riparazione. Di fatto però ha deciso di esigere riparazione. E per questo ha voluto il sacrificio espiatorio del Figlio. I buonisti ritengono come avvenuto ciò che era solo possibile, ma che di fatto non è avvenuto. Anselmo invece ritiene che era necessario che Dio esigesse riparazione, per non apparire ingiusto.

Ora, bisogna tener presente che commette ingiustizia il giudice umano che non punisce un criminale ostinato, ma Dio, che ha la possibilità di cambiare i cuori, può convertire un peccatore risparmiandogli la punizione. Avrebbe potuto, se avesse voluto, convertire Adamo dopo il peccato risparmiando all’umanità le conseguenze del peccato originale.

Infine è interessante confrontare la cristologia di Anselmo con quella di Hegel[5], entrambi eccessivamente fiduciosi nella forza del ragionamento in teologia, Anselmo rimanendo entro i limiti del realismo, mentre Hegel cade nell’idealismo; Anselmo, pertanto, dà il primato alla fede sulla ragione, mentre Hegel a causa del suo idealismo, dà il primato della ragione sulla fede.

In tal modo, mentre per Hegel il reale viene a coincidere col razionale, in Anselmo il reale trascende il razionale, così che vi è spazio per la fede, il cui oggetto è un reale che trascende il razionale. Anche Anselmo, tuttavia, come Hegel, vuol determinare ragioni necessarie dell’agire divino in Cristo, con la differenza però che mentre Anselmo parte da Cristo come oggetto di fede, Hegel parte da Cristo come oggetto di ragione (logos). La fede per Hegel è un concetto privo di necessità, ossia è una rappresentazione, una Vorstellung, al contrario della filosofia, che è il il vero pensare (denken) o sapere del necessario e quindi mostra come necessario (propter quid) ciò che per la fede è solo un dato di fatto (quia).

Hegel non sbaglia nell’usare la triade 1. affermazione, 2. negazione, 3. negazione della negazione per spiegare la necessità della Redenzione. Solo che Egli identifica da idealista la necessità logica con una inesistente necessità ontologica («dialettica») dell’azione divina, mentre invece Anselmo, realista e da uomo di fede, ha l’accorgimento di distinguere l’opera redentrice come effetto della libera scelta divina, dalle necessità logiche che si trovano nell’attuazione di quest’opera, una volta che il Padre decise di compierla.

Qual è il vero Dio

I modernisti si sono fatti un loro concetto dell’«uomo moderno» in base ai loro comodi e pretendono di usare questo concetto come criterio di valutazione e di discernimento per determinare e scegliere nella Sacra Scrittura ciò che è accettabile e ciò che non lo è, ciò che corrisponde e ciò che non corrisponde alle idee ed alle esigenze dell’«uomo moderno».

Ora, essere moderni nel senso di essere avanzati e progrediti nel sapere è certamente un dovere, soprattutto se si tratta di ciò che riguarda la conoscenza della Sacra Scrittura. Tuttavia, il criterio per essere moderni in questo senso non ci viene dai modernisti, eredi dell’idealismo cartesiano e del fideismo luterano, ma ci viene dai princìpi di conoscenza propri della Scrittura, nonché dalla luce con la quale essa illumina e stimola la nostra ragione ad avanzare nella conoscenza della verità, sicchè ogni sana modernità è ciò che la nostra intelligenza illuminata dalla fede ricava dal testo della Sacra Scrittura, modernità con la quale e in base alla quale giudichiamo il modernismo dei modernisti. È la Sacra Scrittura interpretata ed esplicitata dalla Chiesa di oggi, che deve giudicare il modernismo e non viceversa.

Ora il Dio dell’«uomo moderno» che piace ai modernisti non è il vero Dio, il Dio della Bibbia. I modernisti giudicano «crudeltà» le manifestazioni di giustizia del Dio biblico, ma hanno torto, perché tolgono alla giustizia la sanzione che spetta all’azione malvagia, cioè al peccato, e in questo modo essi non favoriscono affatto, come credono, la misericordia, ma semplicemente legalizzano l’ingiustizia, per la quale non si riconosce né si reprime più il male commesso dal peccato e quindi il peccato diventa lecito come se fosse un’azione buona.

P. Giovanni Cavalcoli  

Fontanellato, 1 marzo 2023

Il buonismo non fa altro che causare questa totale mancanza di responsabilità nei confronti di Dio, mantenendoci in un’atmosfera ovattata di falsa sicurezza, che è proprio il modo di farci correre il pericolo della dannazione.

Un esponente illustre di questo atteggiamento polemico è Joseph Ratzinger, non il Ratzinger Prefetto della CDF, coautore del Catechismo della Chiesa Cattolica e tanto meno Papa in esercizio, ma il Ratzinger semplice teologo dell’Introduzione al cristianesimo del 1967 e Benedetto XVI Papa Emerito.

Al riguardo addolora leggere il tono calunnioso della domanda su Sant’Anselmo che l’intervistatore rivolge a Benedetto:

«Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno. … ».

La cosa che qui sorprende è come Benedetto, anziché correggere il tono calunnioso della domanda, la prende per buona e parte a sua volta rincarando la dose ed affermando, senza fare alcuna distinzione o precisazione, che «le categorie concettuali di Sant’Anselmo sono diventate oggi per noi di certo incomprensibili» (p.89). E prosegue:

«La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia e il Figlio che ubbidisce al Padre e obbedendo accetta la crudele esigenza della giustizia non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata» (p.90).

Occorre dire d’altra parte, che questo spiacevole incidente occorso all’Emerito è una prova di come un Papa emerito, per quanto possa restare Papa, non esercitando più il munus petrino, decade al livello della fallibilità dottrinale comune dei fedeli dalla quale è immune solo il Papa in esercizio.

Immagini da Internet:
- Sant'Alselmo
- Papa emerito Benedetto XVI

[1] «propter nimiam caritatem, qua dilexit nos (Ef 2,4), sua sanctissima passione in ligno crucis nobis iustificationem meruit et pro nobis Deo Patri satisfecit» (Denz.1529).

[2] San Tommaso, Sum. Theol., II-II, qq.81-100.

[3] Ed.it. della Editrice Queriniana, Brescia 2003, pp.183, 227-238.

[4] Che cosa è il cristianesimo. Quasi un testamento spirituale, Edizioni Mondadori, Milano 2023, pp.87-93.

[5] Emile Brito, La christologie de Hegel, Beauchesne, Paris 1983.


14 commenti:

  1. Rev. P. Cavalcoli,
    Grazie per questo excursus oltremodo necessario. Tante volte ho dovuto anche io cercare di convincere conoscenti modernisti o modernistizzanti che si trovavano in difficoltà di fronte alla dottrina scritturale, neotestamentaria, patristica e tridentina della soddisfazione. Una domanda (probabilmente senza risposta) mi viene in mente: come mai il Papa emerito si è lasciato andare a tali considerazioni? Com'è possibile che un uomo della sua levatura intellettuale (e, ne sono certo, della sua virtù) abbia dato una risposta così oggettivamente imprecisa e sbrigativa, che non avrà mancato di scandalizzare molti?
    Grazie del suo tempo e a presto!

    Pietro

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    1. Caro Pietro,
      anch’io sono rimasto molto sorpreso nel leggere le parole dell’Emerito riguardanti l’interpretazione della volontà del Padre celeste relativamente all’opera della quale ha incaricato il Figlio per liberarci dal peccato e dalla morte.
      Si sente che l’Emerito si trova a disagio, perché sembra avere ripugnanza per il linguaggio metaforico col quale la Scrittura e il Magistero della Chiesa Cattolica descrivono l’opera soddisfattoria, espiatrice e redentrice di Cristo.
      Quello che io noto, se mi è concesso, nell’Emerito è l’incapacità di fare la distinzione che ho fatto tra il giusto castigo e la crudeltà. Da che cosa dipende, questo stato d’animo? Secondo me è uno stato emotivo che potrebbe essere causato da una insufficiente riflessione sul significato biblico del giudizio divino e forse più a monte su di una insufficiente riflessione su quella che è la volontà divina di sopprimere il peccato.
      Una cosa che ci consola nell’Emerito è che ha avuto su questo tema il suo periodo migliore quando, insieme con San Giovanni Paolo II, ha preparato il CCC, dove ognuno può constatare come questa ritrosia nei confronti dell’opera soddisfattoria di Cristo è del tutto assente e comprensibilmente si esprime il significato del Sacrificio di Cristo con quella chiarezza inequivocabile che è data dal dogma già definito dal Concilio di Trento.
      La mia idea è che Papa Benedetto, dando le dimissioni ed avendo rinunciato all’esercizio del ministero petrino, non ha più ricevuto quell’influsso dello Spirito Santo che rende un Papa infallibile nella dottrina, benchè Benedetto sia rimasto Papa per sempre. Questo episodio imbarazzante getta una nuova luce sulla differenza tra Papa regnante e Papa emerito, nel senso che ci fa capire che, mentre il Papa regnante fruisce del dono dell’infallibilità, il Papa emerito è sceso al livello di tutti gli altri fedeli, che sono privi di quel dono che Cristo ha conferito soltanto a Pietro: “Tu es Petrus, confirma fratres tuos”.

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    2. Caro Pietro, purtroppo a suo tempo il testo della mia risposta è stato indicato come spam e quindi non pubblicato. Me ne sono accorto ora.

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  3. Buongiorno Padre Cavalcoli,
    Riguardo il passaggio sull'emerito , come ricorderà , Lei vi ha dedicato un post tempo fa , riprendendo in sostanza l'interpretazione che della famosa intervista del 2017 fece il gesuita Felice Scalia, il quale esultava perchè finalmente la Chiesa avrebbe abbandonato il concetto del valore soddisfattorio e espiativo del sacrificio di Cristo. Lei attribuisce - ieri come oggi - questo 'cedimento' di Ratzinger al fatto che allora non fosse più papa. Questo ridurrebbe l'area di 'infallibilità' della parabola ratzingeriana al breve arco del pontificato , mentre la gran parte del suo lavoro passerebbe dalla fase modernista delle origini - mai conclusa secondo certo tradizionalismo - alla lunga stagione succesiva alla rinuncia. Nel merito rimando alle considerazioni fatte allora. Aggiungo solo che Elio Guerriero è la persona alla quale Ratzinger ha affidato il suo 'testamento spirituale' , ovvero la memoria della travagliata stagione post rinuncia, poichè lo riteneva - egli e non altri (..) persona del tutto affidabile sotto il profilo teologico. Difficile pensare che l'affondo su S.Anselmo avesse da parte sua altri intenti. Grazie

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    1. Caro Anonimo,
      mi sembra, da come lei si esprime, che lei prospetti la possibilità che un Papa emerito possa continuare a fruire del dono dell’infallibilità dottrinale anche dopo aver dato le dimissioni. Le ricordo che questo dono, come ho già detto in precedenza, è conferito da Cristo soltanto al Successore di Pietro regnante.
      Per quanto riguarda la questione del modernismo, mi guardo bene dall’accusare di modernismo il teologo Ratzinger prima della sua elezione a Papa. Quello che ho notato, nelle modeste conoscenze che ho potuto acquisire di questo periodo della sua vita, è una vicinanza a Rahner, che presenta alcune lievi tracce di modernismo, cosa che non intacca il sostanziale alto valore della teologia di Ratzinger, notoriamente di ispirazione agostiniana.
      Per quanto riguarda il periodo dell’emeritato, ciò a cui ho fatto attenzione nel mio ultimo articolo non è ciò che Scalia ha riferito circa il giudizio del Papa su Sant’Anselmo, ma sono le precise parole che l’Emerito ha pronunciato durante l’intervista che egli concesse a P. Daniele Libanori. Questa intervista è stata pubblicata, a cura di Erio Guerrero, nel libro “Che cos’è il cristianesimo”, edito nel gennaio scorso. In questa intervista l’Emerito dichiara che la risposta data da Anselmo alla domanda circa il significato della morte di Gesù Cristo “oggi è per noi quasi incomprensibile”.
      Ora, io mi domando: se il Concilio di Trento dichiara che la morte di Cristo ha un valore soddisfattorio e se Sant’Anselmo insegna questa dottrina, perché prendersela con Sant’Anselmo, il quale ha precorso il dogma del Concilio di Trento?
      Devo inoltre fare una precisazione circa il libro suddetto. Chiunque l’ha letto si accorgerà che io mi sono sbagliato nel mio ultimo articolo sul Papa emerito, presentando Guerrero come intervistatore, mentre egli è il curatore di una serie di scritti redatti dall’Emerito. Tra questi scritti, il capitolo quarto tratta di una intervista* che gli aveva fatto il P. Daniele Libanori e commentato successivamente da P. Felice Scalia.

      *
      http://www.fondazioneratzinger.va/content/fondazioneratzinger/it/news/notizie/benedetto-xvi--_e-la-misericordia-che-ci-muove-verso-dio.html
      http://www.fondazioneratzinger.va/content/dam/fondazioneratzinger/contributi/QUO%202016%20063%201703%2000004-05.PDF

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    2. Grazie Padre,
      A pag. 58 nell'ambito del capitolo su ebrei e cristiani troviamo il seguente passaggio : "Per i cristiani il sacrificio integrale di Gesù in croce è la sintesi delle due visioni, possibile solamente a partire da Dio e nello stesso tempo necessaria"

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    3. Caro Angheran,
      nei versetti del Salmo 51, precedentemente citato dall’Emerito, si parla sia di un sacrificio della volontà che di un sacrificio di animali e giustamente l’Emerito parla, a proposito di Gesù, di un sacrificio integrale, che abbraccia sia l’aspetto fisico che quello spirituale.
      Queste mie parole vorrebbero essere un chiarimento al passo che lei ha riferito.
      Tuttavia vorrei chiederle a che proposito ha citato quel passo del libro dell’Emerito.

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  4. Caro Padre Giovanni,
    il teologo benedettino Roberto Nardin (https://www.vitanostra-nuovaciteaux.it/wp-content/uploads/2009_Nardin_Incarnazione-e-redenzione-in-Anselmo-dAosta.pdf), così sintetizza alcune delle principali critiche alla cristologia di sant’Anselmo relativamente al sacrificio soddisfatorio:

    «Alcuni teologi […] sono giunti alla conclusione che il Cur Deus homo esprime semplicemente un’elaborazione di postulati derivanti dalla società feudale (onore da restituire) e dal mondo del diritto (debito da pagare), così che la cristologia anselmiana diventa «un fosco processo di redenzione» (H. KÜNG, Essere cristiani (München 1974), Oscar Mondadori, Milano 1976).
    Altri autori, soffermandosi sull’orizzonte metodologico dell’opera, affermano che il Cur Deus homo sarebbe segnato da un forte razionalismo ante litteram, in cui si vorrebbe ridurre la “religione nei limiti della sola ragione” come afferma il noto programma kantiano, perché Anselmo userebbe soltanto la ratio (sola ratione) e non la fides nell’indagine teologica della Rivelazione […]
    Felix Hammer (Genugtuung und Heil. Absicht, Sinn und Grenzen der Erlösungslehre Anselms von Canterbury, Herder, 1967, p. 68-145) rileva una prospettiva estremamente riduttiva della redenzione operata da Cristo, in quanto, partendo dal principio aut poena aut satisfactio, si giunge alle conseguenze secondo le quali Anselmo capovolgerebbe la priorità della misericordia sulla giustizia di Dio. Inoltre, ponendo l’accento sulla satisfactio da parte dell’uomo e non nel dono libero da parte di Dio, di fatto si obbliga Dio ad incarnarsi perché l’uomo non è in grado di soddisfare il proprio debito. Infine, si ha una sorta di estrinsecismo del peccato in quanto sembra non tocchi Dio o l’uomo ma l’ordo universi: così la morte di Cristo non assume la dimensione della solidarietà con l’uomo peccatore, ma resta estrinseca e riduttiva poiché si coglie solamente come atto dovuto dal Figlio quale prestazione esteriore (estrinsecismo) per ottenere la satisfactio (riduzionismo) […]
    Hans Kessler (Die theologische Bedeutung des Todes Jesu. Eine traditionsgeschichtliche Untersuchung, Patmos, 1970, p.83-165) […] accoglie nell’ambito della teologia cattolica […] sia le articolate istanze critiche avanzate alla teoria della redenzione anselmiana dalla teologia liberale di Adolf von Harnack, sia le conclusioni a cui era giunto lo studio relativo alla metodologia del Cur Deus homo di Hammer. Nella prospettiva di Harnack, ripresa da Kessler, in Anselmo la redenzione viene interpretata attraverso categorie giuridiche, con conseguente lettura del rapporto Dio-uomo in un’ottica in cui la dimensione interpersonale è ridotta agli aspetti giuridico-esteriori del dare-avere; inoltre […] vi è un’assolutizzazione della morte di Cristo che viene isolata dall’Incarnazione, dalla storia concreta di Gesù e dalla Resurrezione […]
    Bruno Forte (Gesù di Nazaret, storia di Dio, Dio nella storia. Saggio di una cristologia come storia, Paoline, Roma 1981, p. 277) vi individua un ordine della giustizia proposto in modo «da farne quasi un assoluto a cui anche la stessa libertà divina sembra piegarsi», inoltre sembra che «giustizia è fatta quando la colpa è vendicata mediante la pena» e infine il ‘merito’ «invece che come relazione dialogale di amore e di libertà con Dio [...] come rapporto di dare-avere, che non si concilia con il primato assoluto dell’iniziativa gratuita dell’amore divino». Similmente, Duquoc (Cristologia, Queriniana, 1972, p. 513) afferma che «S. Anselmo, nel Cur Deus homo, stabilisce la logica intradivina partendo da una categoria pensata giuridicamente: la soddisfazione. Inoltre l’avvenimento della morte di Gesù è predisposto in modo tale che i farisei, Pilato, il popolo fanno le comparse» per cui la salvezza diventa un atto intradivino astratto dalla storia dell’umanità la quale è semplicemente spettatrice».

    Le chiedo, Padre Giovanni, a chi ancora ripresenta queste critiche cosa si deve rispondere?

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    1. Caro Bruno,
      la raccolta di tutti questi pareri, più o meno discordi tra di loro, mi apre un quadro su di una pluralità di interpretazioni della dottrina anselmiana della Redenzione che mi sembra piuttosto sconfortante.
      La critica che si trova quasi dappertutto fatta ad Anselmo di usare la categoria della soddisfazione non vale niente, perché questa categoria entra nel dogma tridentino.
      La critica invece che si può fare a Sant’Anselmo è di avere esagerato nel cercare delle necessità dell’azione divina laddove, come spiegherà San Tommaso, si tratta di convenienze, inquantoché il Padre non è stato obbligato ad esigere soddisfazione, ma, se avesse voluto, avrebbe potuto perdonarci senza esigere soddisfazione.

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  5. Grazie Padre. Ė interessante notare come anche in chi come, Anselmo, ha fede, e quindi mette la fede prima della ragione, poi sbagli cercando una necessità in Dio quando in realtà, Dio, come Dice San Tommaso, invece, ha agito così per convenienza. Una differenza non da poco. Questo mi dice come sia raffinato il pensiero di Tommaso.
    Per quanto riguarda il Papa emerito, penso che sia giusto correggerlo con gli argomenti che Lei espone in un lungo discorso che non penso Ratzinger troverebbe sbagliato. Lo sapremo in Cielo.

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    1. Caro Alessandro,
      effettivamente bisogna riconoscere che obiettivamente Sant’Anselmo ha preteso troppo dalla ragione nel campo del mistero di Cristo.
      Tuttavia io credo che bisogni avere anche un po’ di comprensione, per il fatto che il sec. XII vede l’inizio sistematico dell’uso della logica nella spiegazione dei misteri della fede.
      Ora, tutti noi sappiamo che gli inizi sono difficili e facilmente ci si sbaglia. Pensiamo solo al caso famoso di Abelardo, il quale addirittura fu condannato da un Concilio per avere esagerato nell’uso della logica.
      Così, per quanto riguarda Sant’Anselmo, non possiamo ritenere che sia stato un presuntuoso come lo è stato Abelardo, ma molto probabilmente si è fortemente impegnato nella argomentazione logica, credendo con ciò di rendere onore a Dio e di applicare il famoso detto agostiniano credo ut intelligam.
      Voglio dire che sulla base della fede, che Anselmo possedeva in modo esemplare, Anselmo, proprio alla luce della fede, ha voluto usare al meglio la ragione per far luce sul mistero della fede.
      San Tommaso viceversa, a parte il suo genio eccezionale, ha potuto valersi ormai di un secolo di uso della ragione nell’interpretare i misteri della fede, e per questo la sua impostazione è più equilibrata, per cui egli introduce le ragioni di convenienza al posto di quelle necessarie invocate da Anselmo e, se Tommaso parla di necessità logica, lo fa con ragione, come del resto in alcuni casi lo aveva già fatto Anselmo, mentre in altri casi Anselmo ha dato per necessario quello che è conveniente.
      Ad esempio, Tommaso riprende l’argomento di Anselmo laddove Anselmo sostiene che era necessario che il Figlio si incarnasse, supponendo la volontà del Padre che gli venisse restituita la proprietà della quale era stato derubato.
      Infatti, peccando, l’uomo aveva contratto con Dio un debito che non poteva onorare, essendo caduto in una miserabile condizione. Occorreva allora una persona talmente ricca che fosse in grado di pagare l’immenso debito dovuto a Dio. A questo punto interviene la necessità logica, che è data dal fatto che, essendo solo il Figlio in grado di pagare il debito, era necessario che il Figlio si incarnasse, in modo tale che l’uomo, in Cristo e con la forza dei meriti di Cristo, potesse onorare il debito verso il Padre.

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  6. Probabilmente quello che oggi fa problema è il dover "riacquistare la benevolenza del Dio da noi offeso" (cfr. il notissimo atto di dolore che si recita dopo la confessione dei peccati e prima dell'assoluzione). L'espressione è veritiera, ma forse andrebbe integrata. Ad esempio, volgendo in oggettivo quello che con i termini benevolenza e offesa è declinato in senso soggettivo. Vale a dire che il peccato è un vulnus della/nella relazione di alleanza che Dio ha stabilito e che Cristo ha ricostituito con il suo sacrificio, un vulnus che non può essere riparato sentimentalisticamente, ma secondo spirito e verità.

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    1. Caro Lycopodium,
      il linguaggio relativo al riacquisto della benevolenza divina è tradizionale in tutte le religioni, però capisco che avendo questa impronta psicologico-emotiva si rischia il sentimentalismo.
      Per fare capire la serietà di quel male che è il peccato, questo modo di esprimersi può essere certamente integrato con il riferimento alla ricostituzione dell’Alleanza rotta col peccato. È questo il modo di esprimersi proprio della Scrittura e ovviamente Colui che ha ricostituito l’Alleanza infranta dal peccato è Gesù Cristo col suo sacrificio.

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